Pisa, Teatro Verdi: “Il ghetto – Varsavia 1943”

Teatro Giuseppe Verdi  – Stagione Lirica 2014/2015
“IL GHETTO – VARSAVIA 1943”
Dramma lirico in tre tempi su libretto di Dino Borlone
Musica di Giancarlo Colombini
Justa  MARINA SHEVCHENKO
Isacco  GIANNI MONGIARDINO
Marek  ITALO PROFERISCE
Sara  LAURA BRIOLI
Feri  GIANNI COLETTA
Samuele  VEIO TORCIGLIANI
Il Polacco  ANTONIO PANNUNZIO
Soldati delle SS  ANTONIO PANNUNZIO, VLADIMIR REUTOV, FRANCESCO BAIOCCHI
Orchestra Arché
Coro Laboratorio Lirico San Nicola
Direttore Gianluca Martinenghi
Maestro del coro  Stefano Barandoni
Regia  Ferenc Anger
Scene e costumi  Giacomo Callari
Luci  Michele Della Mea
Prima esecuzione mondiale (seconda recita)
Pisa, 23 novembre 2014

Ghetto Pisa novembre 2014-1Il Teatro Verdi di Pisa è una della rarissime realtà italiane che si occupano di mettere in scena con una certa periodicità opere moderne o contemporanee: un paio di stagioni fa è stata la volta di Falcone e Borsellino,  dramma in musica di Antonio Fortunato con libretto di Gaspare Miraglia, rappresentata a Pisa in prima assoluta.  Adesso la scelta è caduta su un’opera, Il ghetto – Varsavia 1943, che, composta nel 1960, chiamare moderna, e tantomeno contemporanea, è davvero una forzatura.  Se avessimo la macchina del tempo e potessimo tornare nel 1914, senza dubbio vi riderebbero in faccia se definiste moderne opere di cinquant’anni prima come Un ballo in maschera o La forza del destino.  L’opera lirica e la musica classica in generale sono le uniche forme artistiche in cui si è creata questa scissione fra il grande pubblico e l’artista.  A nessuno verrebbe in mente di considerare contemporanei, ad esempio Beatles: attuali e ancora rilevanti, in grado esercitare ancora una forte influenza indubbiamente, ma non certo contemporanei.
Del resto Il ghetto – Varsavia 1943  era in odore di passatismo già all’epoca della sua creazione.  Il compositore, Giancarlo Colombini, ritenendo che uno dei motivi del distacco fra il pubblico e l’opera “moderna” fosse la deliberata scelta della maggioranza dei compositori, o in ogni caso quelli che facevano più “tendenza”, di creare opere astratte, con temi dalla scarsa valenza emotiva, lavori auto-referenziali che i compositori scrivevano per uno sparuto gruppo di intellettuali e di musicisti “impegnati”, preferì quindi orientarsi su soggetti di forte impatto e di valore universale, come in questo caso la sorte di una famiglia ebrea durante della distruzione del ghetto di Varsavia, fra il 15 e il 16 maggio del 1943.  Colombini, nato a Milano nel 1906 e deceduto nel 1991, si cimentò in molti generi ma non fu compositore molto prolifico: la sua biografia ufficiale riporta dodici lavori e mezzo (l’ultima opera incompiuta, Masha) e circa metà di questi sono opere liriche, tra cui la più ricordata è sGhetto Pisa novembre 2014-2enza dubbio la prima, Jade, scritta nel 1959 ma eseguita dalla RAI solo a partire dal 1960; molto probabilmente la sua composizione di maggior successo di pubblico sono comunque stati i Sei momenti francescani, liriche per soli e orchestra trasmessi dalla RAI e da Radio Vaticana con una certa frequenza.  Il ghetto – Varsavia 1943, opera lirica in tre atti di Dino Borlone (che da quel momento in poi versificò tutte le opere di Colombini) venne composta nei primissimi anni ‘60; una decina di anni dopo fu presentata al concorso Internazionale “Guido Valcarenghi” – presidente della giuria Herbert Von Karajan – e premiata con la targa d’argento, ma per l’onore di una rappresentazione teatrale ha dovuto attendere cinquantaquattro anni.
Marcello Lippi, direttore artistico per le attività musicali del Teatro Verdi, annunciando l’opera al proscenio subito prima dell’inizio ha parlato dell’ostracismo incontrato in quegli anni da Colombini a causa del suo linguaggio musicale, rifacentesi alla tradizione romantica italiana, diverso da quello allora imperante.  A dire il vero, personalmente di melodia in quest’opera non ne ho avvertita molta.  Ci sono timidi accenni melodici sparsi qua e là; sono di brevissima durata, nascono e muoiono nello spazio di una manciata di battute.  L’orchestra canta di più dei cantanti, ai quali viene spessissimo richiesto di martellare per lunghi periodi sulla zona più scomoda della voce, quella del passaggio di registro e dei primi acuti, e questo è vero soprattutto per le voci tenorili.  L’orchestrazione, che può tranquillamente definirsi tardo-romantica, riecheggiante lo Strauss di Elektra e la Turandot pucciniana (cellule melodiche che accompagnano le apparizioni del Mandarino e delle tre maschere fanno più volte capolino), è massiccia, persino nella riduzione eseguita dal  Prof. Luigi Pecchia , commissionata dalla famiglia Colombini per rendere l’opera più accessibile a teatri dalle buche orchestrali di medie dimensioni.  I momenti di maggior interesse sono il “duetto dei fiori” nel primo atto, la morte del piccolo Michele nel secondoGhetto Pisa novembre 2014-3 atto e soprattutto il valzer macabro indicato in partitura “allegretto grottesco e capriccioso” che apre questo stesso atto e stempera la tensione accumulata nel primo.  Il libretto di Dino Borlone, molto più giovane del compositore ma scomparso nello stesso anno 1991, è di impianto verista: i personaggi esprimono il loro terrore, rabbia, dolore e impotenza in termini semplici e diretti.  L’azione si svolge in poche ore ed ha come protagonista una famiglia ebrea che, informata dell’imminente distruzione completa del Ghetto, vacilla fra la tentazione di fuggire nelle foreste e quella invece di rimanere e attendere stoicamente la fine.  Ogni personaggio è ben delineato: su tutti spicca Justa, giovane donna dalla personalità forte, decisa a votarsi a certa morte, anche se nel bel duetto del primo atto rimpiange amaramente quel che poteva essere e non è stato; oppure Sara, madre che dopo aver perduto il piccolo figlio, ne nasconde il corpo al fine di continuare a ricevere la sua razione di cibo, e per poi cadere in uno stato di delirio.
In linea con lo spirito naturalistico del libretto, il regista ungherese Ferenc Anger ha creato una scena unica consistente in uno spaccato della casa della famiglia ebrea, affacciata su due strade, su cui si aggirano minacciosamente come avvoltoi i militari delle SS, che fucilano un uomo e addirittura una madre con due bambine, colpi di teatro posti alla fine dei primo e del secondo atto con evidente intenzione di far calare il sipario subito dopo aver creato un effetto “shock”.  Il direttore d’orchestra Gianluca Martinenghi ha diretto l’ottima Orchestra Arché con molta sicurezza, scegliendo tempi e suoni appropriatamente aguzzi e taglienti per le parti più concitate dell’opera, e sonorità pateticamente morbide nella bella scena della morte del piccolo.  Encomiabile anche la prestazione del Coro Laboratorio Lirico San Nicola diretto da Stefano Barandoni.
Ghetto Pisa novembre 2014-5Marina Shevchenko (Justa) e Laura Brioli (Sara) sono cantanti che nel repertorio tradizionale hanno spesso sollevato qualche perplessità; la scrittura vocale di Colombini, poco incline al legato e alla morbidezza, ha contribuito a nascondere i difetti di fonazione permettendo loro di dar vita a due personaggi vivi, plausibili, convincenti.  La Shevchenko, attrice solitamente placida, ha impartito al ruolo di Justa una rabbia interiore e un’aggressività straordinarie.  Il tenore Gianni Mongiardino, nei panni di Isacco, fidanzato di Justa, presenta vistosi problemi di proiezione del suono: si intuisce uno strumento di un certo volume ed anche facile in acuto (e questo ruolo ne ha davvero molti) che però non passa attraverso l’onda sonora orchestrale.  Interessante il timbro e notevole la presenza scenica dell’altro tenore, Gianni Coletta, nel ruolo di Feri, il membro della famiglia passato al nemico, che cerca inutilmente di redimersi; sarebbe piacevole poterlo ascoltare in opere del grande repertorio.  Veio Torcigliani ha investito di gravitas e autorevolezza i brevi interventi del pater familias Samuele.   Italo Proferisce è un giovane baritono che colpisce ogni volta per la morbidezza del timbro e l’immedesimazione interpretativa.  Completavano efficacemente il cast Vladimir Reutov e Francesco Baiocchi (due soldati delle SS) e Antonio Pannunzio nel duplice ruolo di soldato delle SS e del “Polacco”.
Le opere italiane del periodo post-pucciniano che sono riuscite a vivacchiare sia pur ai margini del grande repertorio sono rarissime, pressoché inesistenti, per cui è altamente probabile che anche Il ghetto – Varsavia 1943 cada di nuovo nel dimenticatoio, anche se forse un soggetto di perenne attualità come questo può indurre altri teatri a riproporla.  A prescindere dai meriti dell’opera, rimane comunque di estrema importanza la volontà del Teatro Verdi di diversificare l’offerta e intraprendere percorsi culturali, come ad esempio quello legato al mito di Don Giovanni, pressoché inauditi in altre realtà provinciali. Foto Massimo D’Amato, Firenze
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