“La Traviata” al Teatro Filarmonico di Verona

Teatro Filarmonico di Verona, Stagione lirica 2014-15
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti, Libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery   FRANCESCA DOTTO
Flora Bervoix   ELENA SERRA
Annina   ALICE MARINI
Alfredo Germont   ANTONIO POLI
Giorgio Germont   SIMONE PIAZZOLA
Gastone   ANTONELLO CERON
Barone Douphol   NICOLÒ CERIANI
Marchese d’Obigny   DARIO GIORGELÈ
Dottor Grenvil GIANLUCA BREDA
Giuseppe, servo di violetta   FRANCESCO PITTARI
Domestico / Commissionario   ROMANO DAL ZOVO
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Marco Boemi
Maestro del Coro Vito Lombardo
Regia e luci Henning Brockhaus
Bozzetti scenografici   Josef Svoboda
Ricostruzione scenografica   Benito Leonori
Costumi Giancarlo Colis
Coreografia   Valentina Escobar
Allestimento della Fondazione Pergolesi-Spontini di Jesi
Verona, 25 Gennaio 2015

La presenza dello specchio ne La Traviata non è un frivolo espediente di qualche contorto intellettuale mitteleuropeo: sono le stesse note di regia dell’opera a prevedere la presenza di uno specchio per ogni atto. Il primo, sopra il caminetto nella casa di Parigi, in cui Violetta si specchierà dopo il proprio malore esclamando “Oh, qual pallor…” e poi incontrandovi lo sguardo di Alfredo, rimasto alle sue spalle. Il secondo è in una posizione simile, ma nella casa di campagna. Accanto allo specchio compare un vecchio orologio: “un dì quando le veneri il tempo avrà fugate” / “non sapete che colpita d’atro morbo è la mia vita, che già presso al fin ne vedo” – il tempo della giovinezza e dell’amore sta per volgere al fine. Nel terzo atto non c’è più posto per lo sfarzo, ma tra i pochi oggetti scenici imposti dalle note di regia spicca, ancora una volta, un piccolo specchio: “Ah, come son mutata!”.  La Traviata è già l’opera degli specchi. La regia, ormai storica, di Henning Brockhaus, per le scene di Josef Svoboda porta lo specchio ad un livello ancora più complesso: in esso riemergono tanti doppi, a partire da Violetta, doppia come doppia è la sua vera e propria aria di presentazione, oscillante tra “serio amore” e follia “Ah, fors’è lui / Sempre libera”. Doppio è Alfredo, amante languido e cieco carnefice; doppio è il padre, Germont, il cui atteggiamento subisce una trasformazione profondissima tra secondo e terzo atto.
L’enorme, celeberrimo specchio che si solleva sulle note del Preludio è espediente datato e assai meno efficace di un tempo, ma sempre indiscutibilmente affascinante. Lo straniamento finale del pubblico coinvolto nell’azione in un rigurgito brechtiano oggi può suonare ridondante, ma all’epoca fece storia: il brivido del vedersi proiettati come impotenti spettatori e giudici degli eventi è ancora un forte pugno nello stomaco.  Primo atto e finale secondo presentano entrambi ambientazioni di lusso ridondante e dai richiami orgiastici. Eccellente la prova del corpo di ballo, particolarmente nel finale secondo atto, zingarelle e mattadori. Nella prima parte del secondo e in tutto il terzo atto gli oggetti scenici sono particolarmente scarni, gli sfondi che si riflettono nello specchio contribuiscono a rendere un senso di lussureggiante straniamento: si va dalla Fenice a un grande lampadario, da un campo di margherite (un riferimento alla Marguerite Gautier di Dumas?), alle foto di famiglia dei Germont fino allo scarno finale che porta al sollevamento dello specchio.  Il direttore, Marco Boemi, disegna una Traviata particolarmente intimistica, personalizzando i tempi con scelte quanto meno discutibili: se i tempi costantemente ritenuti garantiscono al pubblico una sicura godibilità della struttura armonica verdiana, d’altra parte tendono a rallentare l’azione scenica e, quel che è peggio, rischiano in diversi casi di mettere in seria difficoltà i cantanti. A finali dalle dinamiche quasi wagneriane si accostano inflessioni bandistiche che non valorizzano a sufficienza il ruolo degli archi. L’orchestra fa quel che può, ma i legni e la sezione grave degli archi sembrano soffrire parecchio, nonostante La Traviata sia territorio sì minato, ma pure esaustivamente esplorato. Manco a dirlo, anche gli insiemi col Coro – protagonista comunque di una complessiva buona prova – non tardano a presentare sfasamenti e difficoltà. La preparazione del M° Vito Lombardo risulta comunque puntuale ed efficace. Anche alcune scelte esecutive sembrano allontanarsi dalla tradizione (l’esecuzione completa della cabaletta del baritono, il taglio della seconda strofa dell’Addio del passato…) ma risultano complessivamente accettabili. Francesca Dotto, Violetta Valery, è soprano dalla voce fresca e interessante, gradevole nel centro e nei gravi, meno in acuto – dove sembra stagnare qualche lievissimo problema di emissione. Spesso La Traviata viene presentata come “l’opera dei tre soprani”: è sempre molto difficile trovare una cantante in grado di reggere tutti e tre gli atti allo stesso livello. Anche per la Dotto, come da manuale, il primo atto risulta nettamente inferiore agli ultimi due – il mi bemolle è sempre pericolosissimo – , per quanto in tutta la grande aria finale il giovane soprano mostri una tecnica impeccabile e uno studio certosino del fraseggio. La ventisettenne trevigiana ha grande talento e certamente il rispetto necessario per affrontare un ruolo così complesso. Davvero pregevole anche la sua interpretazione scenica, puntuale e priva di eccessi macchiettistici.      Antonio Poli è un Alfredo interessante e composto, dall’emissione sicura e dalla notevole presenza scenica. La voce è in forma e il fraseggio elegante e raffinato è indice di uno studio esaustivo del più ingrato tra i ruoli tenorili verdiani. De’ miei bollenti spiriti è eseguito con cura, nonostante la direzione di Boemi, tendenzialmente ritenuta, rischi in diversi casi di metterlo in difficoltà. Il giovane tenore (anche lui non ancora trentenne) sta crescendo, ma promette davvero bene. Ma è il baritono Simone Piazzola il vero protagonista della serata: un Giorgio Germont che nel fraseggio e nell’intensità della linea ricorda il miglior Bruson; Piazzola è l’unico che non sembri soffrire per le – talvolta davvero estenuanti – scelte agogiche di Boemi. Davvero pregevole il suo “Di Provenza il mar, il suol”, eseguito con apparente facilità di emissione e intelligenti scelte dinamiche. Bene anche la cabaletta, uno dei momenti generalmente meno efficaci dell’opera. Tra i protagonisti Piazzola è forse quello più statico, ma visti ruolo e forma vocale lo perdoniamo senza alcuna difficoltà. Elena Serra (Flora) a una presenza scenica resa estremamente ingombrante da – generalmente opinabili – scelte costumistiche, si accosta una vocalità  discutibile con vistose difficoltà di emissione.  Sempre sul fronte mezzosopranile spicca ancora una volta la giovanissima veronese Alice Marini, un’Annina puntuale e partecipata, dal timbro scuro naturale e interessante, oltre che dalla presenza scenica davvero notevole. Complessivamente valido l’apporto di  Antonello Cerone (Gastone), Nicolò Ceriani (  Douphol), Dario Giorgelè (Marchese), Gianluca Breda (Grenvil), Francesco Pittari ( Giuseppe) e Romano Dal Zovo, nel duplice ruolo di Domestico e Commissionario. Foto Ennevi per Fondazione Arena