Teatro Massimo – Stagione Lirica 2014
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca HUI HE
Mario Cavaradossi STEFANO SECCO
Il barone Scarpia ALBERTO MASTROMARINO
Cesare Angelotti CARLO STRIULI
Il sagrestano FABIO PREVIATI
Spoletta FRANCESCO PITTARI
Sciarrone DANIELE BONOMOLO
Un carceriere RICCARDO SCHIRÒ
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Piero Monti
Maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Mario Pontiggia
Scene e costumi Francesco Zito
Luci Bruno Ciulli
Allestimento della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino
Palermo, 16 novembre 2014
Volenti o nolenti, ogni allestimento di Tosca che si rispetti deve avere a che fare con questioni di gestione degli spazi scenici. Forse perché tra le opere del grande repertorio il quinto capolavoro di Puccini è quello che più presenta connotazioni storiche e di ambientazione, alle quali non è facile sottrarsi. Pensare a Tosca significa, infatti, profilarsi l’immagine della Roma di inizio Ottocento divisa in tre luoghi, corrispondenti ai tre atti in cui è articolata l’opera: la chiesa di Sant’Andrea della Valle, gli interni di Palazzo Farnese, gli spalti di Castel Sant’Angelo. Respingere o ignorare tali connessioni è un grosso rischio, peraltro raramente perdonato dal vasto pubblico, poco propenso ad accettare deviazioni che ricadrebbero pesantemente sulla drammaturgia. E allora il dilemma che si propone è sempre lo stesso: come conciliare tradizione e modernità, rimanendo fedeli ad un impianto che reca sulle spalle più di un secolo di storia? L’allestimento creato nel 2008 per il Maggio Musicale Fiorentino da Francesco Zito, con regia di Mario Pontiggia, vuole formulare una risposta che proprio sul piano visivo rivela i suoi punti di forza. La scrupolosa adesione all’azione originaria si risolve, infatti, in un realismo di rappresentazione che convince nel momento stesso in cui centra ed esalta le componenti fondamentali della drammaturgia. Nelle parole dello scenografo, è innanzitutto lo spunto visivo della cupola – che incombe nel primo atto e torna in lontananza nel terzo – a fuoriuscire dalla semplice notazione di ambiente per assurgere a simbolo di un potere asfissiante, ossessivo e pervasivo: espressione di una temporalità religiosa che non lascia spazio e che si risolve nell’esatto opposto rispetto a ciò che dovrebbe essere. L’horror vacui che contraddistingue i diversi atti non è quindi puro rimando ad un gesto decorativo di impronta tradizionale, ma diventa elemento fondante e significativo, che nell’esibizione di una preziosità smaccata (ma sempre raffinata ed elegante) veicola un messaggio preciso. Ogni dettaglio ne risulta vivificato: il dipinto della Maddalena – ispirato a La meditazione di Hayez – coniuga perfettamente i due volti dell’Attavanti, con il viso angelico e il seno quasi scoperto, talmente bella da non poter evitare di guardarla, ma sufficientemente impudica da scatenare la furente reazione della gelosa Floria. E nello studio del barone Scarpia i simboli si moltiplicano: dal sontuoso arazzo sullo sfondo alla sfera armillare, dalla statua in stile Canova all’ostensorio sulla scrivania. Lusso, potere e scienza si rincorrono, rivelando un potenziale di distruzione allorché si coniugano con il culto del male fine a se stesso.
Pontiggia costruisce i movimenti rispondendo a criteri di interazione a coppie. Nel primo atto – ad eccezione dell’irruzione finale di due fautori della rivoluzione, con volantini e bandiera francese – la regia scorre senza particolari guizzi, riproponendo nel rapporto corporeo tra Tosca e Cavaradossi le dinamiche di accudimento materno che ormai sono diventate di prassi negli allestimenti degli ultimi anni. Raramente i personaggi rimangono soli. Il secondo atto è tutto un andirivieni di figure inquietanti, nella maggior parte dei casi appartenenti al clero. Uno spazio di continuo attraversato, fondamentalmente pubblico, espanso sia materialmente dagli accorgimenti luminosi di Bruno Ciulli, sia sonoramente dalle invenzioni già presenti nella partitura pucciniana (le note della Cantata che ascoltiamo dalla finestra, geniale nel suo effetto di straniamento). Lo stesso avviene nel terzo atto. L’amplificazione sonora del canto del pastorello e l’atmosfera rarefatta delle campane che si odono nell’alba romana creano un incanto materialmente schiacciato dai tre elementi che dominano la scena: la già citata cupola in lontananza, l’inferriata che separa il proscenio dal piano di fondo e soprattutto il pesante motivo marmoreo con le insegne papali, sul quale Tosca si arrampica nella fuga finale, calpestando quella morsa di oppressione dalla quale con atto estremo riesce a liberarsi. Soltanto tre momenti dell’azione scenica vengono intesi in chiave di isolamento: il Te Deum alla fine del primo atto (perché qui più che mai l’intervento corale viene concepito come ‘sfondo’ ed amplificazione in connotazione blasfema delle brame di Scarpia, complice un Coro del Teatro Massimo in buona forma con la solita punta di eccellenza nel Coro di voci bianche); “E lucevan le stelle” nel terzo atto, grido di disperazione di un Cavaradossi che ha ormai perso ogni slancio libertario, ma non l’impeto nei confronti della donna amata; e soprattutto “Vissi d’arte”, risolto dal regista con un espediente assai efficace: l’abbassarsi delle luci sul palcoscenico e contemporaneamente la flebile accensione di quelle in sala, con un risultato da zoom cinematografico che ricorda, ad esempio, il simile effetto di sospensione temporale realizzato in una scena (guarda caso ambientata in un teatro d’opera) de L’età dell’innocenza.
È proprio la bravura con cui Hui He interpreta il brano a sancirne il trionfo personale, giustamente superiore a quello dei due colleghi. L’attacco modulato, la bellezza dei legati e il morbido fraseggio determinano alla fine dell’aria uno scrosciare di applausi, conditi dalle pressanti richieste – prontamente esaudite – del bis. Qui Tosca è assolutamente sola, non soltanto perché Scarpia si eclissa, ma perché il Dio al quale si rivolge è sordo o addirittura inesistente. Nel complesso il soprano cinese esibisce lungo tutta l’opera una tecnica salda, acuti sicuri e timbro interessante (per quanto con inopportune chiusure che trasformano la maggior parte delle “a” in “o”). L’interpretazione si impreziosisce di dettagli inattesi – ad esempio in “Non la sospiri la nostra casetta” – ma ad eccezione di alcuni momenti non riesce a coinvolgere del tutto, mantenendo una certa distanza dallo spettatore che va a interessare il piano della recitazione e, di conseguenza, della compenetrazione nel ruolo. Se Hui He è vocalmente disinvolta, Stefano Secco al contrario sembra trattenersi, come se avesse paura di osare troppo. Soprattutto nel primo atto i passaggi di registro sembrano incerti e gli acuti perdono di squillo, evidenziando una leggera esitazione nei punti di maggiore difficoltà. In seguito la situazione migliora, attraverso un percorso di maturazione che conduce all’allettante prova di “E lucevan le stelle”, anche questo replicato per acclamazione unanime del pubblico. Apparentemente Alberto Mastromarino avrebbe tutte le carte in regola per offrire una buona resa del personaggio di Scarpia, da interprete navigato ed esperto qual è. Il comportamento è infatti adeguato e sul piano canoro non si riscontrano grandi problemi, ma il timbro del baritono presenta una nota stridula che penalizza la costruzione dell’affascinante ma crudele capo della polizia pontificia. Più che demoniaco, Scarpia finisce per avere qualcosa di caricaturale e si atteggia in modo eccessivamente rilassato, mostrandosi maggiormente attratto dal buon vino che dalle grazie della generosa Tosca. Da lui ci aspettavamo molto di più, così come dai due sgherri che lo affiancano, Francesco Pittari nel ruolo di Spoletta e Daniele Bonomolo nel ruolo di Sciarrone. Corretto Carlo Striuli nelle vesti di Angelotti e ancor più Fabio Previati in quelle del Sagrestano, mestierante di razza che si esibisce in un divertente balletto poco prima dell’entrata in scena di Mastromarino.
Che poi Tosca sia un’opera nelle corde del direttore d’orchestra, Daniel Oren, è parso chiaro a tutti. È senza dubbio lui il protagonista assoluto della serata, letteralmente indemoniato nel modo in cui ha saputo trascinare l’orchestra senza concederle (e concedersi) un attimo di sosta, al punto tale da temere che qualcuno dei paludati ecclesiastici presenti sul palcoscenico si improvvisasse nel ruolo di esorcista. Per fortuna ciò non è avvenuto e il direttore israeliano si è espresso con energia incontenibile, alternando grida, canti, sussurri e strepiti, assai più ‘tremendi’ di quelli metaforicamente trasmessi dal potere occulto della Roma pontificia. Le sonorità che Oren ha saputo trarre dall’Orchestra del Teatro Massimo in alcuni punti sembravano togliere il fiato: accelerazioni improvvise, crescendo fulminei, smorzature in pianissimo, escursioni dinamiche. Tutto questo è stato condotto con tale sicurezza da rasentare la perfezione (a mo’ di esempio citerò soltanto l’effetto straordinario ottenuto durante la scena della tortura, con magnifica intesa tra le diverse sezioni orchestrali). Una lettura talmente grandiosa, sinfonica e novecentesca da poter addirittura fare a meno delle voci e da essere di per sé sufficiente a correre in teatro per ascoltare questa Tosca. Probabilmente alla ‘cantata’ sono mancati i divi, ma di certo non si sono limitati a strimpellare gavotte. Repliche sino al 26 novembre. Foto Franco Lannino/Studio Camera