Teatro Goldoni di Livorno – Stagione Lirica 2014/2015
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Melodramma buffo in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva ALFONSO ZAMBUTO
Don Bartolo DIEGO SAVINI
Rosina LAURA VERRECCHIA
Figaro WILLIAM HERNANDEZ
Don Basilio EUGENIO DI LIETO
Berta SIMONA MARZILLI
Fiorello FEDERICO CUCINOTTA
Ambrogio ANDREA GAMBUZZA
Notaio JOSÉ GABRIEL MORERA
Un ufficiale ALESSANDRO SVAB
OGI Orchestra Giovanile Italiana
Ensemble LTL Opera Studio
Direttore Nicola Paszkowski
Regia Alessio Pizzech
Scene e Costumi Pier Paolo Bisleri
Luci Claudio Schmid
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno. Coproduzione Fondazione Teatro Goldoni di Livorno, Fondazione Teatro Verdi di Pisa, Azienda Teatro del Giglio di Lucca, Fondazione Teatro Coccia di Novara.
Livorno, 6 febbraio 2015
Giunto ormai alla quindicesima edizione, insignito un paio d’anni or sono dell’ambìto Premio Abbiati, e reduce dal grande successo dell’allestimento di Les Contes d’Hoffmann della stagione appena passata, il progetto LTL Opera Studio si dedica quest’anno all’opera buffa più celebre della storia del melodramma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, che, inaugurato al Teatro Goldoni di Livorno (quest’anno in veste di capofila) verrà nelle prossime settimane messo in scena dal Teatro Verdi di Pisa e dal Teatro del Giglio di Lucca, artefici – insieme al Teatro Coccia di Novara dove apparirà in autunno – di questo benemerito “Laboratorio Toscano per la Lirica”. Come al solito i cast (quest’anno ci sono ben tre compagnie di canto che si alterneranno nei ruoli principali) sono formati da giovani e giovanissimi artisti selezionati molti mesi prima, e “costretti” ad un intenso e lungo lavoro di preparazione scenico-musicale nelle mani esperte di registi e direttori d’orchestra al contrario già da tempo affermati. La parte visiva è stata quest’anno affidata a Alessio Pizzech, che ha ideato e realizzato un Barbiere originalissimo, ingegnoso, dissacratore, risqué, peccaminoso, ipercinetico, velocissimo, scattante, che si muove precisissimo senza tempi morti, come un gioco di incastri o un meccanismo a orologeria. Le scene di Pier Paolo Bisleri all’alzarsi del sipario, paiono, nel loro bianco avorio, neutre ed asettiche, Ikea-style, ma ben presto le sei grande veneziane mobili, grazie anche ai magistrali giochi di luci di Claudio Schmid, assumeranno toni “kitsch” da puro “camp”, termini usati con accezioni completamente positive. In tale contesto Pizzech immagina un Barbiere a cavallo fra due mondi, in cui i personaggi vestono eccentrici costumi (anche questi opera di Bisleri), cibrei impazziti di cimeli settecenteschi mescolati ad altri che rimandano agli anni di Grease o American Graffiti. Nelle note del programma il regista afferma che “il Barbiere diventa un gioco preciso, ritmico, poetico fino a divenire una sublime partitura fra scena e musica, cercando una sincerità un sorriso che nasca dalla meraviglia”. E meraviglia è proprio la parola chiave, se persino uno spettatore come il sottoscritto con all’attivo decine di produzioni di questo capolavoro poteva meravigliarsi, sorprendersi in continuazione, sbalordito dal numero e dalla qualità di idee sempre pertinenti scaturite dall’immaginazione del regista: non un momento di noia, ed in fin dei conti è questo lo scopo finale di un’opera, e in particolare di un’opera buffa, ed è ben noto che far ridere è molto più difficile che far piangere.
L’opera si apre con un Almaviva con parrucca bianca settecentesca ma con giacca lunga di pelle a borchie, che canta – microfono alla mano – la cavatina su una pedana rotonda illuminata da un cerchio di lampadine, con movenze e ancheggiamenti che richiamano Elvis Presley ma anche Freddy Mercury e persino il Molleggiato e che saranno costanti nel corso dell’opera, e comuni, in diverse varianti, a tutti i personaggi; Don Basilio è uno strana figura a metà fra un pipistrello e la strega dell’Ovest del Mago di Oz, e arriva in scena ora appollaiato su un sedia come un avvoltoio, ora calato dall’alto e lasciato a mezz’aria per un’intera scena. Don Bartolo veste un costume arancione sgargiante che pare preso dal guardaroba di Liberace, mentre Fiorello si prende amorosamente, troppo amorosamente cura del proprio padrone. Pizzech sembra volerci dire che Figaro & Co. vivono su due mondi paralleli, e che cercano con tutte le loro forze di staccarsi da quello antico e stantio per catapularsi nella modernità. Si esaspera quindi il lato (già ben delineato nel libretto) ribelle e intraprendente di Rosina, che non esita a togliersi il reggiseno (con le spalle rivolte al pubblico) e a cantare la celebre cavatina in mutandine e guardinfante trasparente; particolarmente azzeccata è stata l’idea di tramutare, nell’aria della lezione, i passaggi virtuostici in orgasmici gorgheggi, dato che Rosina e Almaviva consumano in scena prima del matrimonio, con il la naturale alla fine a suggellare il climax inteso in ogni senso. E qui mi fermo in quanto sarebbe superfluo e noioso raccontare in dettaglio ogni trovata e deviazione dalla norma partorite dall’immaginazione del regista.
L’opera si apre con un Almaviva con parrucca bianca settecentesca ma con giacca lunga di pelle a borchie, che canta – microfono alla mano – la cavatina su una pedana rotonda illuminata da un cerchio di lampadine, con movenze e ancheggiamenti che richiamano Elvis Presley ma anche Freddy Mercury e persino il Molleggiato e che saranno costanti nel corso dell’opera, e comuni, in diverse varianti, a tutti i personaggi; Don Basilio è uno strana figura a metà fra un pipistrello e la strega dell’Ovest del Mago di Oz, e arriva in scena ora appollaiato su un sedia come un avvoltoio, ora calato dall’alto e lasciato a mezz’aria per un’intera scena. Don Bartolo veste un costume arancione sgargiante che pare preso dal guardaroba di Liberace, mentre Fiorello si prende amorosamente, troppo amorosamente cura del proprio padrone. Pizzech sembra volerci dire che Figaro & Co. vivono su due mondi paralleli, e che cercano con tutte le loro forze di staccarsi da quello antico e stantio per catapularsi nella modernità. Si esaspera quindi il lato (già ben delineato nel libretto) ribelle e intraprendente di Rosina, che non esita a togliersi il reggiseno (con le spalle rivolte al pubblico) e a cantare la celebre cavatina in mutandine e guardinfante trasparente; particolarmente azzeccata è stata l’idea di tramutare, nell’aria della lezione, i passaggi virtuostici in orgasmici gorgheggi, dato che Rosina e Almaviva consumano in scena prima del matrimonio, con il la naturale alla fine a suggellare il climax inteso in ogni senso. E qui mi fermo in quanto sarebbe superfluo e noioso raccontare in dettaglio ogni trovata e deviazione dalla norma partorite dall’immaginazione del regista.
Immaginazione per fortuna dimostrata anche dal direttore d’orchestra, Nicola Paszkowski, già apprezzatissimo la stagione scorsa a Lucca in un vero banco di prova come il Falstaff. In poche parole, Paszkowsi, alla guida di un’ottima OGI Orchestra Giovanile Italiana, centra il bersaglio riuscendo a dar forma alle astratte strutture musicali senza trascurare minimamente di proiettare il dramma. La sua lettura trasuda senso del teatro e flessibilità ritmica; è leggera, frizzante, effervescente, ma architettonicamente solida come cemento armato; gli accompagnamenti erano particolarmente ben curati: uno per tutti, le nitidi e aggraziate intricate decorazioni dei primi violini, dei fagotti e dei clarinetti all’inizio del secondo atto, allorché “Don Alonso” entra in casa di Don Bartolo. La direzione di Paszkowski ricrea la frenesia della musica rossiniana in un prezioso arabescato di ritmi e timbri, dona alla musica del cigno pesarese la superiore eleganza della stilizzazione senza nulla toglierle dell’incontenibile vitalità che la sostiene. Al contrario del capolavoro di Offenbach, proposto la scorsa stagione nella superatissima edizione Gounsbourg/Choudens, questa volta si è preferito intraprendere la strada della filologia più rigorosa, adottando l’ormai canonica edizione Zedda senza neanche il minimo taglio, includendo anche il rondò finale di Almaviva (che rende il tenore protagonista a tutti gli effetti: non per niente l’unico divo della compagnia di canto originale era Manuel Garcia) e apportando sobrie variazioni nei daccapo. Il direttore ha anche dato prova di esser notevolissimo concertatore, qualità che non tutti i direttori necessariamente hanno, ma che in questo contesto, dovendo guidare cantanti alle prime armi, era assolutamente indispensabile.
Il cast, è inutile girarci intorno, si è rivelato l’anello più debole della catena. È indubbiamente ingiusto aspettarsi vocalità da virtuosi in ragazzi giovani, ma a parte un’unica eccezione, la compagnia di canto della prima recita, pur sfoggiando capacità attoriali non comuni, calati come erano nella regia complessa ed esigentissima di Pizzech (che può probabilmente funzionare al meglio solo in questo contesto di giovani cantanti disposti a mettersi in discussione senza divismi, e con molte settimane di prove alle spalle) presentava problemi vocali, chi più chi meno, tali da indurmi a fare l’insolita scelta di menzionare i nomi senza soffermarmi sulle rispettive prestazioni: William Hernandez (Figaro), Alfonso Zambuto (Almaviva), Diego Savini (Don Bartolo), Eugenio Di Lieto (Don Basilio), Simona Marzilli (Berta), Federico Cucinotta (Fiorello), Massimiliano Svab (un ufficiale). Preferisco al contrario soffermarmi sul lato positivo e mettere in rilievo la Rosina di Laura Verrecchia, mezzosoprano autentico (non il solito soprano corto che oggigiorno si spaccia per mezzosoprano lirico), dotata di voce omogenea e ambrata che ricordava a tratti la giovane Ganassi, e in alcuni acuti pareva di scorgere un’ancor più giovane Cossotto. Le agilità pur essendo discrete sono perfettibili: è una voce duttile e si ha la netta impressione che con il dovuto studio potrà rendere la coloratura più spontanea e vorticosa. Ragazza avvenente, ha mostrato (come tutto il resto del cast, giova ricordarlo) una padronanza scenica sbalorditiva, comunicando simpatia e sensualità. Facile predizione, la ritroveremo presto nei cartelloni dei grandi teatri. Foto di Augusto Bizzi
Il cast, è inutile girarci intorno, si è rivelato l’anello più debole della catena. È indubbiamente ingiusto aspettarsi vocalità da virtuosi in ragazzi giovani, ma a parte un’unica eccezione, la compagnia di canto della prima recita, pur sfoggiando capacità attoriali non comuni, calati come erano nella regia complessa ed esigentissima di Pizzech (che può probabilmente funzionare al meglio solo in questo contesto di giovani cantanti disposti a mettersi in discussione senza divismi, e con molte settimane di prove alle spalle) presentava problemi vocali, chi più chi meno, tali da indurmi a fare l’insolita scelta di menzionare i nomi senza soffermarmi sulle rispettive prestazioni: William Hernandez (Figaro), Alfonso Zambuto (Almaviva), Diego Savini (Don Bartolo), Eugenio Di Lieto (Don Basilio), Simona Marzilli (Berta), Federico Cucinotta (Fiorello), Massimiliano Svab (un ufficiale). Preferisco al contrario soffermarmi sul lato positivo e mettere in rilievo la Rosina di Laura Verrecchia, mezzosoprano autentico (non il solito soprano corto che oggigiorno si spaccia per mezzosoprano lirico), dotata di voce omogenea e ambrata che ricordava a tratti la giovane Ganassi, e in alcuni acuti pareva di scorgere un’ancor più giovane Cossotto. Le agilità pur essendo discrete sono perfettibili: è una voce duttile e si ha la netta impressione che con il dovuto studio potrà rendere la coloratura più spontanea e vorticosa. Ragazza avvenente, ha mostrato (come tutto il resto del cast, giova ricordarlo) una padronanza scenica sbalorditiva, comunicando simpatia e sensualità. Facile predizione, la ritroveremo presto nei cartelloni dei grandi teatri. Foto di Augusto Bizzi