“Adriana Lecouvreur” al Comunale di Sassari

Teatro Comunale – Stagione Lirica 2014
“ADRIANA LECOUVREUR”
Commedia-dramma di E. Scribe ed E. Legouvé
Ridotta in quattro atti per la scena lirica da Arturo Colautti
Musica di Francesco Cilea
Maurizio LEONARDO CAIMI
Il Principe di Bouillon GIANLUCA MARGHERI
L’Abate di Chazeuil MATTEO MACCHIONI
Michonnet FRANCESCO PAOLO VULTAGGIO
Quinault RICCARDO FASSI
Poisson UGO TARQUINI
Adriana Lecouvreur DONATA D’ANNUNZIO LOMBARDI
La Principessa di Bouillon ELENA GABOURI
M.lle Jouvenot LUCREZIA DREI
M.lle Dangeville LARA ROTILI
Orchestra dell’Ente concerti Marialisa de Carolis
Coro dell’Ente concerti Marialisa de Carolis
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Ivan Stefanutti
Scene e costumi Ivan Stefanutti
Disegno luci Paolo Coduri De Cartosio
Allestimento in coproduzione: Teatro Sociale di Como – Teatro Fraschini di Pavia – Teatro Ponchielli di Cremona – Ente Concerti ´Marialisa de Carolis´ di Sassari
Sassari, 5 dicembre 2014

Si chiude anche quest’anno la stagione lirica organizzata a Sassari dall’Ente Concerti de Carolis, che ha visto degli spettacoli complessivamente dignitosi ma con evidenti pecche produttive e artistiche. I tagli dei contributi locali hanno sicuramente pesato, come su tutte le altre realtà regionali, ma erano ben noti dall’inizio dell’anno: incomprensibile quindi la scelta di non ristrutturare il cartellone per tempo, senza scelte dell’ultimo momento.
Fortunatamente l’allestimento di Adriana Lecouvreur si è rivelato di un certo interesse, soprattutto per il debutto sui palcoscenici cittadini di un titolo che, ora quasi dimenticato, ha goduto in passato di un discreto successo grazie ad alcune gemme ancora abbastanza conosciute. Tutta l’opera invece, complessivamente, mostra varie lacune e spiega anche i limiti di Cilea che, comunque buon musicista, decise prematuramente di abbandonare le scene teatrali per dedicarsi esclusivamente alla musica strumentale e cameristica. Tali limiti sono evidenti essenzialmente nella tenuta drammaturgica e in un senso teatrale a volte incapace di sintesi e punti risolutivi. Il libretto di Arturo Colautti, nonostante le semplificazioni dal dramma originale di Scribe, è contorto, farraginoso e spesso inverosimile all’eccesso: nella rapidità dei meccanismi musicali diventa quindi difficile seguire tutti i dettagli di una vicenda che appare lontana dai gusti reali di un pubblico appena smaliziato. La parte musicale invece presenta un’immediatezza semplice e suadente, aggiornata dal punto di vista armonico e con un’orchestrazione influenzata da elementi impressionistici, chiaramente orientata verso lo stile della “Giovane scuola”. Evidente la preferenza per piccole strutture ritmico – melodiche, spesso simmetriche che, nelle ripetizioni con pochi elementi di variazione, talvolta sfiorano il bozzettismo ma diventano facilmente riconoscibili e assimilabili. Sono interessanti alcuni momenti coloristici, ma l’uso e abuso di alcuni espedienti, come i vari passi solistici degli archi, danno talvolta un carattere patetico un po’ troppo ordinario. Molto bello comunque il sospeso intermezzo orchestrale del quarto atto e assolutamente degne tutte le arie rimaste nel repertorio, che dimostrano una musicalità istintiva e un mestiere sicuro.
L’allestimento, realizzato in coproduzione tra il de Carolis, il Teatro Sociale di Como, il Teatro Fraschini di Pavia e il Teatro Ponchielli di Cremona, prevede l’ennesima trasposizione della vicenda nella prima metà del secolo scorso: quest’anno quattro su quattro, nella passata stagione tre su quattro. Evidentemente è assai “à la page” il decadentismo del periodo che ha visto, in pratica, la fine del nostro melodramma.
In questo caso però si è dimostrata particolarmente felice la scelta di collocare l’opera in un periodo vicino alla sua realizzazione: Adriana Lecouvreur andò in scena per la prima volta il 6 novembre 1902 al Lirico di Milano ed è chiarissima l’artificiosità dell’ambientazione originale settecentesca in un libretto che rispecchia spesso, nei dialoghi e nelle situazioni, la propria contemporaneità.
Il regista Ivan Stefanutti, autore anche delle belle scene e dei costumi, concepisce un elegante spazio in bianco e nero, tendenzialmente scuro, che allude evidentemente ai primordi del Cinematografo. Funzionale l’idea di sostituire il mondo teatrale della Parigi nel XVIII secolo con quello che vedeva nascere la settima arte: la figura della protagonista, diva storica nell’antica Comèdie française, è facilmente sovrapponibile alle grandi figure che, prima nel teatro e poi nelle prime pellicole, crearono un archetipo femminile dominante in tutte le arti all’esordio del XX secolo. Intelligente anche l’idea di suggerire ma non di ricreare esattamente arredamenti e decori dell’epoca, inventando uno stile con elementi tra il Déco e l’Art Nouveau che, nella proiezione deformata e antirealistica di alcuni particolari, sembrerebbe preludere all’espressionismo. Il grande quadro policromo della storica attrice Lyda Borelli, che compare nella scena finale, glorifica la diva morente, forse anticipando il futuro avvento nel cinema del colore e la fine di un mondo dal fascino crepuscolare.
Anche i tagli di luce di Paolo Coduri De Cartosio collaborano bene all’idea unitaria scolpendo i profili, enfatizzando i lunghi strascichi luccicanti e dando rilievo a figure che sembrano distaccarsi dall’uniformità del fondo. La recitazione è nel complesso abbastanza coerente con l’assunto di base, per una regia che prevede movimenti composti e controllati, pur nell’enfasi dei momenti drammatici; francamente non ben risolta, ma veramente difficile inventarsi qualcosa, l’impossibile scena del dialogo tra le due rivali che nella penombra non si riconoscono. Uno spettacolo comunque coerente e ben realizzato, diretto con intuizioni precise e originali, senza bisogno di ricorrere a bizzarrie che colmino la mancanza d’idee.
La diva nell’occasione è stata un’ottima Donata D’Annunzio Lombardi che, non dotata naturalmente di una grande figura, ha costruito vocalmente un personaggio ragguardevole, ricco di sfumature e controllata nobiltà. Ovviamente grazie a un eccellente controllo dello strumento che non presenta apparentemente punti deboli o difficoltà in tutta la gamma dell’estensione: una grande lezione di canto che dimostra come, pur senza volumi da Arena, si possano creare emozioni senza bisogno mai di forzare la propria vocalità o cercando effettacci da loggione. La sua Adriana predilige i filati, con messe di voce mai forzate e perfettamente intonate; il vibrato è naturale, fresco e mostra una vocalità chiara e intatta, priva dei vezzi che farebbero il colore “drammatico” di troppi soprani precocemente invecchiati. Bellissime le mezze voci in Io son l’umile ancella e anche Poveri fiori è tessuta con un’espressione sempre tesa ma capace di abbandono malinconico.
Leonardo Caimi è Maurizio, ben assortito per bellezza timbrica e fresca espressione con la protagonista. La vocalità è chiara, ampia e capace di buona flessibilità dinamica: la giovanile passione in La dolcissime effigie è molto ben espressa, anche con una naturale eleganza nel fraseggio. Purtroppo compaiono in modo evidente dei limiti tecnici in alcune condizioni, specialmente nelle zone del passaggio e in note articolate: spesso i suoni sembrano perdere posizione sganciandosi dalla “maschera”, con ovvie disuguaglianze nella timbrica e nell’intonazione. Ciò è poco comprensibile perché non è avvertibile nei grandi e progressivi archi melodici, anche in condizioni di maggior difficoltà tecnica: farebbe pensare più a una situazione occasionale, dovuta magari a non perfette condizioni di salute. Un peccato, perché l’interprete veste il ruolo, per vocalità e recitazione, con molta naturalezza.
La principessa di Bouillon, contraltare alla figura della protagonista, è stata impersonata da Elena Gabouri, mezzosoprano-contralto di notevoli mezzi vocali per volume e sontuosità timbrica. Impersonata è il termine che viene più spontaneo nel definire l’aderenza a un topos vocale che traccia alcuni dei più intensi ruoli femminili nella storia del melodramma: Amneris, Azucena, Ulrica fanno parte della linea da cui discende la rivale di Adriana. Niente da eccepire sul carattere e l’energia; da questo punto di vista è assolutamente apprezzabile l’entrée del secondo atto Acerba voluttà. Nel complesso però il personaggio non ha le sfumature vocali e di carattere che darebbero spessore al ruolo: una cattivona senza la seduttività e l’ambiguità del male. Anche lo sfoggio dell’impressionante registro di petto risulta talvolta un po’ abusato ed eccessivamente disuguale nel passaggio a quello di testa, mentre il vibrato appare spesso monotono e senza un grande controllo dinamico.
Francesco Paolo Vultaggio disegna bene Michonnet, la figura più moderna e simpatica dell’opera: interessante il suo mezzo carattere, insolito nel taglio piuttosto drammatico di tutto il lavoro. La giovane età non gli consente la postura dell’anziano innamorato senza speranze, ma nel complesso il personaggio è sicuramente credibile e a suo agio nel non facile ruolo. Non facile anche vocalmente: gli estremi di gamma appaiono non sempre a fuoco per emissione e sicurezza, però il timbro piacevole e l’evidente disinvoltura portano nel complesso a un giudizio positivo.
Buona anche la prova di Gianluca Margheri che dà corpo e autorevolezza al Principe di Bouillon ed è ben centrata la caratterizzazione dell’Abate di Chazeuil, fatta da Matteo Macchioni, personaggio in cui è necessaria più una buona recitazione che una grande e bella vocalità. Sufficiente nel complesso la prova del quartetto Quinault, Poisson, Jouvenot e Dangeville: Riccardo Fassi, Ugo Tarquini, Lucrezia Drei e Lara Rotili, con evidenti differenze, hanno dato discreta vivacità e colore al particolare gruppo di caratteristi previsti nell’opera.
Era molto atteso Andrea Battistoni: il giovane direttore d’orchestra ha confermato le sue doti di buona tenuta ritmica e soprattutto di musicalità, assecondata da un gesto chiarissimo ed espressivo. Intendiamoci, con poche prove non si possono fare miracoli ed erano evidenti la mancanza di pulizia in vari passaggi e le imprecisioni nelle scene d’insieme tra orchestra e palcoscenico: ma almeno si sono sentite delle belle dinamiche e il tentativo di tirare fuori qualcosa dall’interessante orchestrazione di Cilea. Alcuni eccessi negli ottoni gravi sarebbero stati da tenere sotto controllo, in particolare visto il risicato numero degli archi, ma il respiro generale e il fraseggio sono stati sicuramente ammirevoli. Puntuale il coro dell’Ente, preparato da Antonio Costa, nei brevi interventi richiesti dalla parte e apprezzabile la coreografia che ha visto l’elegante intervento di tre danzatori impegnati nel “Giudizio di Paride”, la scena bucolica più spiccatamente metateatrale dell’opera.
Anche stavolta, nonostante la circolazione di vari biglietti omaggio, e con solo due spettacoli previsti, il teatro presentava vuoti preoccupanti: però i presenti hanno avuto sicuramente ragione applaudendo con calore arie e interpreti. Foto di Sebastiano Piras