Franz Schreker (1878-1934): “Der Schatzgräber”

Opera in un prologo, quattro atti e un epilogo su libretto del compositore.Tijl Faveyts (Der König), Alasdair Elliott (Der Schreiber / Der Kanzler), André Morsch (Herold / Der Graf), Kurt Gysen (Der Schultheiss / Der Magister), Graham Clark ( Der Narr), Kay Stiefermann (Der Vogt), Mattijs van der Woerd (Der Junker), Raymond Very (Elis), Andrew Greenan (Der Wirt), Manuela Uhl (Els), Gordon Gietz (Albi), Peter Arink (Ein Landsknecht), Cato Fordham (Erster Bürger), Richard Mejer (Zweiter Bürger), Marieke Reuten (mezzosoprano solo), Ines Hafkamp, Hiroko Mogaki (Alto solo). Netherlands Philharmonic Orchestra, Chorus of Nederlandse Opera,  Marc Albrecht (direttore). Registrazione: Amsterdam, Nederlandse Opera, 30 settembre, 12-19 ottobre 2012. 2 CD Challenge Classics CC72591
Gli anni del primo conflitto mondiale rappresentarono per i paesi tedeschi un momento di grande di creazione intellettuale: nonostante la limitazione della vita culturale dovuta alla guerra, questa non portò ad una stagnazione della cultura, ma anzi quegli anni servirono da crogiolo per le grandi correnti che si affermarono dopo il conflitto. Personalità di spicco in quella stagione a cavallo del conflitto mondiale fu certamente Franz Schreker, rampollo di una ricca famiglia della borghesia ebraica viennese e musicista particolarmente dotato, fra le figure più interessanti di quella che fu l’ultima fioritura tardo-romantica e simbolista, che si contrapponeva al fenomeno dell’avanguardia più pura che nasceva e cominciava ad affermarsi negli stessi anni. Nato nel 1878 si era fatto notare sulla scena viennese nel 1912 con “Der ferne klang”, cui era seguita nel 1915 “Die Gezeichneten”, il suo capolavoro, ed una delle opere più suggestive del tramonto della Felix Austriae.
Iniziato nel 1915, ma andato in scena solo dopo la guerra, “Der Schatzgräber” (“Il cercatore di tesori”) si pone in continuità con i lavori precedenti. La vicenda, di ambientazione medioevale e fiabesca arricchita da suggestioni decadenti, si ricollegava non solo al lavoro precedente, ma in chiave più generale all’interesse per quel mondo espressivo che attraversava la MittelEuropa, fra Jugendstil e Secessione, dove gli ultimi turgori tardo-romantici della tradizione post-wagneriana si disfacevano nei colori abbaglianti e nelle prospettive indistinte di un simbolismo fra Klimt e von Stuck, mentre la favola diventava luogo ideale per sfuggire alle inquietudini del presente caricandosi allo stesso tempo di tutte le ombre che accompagnavano il magico crepuscolo della civiltà europea.

Rispetto al precedente “Die Gezeichneten”, questo “Der Schatzgräber”, su libretto dello stesso Schreker, tende un po’ a perdersi all’interno della sua stessa foresta di simboli lasciando troppe situazioni incompiute e non riuscendo a raggiungere quella coerenza drammaturgica interna che per altro forse il solo Hoffmanstal è riuscito ad ottenere in lavori di questo tipo. Nonostante questi limiti drammaturgici e grazie ad una musica di straordinaria ricchezza, in cui un naturale istinto melodico si unisce ad una scrittura orchestrale di opulenta grandiosità, l’opera ottenne alla prima rappresentazione, il 21 gennaio 1920 a Francoforte, un successo trionfale ribadito dalla successiva ripresa viennese del 18 gennaio 1922 con protagonisti del calibro di Richard Tauber e Gertrud Kappel. Negli anni seguenti l’opera si rivelò forse il maggior successo di pubblico per Schreker con sistematiche riprese in tutta l’Europa centrale, tanto che fra il 1920 e il 1934 si contano più di cinquanta diverse produzioni. Quell’ultimo anno rappresenta un tragico punto di svolta nella storia umana e artistica del compositore: con l’ascesa del nazismo la musica di Schreker – che, ricordiamolo, era di origine ebraica – venne infatti bandita e il compositore condannato ad un prematuro oblio, mentre nello stesso anno si spegnava prematuramente la sua stessa vita. Il ritorno alla normalità, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non segnò una riabilitazione del compositore, ma un nuovo e più definitivo ostracismo: nel clima spesso brutale del trionfo delle avanguardie più estreme non c’era spazio per chi aveva scientemente scelto di restare fedele alla tonalità e alla tradizione e, se Strauss era troppo grande per essere accantonato, un triste velo di oblio calò su tanti compositori di quella generazione che ancora meritano di essere pienamente riscoperti e rivalutati.
In questo contesto generale assume particolare merito ogni iniziativa destinata a ridare vita ai tanti titoli dimenticati di questo repertorio, come questa dell’opera di Amsterdam dedicata all’ultima opera di Scherker per di più affidata ad un direttore di grande mestiere e ad un cast nell’insieme più che convincente che danno piena giustizia alle bellezze di questa partitura.
Grande conoscitore di questo mondo musicale, Marc Albrecht regge con maestria le complesse file della scrittura di Schreker, capace di passare da turgori titanici a trasparenze quasi cameristiche, reggendo con mano sicura una massa orchestrale particolarmente ampia e a cui sono affidati alcune dei momenti salienti della partitura. Inoltre, Albrecht ha il merito di non cercare soluzioni direttoriali troppo personali, ma di fornire una lettura il più possibile fedele e rispettosa dell’opera scelta, decisamente opportuna per un titolo di così raro ascolto. Vantaggio non da poco è poi quello di disporre di complessi come quelli olandesi – tanto orchestrali quanto corali – che suonano e cantano splendidamente, facendo pienamente emergere lo splendore sonoro della partitura.
Il cast è poi molto buono. Manuela Url è fra le cantanti più interessanti emerse in questo repertorio negli ultimi anni e qui conferma al meglio le positive impressioni fatte nei ruoli straussiana. Voce magari non immacolata, ma nell’insieme godibile, caratterizzata da una linea di canto molto buona con ottimo controllo del fiato, acuti luminosi e ricchi di suono e grande omogeneità timbrica, tanto più apprezzabili considerando l’improba difficoltà del ruolo. Interprete di grande sensibilità, riesce soprattutto a dare credibilità ad un personaggio di suo alquanto improbabile come quello di Els, la figlia del Re ed unico personaggio femminile dell’opera strettamente imparentata, per la sua natura anti-realistica, ad altre eroine del simbolismo europeo, una su tutte Melisande. La Uhl accenta e fraseggia con convinzione sia che si tratti di esprimere la luminosa femminilità del grande duetto d’amore con il menestrello Elis (“Els! . Elis, endlich”), sia nei commossi accenti dell’epilogo quando la principessa muore senza apparente ragione – altro grande topos dell’eterno femminino simbolista – assistita solo dal Folle (“ Nachspiel Els! – Wer ist da?”). E proprio il Folle è l’altro elemento di forza del cast in quanto il veterano Graham Clark presta tutta la sua esperienza di Mime e di Loge nel tratteggiare il personaggio. E se la voce non è fra quelle che colpiscono immediatamente, tanto il duetto con Els, tanto il grande monologo conclusivo così interpretati sono momenti di teatro che lasciano il segno.
Raymond Very è sicuramente più generico come interprete, ma il menestrello Elis è parte più lineare delle precedenti e dispone di una voce di tenore lirico decisamente molto bella, sicura e squillante e regge con solida efficacia un ruolo lungo e molto impegnativo sul piano vocale, spesso chiamato ad impetuose accensioni su un organico strumentale decisamente molto denso. Molto positive le prove delle voci gravi, dall’autorevole re di Tijl Faveyts, di giusta autorità negli interventi nel grande finale del IV atto, al solido balivo di Kay Stiefermann, capace di dare al personaggio tutta la sua barbarica protervia, fino all’Albi di Gordon Gietz. Buona la prova delle numerose parti di fianco – si rimanda alla locandina per i singoli nominativi – che permettono di evidenziare al meglio la scrittura corale della partitura. Un titolo da conoscere in una pregevole edizione.