Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
I festeggiamenti che accompagnarono il matrimonio fra l’arciduca Joseph – il futuro Imperatore Giuseppe II – e Maria Josepha di Baviera furono occasione – come già ricordato parlando de “Il Parnaso confuso” – di grande visibilità per gli artisti al servizio della corte viennese. Fra i lavori realizzati per l’occasione da Gluck il “Telemaco” riveste un ruolo particolare, accolto con scarso successo dai contemporanei e per ragioni anche indipendenti dal valore musicale – la sua natura sperimentale e decisamente di rottura per gli standard dell’epoca non trovava di certo la miglior collocazione nelle celebrazioni festive di un matrimonio imperiale – si rivela all’ascolto odierno non solo un’opera musicalmente molto interessante ma anche una vivida immagine dei dibattiti culturali che agitavano la vita musicale viennese in quegli anni e di cui Gluck e De Calzabigi non erano gli unici esponenti.
Autore del libretto è infatti qui il livornese Marco Coltellini protagonista di un progetto di riforma in qualche modo parallelo a quello di De Calzabigi, formatosi con Frugoni a Parma nel progetto di aggiornamento dell’opera italiana su modelli francesi propugnato dal primo ministro Du Tillot aveva cominciato a collaborare con Traetta e aveva seguito a Vienna il compositore pugliese nel 1760, la sua “Ifigenia in Tauride” andata in scena al Burgtheater nel 1763 con musiche dello stesso Traetta aveva attirato l’attenzione del mondo intellettuale viennese e il sincero plauso del De Calzabigi. La scelta di Coltellini per un libretto da destinare a Gluck appariva quindi abbastanza giustificabile visto che il librettista e Traetta sembravano percorrere una via per molti aspetti parallela a quella del musicista tedesco. Alla prova dei fatti però il risultato risultò solo parzialmente convincente restando come a metà di un guado senza riuscire a percorrerlo completamente ma va detto che tutte le colpe non vanno ascritte solo al librettista in quanto l’occasione imponendo un’opera seria di impianto sostanzialmente tradizionale impedì un raggiungimento pieno degli ideali riformati.
Andato in scena al Burgtheater di Vienna il 30 gennaio 1765 con un cast di alto valore e soprattutto composto da artisti molto vicini a Gluck con cui avevano già lavorato e di cui condivideva gli ideali artistici – il castrato Gaetano Guadagni, il primo Orfeo come Telemaco, il tenore Giuseppe Tibaldi, i soprani Rosa Tartaglini e Elisabeth Teyber – si presenta infatti come un insolito tentativo di riformare l’opera seria dall’interno. Il plot del libretto risente ancora di modelli metastasiani con le aperture plurime verso storie accessorie e personaggi secondari e quindi molto lontano dalla capacità di Calzabigi di sintetizzare il dramma nei suoi snodi essenziali mentre sul piano della struttura effettiva del dramma si assiste ad importanti trasformazioni. Lo schema metastasiano impostato sull’alternanza fra arie e recitativi viene totalmente stravolto, i confini netti fra i singoli momenti tendono a cadere e a riorganizzarsi per ampie scene concettualmente ad armonicamente compatte in cui i vari elementi tendono a passare l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, grande spazio acquisiscono i momenti d’insieme sia come brani a più voci – duetti, terzetti – sia per il massiccio impegno del coro usato tanto singolarmente quanto in dialogo con i personaggi con una pregnanza e un’intensità sconosciute nell’opera seria tradizionale.
I recitativi divengono il punto centrale dell’espressione e vengono declinati in ogni possibilità dal semplice recitativo secco al declamato ormai sconfinante nell’arioso passando per tutte le possibilità intermedie. Ancora più radicale per certi versi è il lavoro che Gluck e Coltellini portano avanti sull’aria; in primo luogo viene abbandonato quasi totalmente il modello metastasiano dell’aria con da capo ormai sentito come troppo rigido e vincolante e al suo posto si preferisce ricorrere ad ariosi strofici con andamento lineare mentre rari sono i casi in cui si riprendono moduli formali tradizionali fra le quali si può ricordare l’aria di Ulisse “Fremer gonfio di torbide spume” (atto II, scena IV) con il suo ricreare l’effetto dello scorrere impetuoso di un torrente ancora legato ad un’estetica più tradizionale; ma soprattutto ad essere cambiata è la funzione stessa dell’aria che cessa di essere un momento statico di riflessione od emozione per divenire uno snodo dinamico all’interno del quale le vicende tende a proseguire il suo corso.
Un tentativo quindi radicale di rinnovamento che pur senza rinnegare l’opera seria in quanto tale la arricchisce con modelli di diversa influenza – palesi sono i debiti nei confronti dell’opera francese e alcune scene come quella in cui Circe evoca gli spiriti infernali sembrano giungere direttamente dai libretti di Quinault per Lully – la scena finale dell’”Armide” o alcuni momenti di Medée del “Thesée” sembrano essere diretti precedenti – alla ricerca di un nuovo modo di intendere il genere. Il risultato complessivo non è sempre compiuto, spesso la vicenda tende a perdersi in rivoli secondari che le pur straordinarie capacità musicali di Gluck non sempre riescono a ricomporre inoltre i brevi tempi concessi per la rappresentazione non concessero alla partitura le necessarie rifiniture – non è neppur chiaro in quale forma l’opera fu rappresentata e sicuramente alcuni momenti previsti come i balletti non vennero mai composti – il che sicuramente non contribuì alla buona accoglienza dell’opera. Se questo modulo in qualche modo intermedio verrà in seguito rapidamente abbandonato da Gluck che sarebbe tornato con la successiva “Alceste” alla rigorosa concezione drammaturgica di De Calzabigi questa versione più ammorbidita della riforma troverà comunque un certo seguito nell’ambiente culturale viennese si pensi ad esempio all’”Idomeneo” di Varesco per Mozart che in molti elementi sembra rifarsi ad un’analoga impostazione.
La musica di Gluck appartiene pienamente ai nuovi stilemi delle opere riformate in cui il virtuosismo non è sacrificato in toto ma limitato e ricondotto a ragioni sostanzialmente espressive mentre prevale il gusto per una vocalità nobilmente distesa e per un’espressività di sapore decisamente aulico; molti brani ricordano da vicino il precedente “Orfeo ed Euridice” sia nel taglio d’insieme sia nelle caratteristiche melodiche ed armoniche, in alcuni casi si può pensare a riadattamenti dovuti anche alla rapidità di composizione si veda la scena fra Telemaco e il coro invisibile dei compagni di Ulisse trasformati in alberi – atto I, scena VII – in confronto con la parte conclusivo della scena di Orfeo con le Furie. I brani che presentano caratteristiche diverse derivano la loro natura dall’essere sostanzialmente adattamenti di brani da opere precedenti.
La Trama – Atto I
Tempio consacrato ad Amore
La maga Circe offre un sacrificio ad Amore accompagnata da Asteria e Telemaco che prega per la salvezza del padre, l’oracolo risponde accusando la Maga di sacrificare agli Dei quanto è causa di infinite sofferenze per tutti (“Pietà chiedi, e fai tanti infelici”) tenendo per di più un prigioniero da sette anni per la sua insana passione. Telemaco teme di riconoscere il padre nelle parole dell’Oracolo mentre Asteria seguace di Circe è combattuta fra la fedeltà alla Maga e l’amore che sente nascere per Telemaco (“In mezzo a un mar crudele”). I giovani vengono raggiunti da Merione, figlio di Idomeneo e compagno di Telemaco, questi avvisa di aver scoperto che la selva è composta da uomini trasformati in alberi dai malefici di Circe (“Fuggite o Dei, fuggite”).
Orrida Selva di antiche piante
Ulisse ottiene da Circe il permesso di partire e cerca di placare il tormento e le proteste della donna (“Ah, non chiamarmi ingrato”); nel frattempo Telemaco e Merione penetrati nella foresta interrogano inutilmente gli alberi (“Quei tristi gemini”), nel loro peregrinare al fine incontrano Ulisse e Circe, padre e figlio si gettano l’uno nelle braccia dell’altro (“Stringiti a questo seno”) mentre Circe accetta di concedere la libertà agli uomini-albero e trasforma la selva in un giardino di delizie (“Oh come il dolce giorno”).
Atto II
Gabinetto della reggia di Circe
Temendo che la Maga possa mancare fede alla promessa fatta Ulisse e Merione si accordano per fuggire dall’isola (“Dopo si lunghi affanni”).
Grotta d’incanti
I timori degli uomini si rivelano infatti fondati, Circe evoca gli spiriti dei sogni perché presentino a Telemaco le false visioni della morte di Penelope e della distruzione di Itaca così da far sembrare inutile e sconveniente la partenza (“Ombre tacite, e chete, amico sonno”)
Spaziosa camera
Telemaco si sveglia di soprassalto in preda alle visioni evocate da Circe e rivela al padre le rivelazioni avute in sogno (“Ah!Non turbi il mio riposo”) ma il padre lo tranquillizza riconoscendo gli inganni della Maga dietro le visioni. Circe infuriata giunge per incendiare le navi ma scopre che i prigionieri sono ormai fuggiti, rimasta solo impreca contro gli spiriti che non hanno saputo aiutarla e trasforma l’isola in un deserto (“S’a estinguer non bastate”).
Amena spiaggia
Su una spiaggia dell’isola lontana dal palazzo i marinai sono pronti a partire, Amore e Venere fanno rifiorire l’isola e placano il mare, Asteria è in preda ai sensi di colpa combattuta se lasciare l’isola e tradire Circe o abbandonare l’amato (“Perdo, oh Dio, l’amato bene”) viene raggiunta da Merione che gli rivela essere sua sorella Antiope rapida da bambina da Circe e già promessa a Telemaco, superato ogni indugio decide di partire con il fratello e l’amato. Tutti si preparano a prendere il mare e a tornare a casa (“Al patrio lido”).
La registrazione
“TELEMACO o sia L’ISOLA DI CIRCE”
Dramma per musica in due atti su testo di Marco Coltellini, dal dramma di Sigismondo Capece
Prima rappresentazione, Vienna Burgtheater 30 gennaio 1765
Ulisse, Re di Itaca Douglas Ahlstedt (tenore)
Telemaco, suo figlio Grace Bumbry (contralto)
Merione, figlio di Idomeneo e compagno di Telemaco, Gabrielle Sima (soprano)
Asteria, seguace di Circe riconosciuta sorella di Merione Maria Gallego (soprano)
Circe, figlia del Sole, amante d’Ulisse Cheryl Studer (soprano)
La voce dell’Oracolo Ivan Urbas (basso)
Wiener Kammerorchester e Wiener Univesitätchor
Direttore Ernst Märzendorfer
Maestro del coro Johannes Brinks
Registrazione: ORF live (in forma di concerto) 19 maggio 1987
Registrazione della prima ripresa moderna di quest’opera la registrazione viennese del 1987 ha il merito di poter disporre di un cast di primissimo piano almeno nei ruoli principali capace di darne una lettura decisamente convincente e quasi di far passare in secondo piano certi difetti congeniti. Per quanto non eseguita secondo la moderna prassi filologica la scelta di affidare la parte strumentale ad un complesso di ridotte dimensioni e di buona famigliarità con la classicità viennese si rivela ottima idea in quanto la Wiener Kammerorchester riesce a dare della scrittura di Gluck un’idea sicuramente più attendibile di quanto avrebbe potuto un’orchestra sinfonica moderna di grandi dimensioni e anche il coro dell’Università di Vienna fornisce una prova assolutamente convincente specie considerando il notevole impegno che in quest’opera Gluck richiede alle masse corali.
La direzione di Ernst Märzendorfer non presenta particolari colpi d’ala né quelle capacità di approfondimento stilistico ma è sicuramente molto solida e impostata a grande attenzione nell’accompagnamento dei cantanti, le sonorità sono spesso dense e di una certa importanza ma le ridotte dimensioni della compagine orchestrale evitano eccessi in tal senso. Si riscontra la presenza di numerosi tagli specie nei recitativi ma anche qualche momento strofico è ridotto come il grande monologo di Asteria nella scena IV del I atto.
Strepitosa protagonista Grace Bumbry. Per quanto la cantante americana avesse all’epoca già numerosi decenni di carriera sulle spalle il materiale è ancora straordinariamente ben conservato e trattandosi di una delle voci mezzosopranili più belle del Novecento il risultato non può che essere notevole. Ma non è solo il mezzo vocale in se a colpire l’ascoltatore ma il fatto che esso è sempre perfettamente controllata sul piano tecnico – da ascoltare la naturalezza con cui una voce imponente come quella della Bumbry dipana i passaggi di coloratura – mentre l’accento ha tutta la nobile classicità richiesta così che momenti di grande intensità emotiva come la scena della foresta con coro o l’aria del sonno emergono in tutte le loro possibilità.
Altro elemento di forza del cast è la Circe di Cheryl Studer, nota principalmente come cantante wagneriana e straussiana il soprano americano ha affrontato con successo anche il repertorio classico e belcantista. La parte di Circe è sempre impostata su tonalità di un parossismo espressivo estremo e la Studer riesce a mantenere per tutta l’opera la giusta tensione inoltre una voce così robusta, ampia e scultorea da al personaggio una presenza espressiva ben difficile da raggiungere per i ben più limitati mezzi espressivi di molte specialiste. I grandi declamati drammatici come l’evocazione degli spiriti del sonno “Ombre tacite, e chete, amico sonno” o la grande scena finale di furore “S’a estinguer non bastate” sono ovviamente ideali per i mezzi della Studer ma anche la virtuosistica aria del I atto “In mezzo a un mar crudele” – autentica aria di tempesta di matrice tutta metastasiana seppur rivista alla luce del nuovo gusto – è ottimamente risolta e gli impervi passaggi di coloratura pur dando l’impressione di una non completa naturalezza non mancano di efficacia specie considerando che siano in presenza di una voce di considerevole volume.
Molto brava anche Gabrielle Sima come Merione. Voce morbida, carezzevole, dalle interessanti venature mezzosopranili sorretta da un’ottica tecnica e da una linea di canto elegante e ben rifinita; il personaggio si esprime spesso su toni di nobile lirismo che già si riconoscono nella cavatina “Ah, crudel, perché ti piace” (atto I, scena III) e che trovano la più alta espressine nell’aria del II atto “Se nega a tuoi sospiri” (scena VI) molto interessante anche sul piano strutturale in quanto viene a chiudere in importante blocco formato da un primo duetto con Telemaco, da un assolo di questi “Un infelice, funesto esempio” e da una ripresa del duetto che si susseguono senza soluzione di continuità e testimonia la precisa volontà di andare oltre i rigidi schematismi formali della tradizione. Buona la prova anche di Maria Gallego come Asteria, il soprano mostra una voce lirica e delicata ottenendo un buon contrasto con l’andamento più drammatico di Circe e particolarmente adatto ad un personaggio che predilige tonalità elegiache come nella bell’aria “Perdo oh Dio l’amato bene” di un purissimo classicismo che l’avvicina ai migliori momenti di Orfeo. Meno entusiasmante la parte maschile, il tenore Douglas Ahlstedt è un Ulisse dalla voce chiara e squillante e dalla buona proiezione in acuto che rende bene i momenti di maggior abbandono lirico come “Ah non chiamarmi ingrato” (atto I, scena V) dal taglio pienamente riformato mentre in brani dal carattere più virtuosistico come “Fremer gonfio di torbide spume” appare messo in difficoltà dai rapidi passaggi di coloratura, inoltre in molti recitativi si sarebbe preferito un maggior spessore drammatico. Nella parte dell’Oracolo il basso Ivan Urbas mostra una voce profonda e corposa ma è limitato da una pronuncia italiana gravemente deficitaria.