“La voix humaine” e “The telephone” a Lucca

Teatro del Giglio – Stagione Lirica 2014/2015
“LA VOIX HUMAINE”
Tragedia lirica in un atto di Jean Cocteau
Musica di Francis Poulenc
Elle  ALDA CAIELLO
“THE TELEPHONE, OR L’AMOUR À TROIS”
Opera buffa in un atto di Giancarlo Menotti
Musica di Giancarlo Menotti
Lucy  TERESA SEDLMAIR
Ben  EMILIO MARCUCCI
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Direttore  Jonathan Webb
Regia  Sandro Pasqualetto
Scene e costumi  Cristina Alaimo
Luci  Claudio Schmid
Coproduzione Teatri Alighieri di Ravenna, Teatro del Giglio di Lucca, Fondazione Teatri di Piacenza
Allestimento Fondazione Teatro Comunale e Auditorium Bolzano 2010
Lucca, 6 dicembre 2014

La voix humaine Lucca dicembre 2014-2Come tutte le Donne Letizie del mondo certamente vi consiglieranno, la prima cosa da non fare alla fine di una relazione è avvicinarsi a un telefono. A meno che non desideriate scusarvi, riconciliarvi, o perdere ogni briciolo di orgoglio che vi rimane, non dovete assolutamente chiamare. Fino a che non avete completamente metabolizzato l’evento, il telefono è il vostro nemico. Eppure anche con questi sani consigli che vi ronzano nelle orecchie, il telefono continua ad apparire come una linea di comunicazione verso periodi più felici. E mentre componeva la sua opera in un atto sul monologo inflessibilmente realistico di Jean Cocteau (La voix humaine, 1930), Poulenc era ben a conoscenza della natura della paura, depressione ed esaurimento nervoso che l’ossessione e la perdita dell’amante può comportare. “Sto scrivendo un’opera – sai di che cosa si tratta: una donna (o meglio io) sta chiamando per l’ultima volta il suo amante che si sposerà il giorno dopo”. Poulenc aveva appena perso un amante e stava soffrendo per la separazione forzata da un altro. Traendo quindi ispirazione dalla propria vita, oltre che da quella della sua musa, Denise Duval, che pure aveva appena subito un trauma sentimentale, il compositore descrisse La voix humaine come una sorta di “confessione in musica”. Più volte raccontò di come lui e la Duval, creatrice del ruolo, piangevano insieme “pagina dopo pagina”, “battuta dopo battuta”, riferendosi alla loro creazione come al “diario della nostra sofferenza”. Esiste persino una fotografia di Cocteau travolto dall’emozione durante le prove all’Opéra-Comique di Parigi, le sue lacrime genuine quanto l’ammirazione per l’arte di Poulenc; in seguito ringraziò il compositore per aver definito una volta per tutte la maniera di esprimere al meglio il suo testo. Sono solo le parole e la musica ad esser riconciliate, comunque, in questo dramma di separazione.
E parlando di unioni, data la sua breve durata, questo capolavoro novecentesco viene quasi sempre rappresentato insieme a qualche altra opera in un atto. In questo caso la scelta è caduta su The Telephone, or L’Amour à trois di Giancarlo Menotti: nonostante siano state composte a poco più di un decennio di distanza l’una dall’altra, in comune hanno ben poco, se non la presenza, anzi la centralità  di un oggetto, il telefono. In La Voix Humaine, l’eroina passa tutta l’opera al telefono a parlare con il suo ex amante, dapprima cercando di nascondere la propria angoscia, raccontando bugie, chiamandolo con teneri vezzeggiativi, e poi, mentre le scivola via la maschera, inizia a crogiolarsi nell’ autocommiserazione, implorandolo e minacciandolo. Si accorge dal suono di una musica jazz che lui non è a casa e che vuole soltanto liberarsi di lei. Infine, una volta arrivata al colmo della sopportazione, si avvolge il filo del telefono intorno al collo; promettendo di comportarsi bene, lo invita a buttar giù (e lui l’ha già fatto), mormorando in continuazione “Je t’aime” a un amante incurante attraverso un ricevitore che ormai non sente e non comunica più.
Nonostante sia stata composta per un grande palcoscenico, un teatro di modeste dimensioni come il Giglio è indubbiamente più adatto a ospitare un lavoro tanto intimo che non nascondo di essermi sentito sempre un po’ voyeur ad assistere fra il pubblico allo sgretolamento psichico e fisico di questa donna. Poulenc impiega una grande orchestra, ma è attentissimo a rispettare le esigenze vocali del soprano, con cambi fulminei di umore e colore dipinti su una tela nevrotica. Qualunque sia lo stato d’animo della donna, nascondendo il panico e la desolazione con un chiacchiericcio superficiale, il colore orchestrale penetra i suoi pensieri più intimi, riflettendo il suo vero stato d’animo mentre si avvicina pericolosamente verso il baratro. Un tema sentimentale risuona doppiamente disperato nel suo commovente riferimento ad un incontro a Versailles, all’inizio della loro relazione, ma più tardi, il pensiero che l’uomo possa portare la sua nuova donna al “loro” albergo a Marsiglia la spinge in uno stato di isterismo.  Ad interpretare il ruolo davvero ostico di Elle è Alda Caiello, uno dei rari  soprani italiani che hanno scelto di dedicarsi, e con successo, alla musica novecentesca e contemporanea. Poulenc e la Duval hanno lasciato numerosissime e dettagliatissime testimonianze del loro processo creativo, per cui ogni soprano deve necessariamente scontrarsi con l’interpretazione della creatrice, anzi co-compositrice, che per quanto gigantesca e imprescindibile, può anche conoscere alternative.  Unico punto fermo, ribadito da Poulenc anche nel frontespizio della partitura, è che Elle non deve essere una donna di una certa età abbandonata da un amante più giovane, volontà spessissimo ignorata in quanto la tessitura centrale del ruolo ha sempre fatto gola a cantanti attrici in declino, che si abbandonano spesso a istrionismi di sicuro effetto benché decisamente sopra le righe. Di Elle, a parte il fatto che è una donna giovane ed elegante, non si sa molto; non è noto soprattutto il motivo per cui viene abbandonata dall’amante, ed è qui che l’artista chiamata ad interpretare il ruolo può dire la sua. Innanzitutto, perché si lascia trattare in tal modo? Sta compiendo un grande sacrificio lasciandolo andar via? Oppure la loro relazione è talmente intensa che se non possono vivere l’uno senza l’altra, non possono neanche vivere l’uno con l’altra? O forse lui è di classe sociale tanto elevata da non poterla sposare, rifiutandosi anche di tenerla come amante?  L’interpretazione complessivamente dimessa e un po’ sotto tono della Caiello sembra suggerire la possibilità che Elle sia sempre stata succube della volontà di un uomo molto più forte; è un’interpretazione diversa da quella più tradizionale della diva nevrotica dalla personalità magnetica, ma ugualmente valida ed anzi in grado di catturare ancora di più la simpatia dello spettatore e quindi muoverlo a più intensa compassione. Da un punto di vista puramente vocale il ruolo presenta un problema di fondo, riconosciuto anche dalla stessa Duval: la tessitura centrale sarebbe più ideale per un soprano drammatico, che però avrebbe più difficoltà ad esprimere i repentini scatti isterici verso l’acuto, incluso un do sovracuto di difficile esecuzione che Poulenc volle mantenere nonostante le obiezioni della sua musa. La Caiello ha un timbro da soprano lirico omogeneo e di bel colore e di medio volume, in grado di affrontare con sicurezza le virate verso gli acuti e di non lasciarsi soverchiare, se non in rari momenti quando la scrittura vocale è davvero grave, dalla marea orchestrale. La limpidezza del suono le permette un’ottima articolazione del testo, di cruciale importanza in simili circostanze.
Su tutt’altro pianeta ci troviamo con The Telephone, or L’Amour à trois, scritta da Giancarlo Menotti nel 1947. Spesso definita “skit music”, ovvero “scenetta comica in musica”, The Telephone fu composto come “curtain raiser”, un avanspettacolo per alcune recite di The Medium (1946), allo scopo di creare un forte e tragico contrasto. Qui il telefono, come suggerisce il titolo alternativo, diventa parte integrante della relazione fra Lucy (soprano di coloratura) e Ben (baritono): l’uomo, che sta per partire per un viaggio importante e ha pochissimo tempo a disposizione, ha tuttavia qualcosa di molto importante da dire alla ragazza, la quale è invece costantemente impegnata a fare o ricevere telefonate e non gli presta attenzione; esasperato, Ben lascia la stanza e le telefona da una cabina telefonica in strada (che in questo allestimento diventa il telefono della portineria di un albergo); le propone di sposarlo e la ragazza accetta prontamente, ad una condizione: che non si dimentichi mai il suo numero di telefono. The telephone è un’operina sostanzialmente tonale, ricca di musica allegra, brillante che molto deve all’opera buffa italiana, di cui mantiene addirittura la struttura a pezzi chiusi, come i duetti e l’aria di coloratura, affidata quest’ultima al personaggio di Lucy interpretato dal soprano leggero di origine canadese-tedesca Teresa Sedlmair, la quale, se scenicamente, con i suoi boccoli biondi e i grandi occhi azzurri pareva la perfetta incarnazione del personaggio da svampita WASP immaginato da Menotti, da un punto di vista vocale ha evidenziato agilità non esattamente sgranate e acuti (e qui si tocca anche il re naturale) spesso sfocati e un poco calanti. Emilio Marcucci ha indubbiamente un bel timbro caldo e pastoso, ma una pronuncia inglese francamente inaccettabile, in un ruolo consistente quasi esclusivamente di recitativi e rari e brevi ariosi in zona centrale, gli toglieva credibilità e verosimiglianza: classico esempio di buon cantante alle prese con un ruolo sbagliato.
Alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, una delle più felici realtà musicali italiane, Jonathan Webb ha diretto La voix humaine con grande stile, imprimendo alla narrazione un passo teso ma sciolto, evitando eccessive indulgenze ai morbosi tormenti della memoria, e prestando particolare attenzione alle importantissime pause fra solista e orchestra: in sostanza ha eseguito le volontà del compositore che richiedeva estrema collaborazione fra soprano e direttore. In The Telephone, partitura soltanto in apparenza semplice e superficiale, Webb ha mostrato un senso impeccabile di tempismo comico, rendendo deliziosamente la flessibilità mercuriale dei dialoghi tutto sommato naturalistici, senza tempi morti negli scambi di battute fra i due protagonisti.
Sandro Pasqualetto ha escogitato una soluzione felicissima al dilemma di come mettere in scena, una dopo l’altra, due opere tanto diverse, antitetiche, immaginandole entrambe ambientate nella stessa camera di un hotel della New York degli anni ’50, con tanto di neon sgargiante fuori dalla finestra. La prima ad occupare la stanza, accompagnata dal facchino, è Elle: molto spesso l’opera termina con la protagonista che si adagia sul letto con il filo del telefono avvolto al collo, come indicato nel testo; qui invece, dato che deve sgomberare la stanza per far posto a Lucy e Ben, la donna esce consegnando una busta al portiere, e parte, lasciando il finale aperto, anche se tutto fa pensare che vada a suicidarsi da qualche altra parte. Le due vicende, eseguite ininterrottamente senza intervallo, sono quindi accompagnate dalla presenza degli stessi personaggi, clienti dell’albergo, cameriere, facchini; persino il cane menzionato da Elle compare nella seconda opera come il non meglio identificato regalo che Ben dona a Lucy. Una regia quindi più movimentata del solito per due opere dal carattere statico (soprattutto la prima), e immersa nelle piacevolissime scene di Cristina Alaimo, che si è ispirata al celebre pittore Edward Hopper, tuttora sbalorditivo nella sua abilità di comunicare l’isolamento della persona in ambienti banali.
L’unica timida obiezione che si potrebbe muovere all’allestimento è l’ordine in cui sono state eseguite le due opere. Personalmente avrei preferito la soluzione inversa, con il pubblico che lascia il teatro scosso dall’aver appena assistito alla disfatta di un essere umano, anche se anche, in fin dei conti, persino a un uomo di teatro come Puccini parve più opportuno terminare la propria serie di opere in un atto con una bella risata. Foto Zani-Casadio