Milano, Teatro alla Scala: “Aida”

Milano, Teatro alla Scala Stagione dopera e balletto 2014-2015
AIDA
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re  CARLO COLOMBARA
Amneris  ANITA RACHVELISHVILI
Aida  KRISTIN LEWIS
Radamès  FABIO SARTORI
Ramfis  MATTI SALMINEN
Amonasro  GEORGE GAGNIDZE
Messaggero  AZER RZA-ZADÀ
Sacerdotessa  CHIARA ISOTTON
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Corpo di ballo del Teatro alla Scala e allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Peter Stein
Scenografia Ferdinand Wögerbauer
Costumi Nanà Cecchi
Coreografia Massimiliano Volpini
Luci Joachim Barth
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Milano, 24 febbraio 2015         

Questa prima Aida dell’era Pereira ha il profumo della novità e il retrogusto della discordia. Lo spettacolo affidato alla regia di Peter Stein va a spodestare uno dei due celebri allestimenti targati Zeffirelli che hanno fatto storia al Piermarini, vendendo letteralmente quest’ultimo al Teatro di Astana in Kazakistan senza nemmeno interpellare il Maestro fiorentino, scatenandone l’ira e l’indignazione (per ulteriori dettagli sulla vicenda si rimanda a questo articolo.Risale alla stagione scaligera 2006/2007 la produzione incriminata (quella, per intendersi, della famosa fuga di Roberto Alagna indignato per i fischi), riproposta poi con successo nel 2009 e più recentemente nel 2013. Nel 2012 andò invece in scena la ripresa della prima celebre Aida, sempre per la regia di Zeffirelli, riesumata dalla stagione ‘62/’63, con le scene e i costumi di Lila De Nobili. Insomma, escluso l’allestimento del 1985 firmato da Luca Ronconi (di cui abbiamo compianto la scomparsa solo pochi giorni fa), il terzetto Scala-Aida-Zeffirelli è rimasto saldo, unico e intoccabile per oltre cinquant’anni. Pertanto sulla vendita, sulla correttezza dell’operazione e su questioni di proprietà intellettuale si può ampiamente discutere, ma resta comprensibile (se non auspicabile) la volontà di proporre nel teatro meneghino qualcosa di nuovo e diverso dopo ben mezzo secolo di unilateralità registica. Per come si configura, l’Aida secondo Peter Stein innesca tra l’altro un ulteriore dibattito, che semplificando si traduce nell’eterno scontro tradizione-innovazione, tema di discussione amatissimo dai melomani che innesca le dispute più feroci. Quest’Aida non rappresenta una novità solo sulla carta (o meglio sul cartellone), ma anche per come si presenta nella forma e nella chiave di lettura. Tipicamente pensando al titolo verdiano ci si stagliano subito davanti agli occhi maestose sfingi, piramidi, paramenti dorati, talvolta elefanti in scena, geroglifici, folle di comparse a perdita d’occhio, ed è in questo filone – scontato ricordarlo – che si colloca il classico allestimento zeffirelliano (o del già citato Ronconi, in una visione più improntata a una ricerca archeologica ma per la quale vale comunque un discorso analogo). Pezzi di storia, senza dubbio, capolavori teatrali entrati nell’immaginario collettivo, da sempre e tuttora amati in ciascuna delle innumerevoli riprese che ancora oggi vanno in scena a distanza di anni nei più grandi teatri del mondo. Pezzi d’arte eterni patrimonio dell’umanità, insomma. Stein ci propone invece un’alternativa possibile, una lettura piacevolmente arguta e controcorrente. Prendiamo tutto questo sfarzo e dimentichiamolo, o spostiamolo quantomeno in secondo se non in terzo piano. Il regista tedesco si stupisce di come i colleghi si ostinino da decenni a interpretare Aida calcando ossessivamente la mano sul gusto del grandioso e del monumentale, attraverso un ritratto opulento della civiltà egizia con i suoi intrighi di guerra, religione, politica. Stein dichiara di voler seguire alla lettera la partitura e confessa nelle note di regia di aver per prima cosa segnato in rosso tutte le indicazioni dinamiche. Dopo questa operazione si è posto domanda: perché storicamente Aida dev’essere “forte, forte, forte tutto il tempo” quando in più della metà dell’opera si legge piano o pianissimo? Innanzitutto si porta a galla un primo ostacolo tecnico non indifferente: “se si supera il volume specificato dal compositore, i cantanti dovranno forzare il suono, il che è rischioso per le voci”. Ma oltre a questo – e qui arriviamo al nocciolo della questione – stando alla partitura, è ben più probabile che Aida nacque come dramma psicologico privato e non come esibizione pomposa fine a se stessa, nelle intenzioni di Verdi. L’intenzione di Stein è quindi mettere a nudo i tre personaggi principali con le loro fragilità, che si dipanano e manifestano in tutte le possibili sfumature nell’amore impossibile di Aida e Radames e nell’amore non corrisposto di Amneris, carico di una tale tensione tragica che, nell’inedita lettura del regista, la porterà alla morte nel finale, svenandosi in scena. L’obiettivo è chiaro: ipotizzata e data per assunta la benedizione di Verdi, diventa lecito uno scambio repentino di figura e sfondo che va a spogliare l’opera di tutte le sue storiche sovrastrutture per riportarne l’umanità in primo piano. Aderire al massimo alla volontà del compositore è un proposito che va a braccetto in genere con gli spettacoli cosiddetti tradizionali. E allora forse questa Aida finisce per diventare una piacevole contraddizione, reazionaria e rivoluzionaria insieme. Perfetta la sintesi del tedesco in un’intervista: “Moderno, radicale, distruttivo. Così sono stato definito da Franco Zeffirelli. E lo ringrazio, perché di solito vengo considerato un conservatore”.
La poetica di Stein trova perfetta realizzazione nelle scene minimaliste di Ferdinand Wögerbauer, pulite, nette, essenziali. I grandi monumenti egizi si riescono a percepire senza esplicitarsi: subito in apertura ad esempio, all’alzarsi del sipario, basta un grande portale trapezoidale che si staglia luminosissimo nella totale oscurità ad intuire una paradossale ambientazione faraonica ridotta all’osso. La stilizzazione estrema di una sfarzosità non detta, perché non è di quello che si vuol parlare. Campo libero ai protagonisti, motori del dramma, alle loro introspezioni e interazioni con l’altro e con lo spazio. Uno spazio scarno con soli pochi elementi che permettono all’azione di svilupparsi, semplici geometrie valorizzate dalle luci di Joachim Barth, che ci propone un continuo gioco di chiaroscuri suggestivi ed eleganti. Dominano prevalentemente il bianco e il nero mescolati ad un evocativo oro spento, mentre i guizzi di colore sono affidati ai bei costumi di Nanà Cecchi, dal drappo verde-viola costantemente indossato da Aida e dai prigionieri etiopi all’intenso abito amaranto di Amneris nel quarto atto, agli abiti e alle parrucche variopinte delle sue ancelle nel secondo. Più tenui le tinte che vestono il popolo egizio, i soldati, i ministri e i governanti, con sfumature pastello che virano dal marrone, al beige, fino a tornare al non-colore bianco delle discutibili palandrane dei sacerdoti (armati peraltro di una specie di elmetto alla Star-Trek di dubbio gusto). Un’ennesima sottolineatura visiva al focus sull’umano più che sul contesto e le figure di contorno, in un dichiarato tentativo filologico di rispettare il volere del compositore (non per niente il titolo “In Verdi Veritas” apre le note di regia).
E tutto questo, in musica, come si è tradotto? Abbiamo già accennato alla configurazione delle dinamiche nella partitura, con una sovrabbondanza di piani e pianissimi che invitano ad una direzione orchestrale introspettiva, delicata, certamente più lirica che eroica. Zubin Mehta, subentrato allo scomparso Lorin Maazel previsto inizialmente, persegue i suddetti obiettivi con successo dalla prima all’ultima nota. Misura, compostezza, trasporto, attenzione al dettaglio: queste le parole chiave che identificano la sua straordinaria prova. Sarà anche per l’assenza del leggio nel mezzo (Mehta dirige l’opera per intero a memoria), ma tra il Maestro e l’Orchestra del Teatro alla Scala, in forma smagliante insieme al Coro, si crea una sinergia speciale in grado di spremere tutto il pathos e l’intensità da una partitura troppo spesso trattata da spartito bandistico. Ogni contributo strumentale viene gestito da Mehta con cura maniacale e valorizzato nella sua unicità: gli archi eterei che sostengono “Celeste Aida”, il trillo esotico del flauto nella danza propiziatoria (una delle poche non tagliate in questo spettacolo), l’incedere inquietante degli ottoni nella Scena del Giudizio e così via. Con una certa risonanza emotiva si riesce ad apprezzare ogni intervento dei singoli comparti orchestrali, ma nulla è lasciato al caso o all’anarchia e il risultato è un solido equilibrio di perfetta armonia e compiutezza. Per chi scrive, forse la miglior prova direttoriale in assoluto mai ascoltata in teatro.
Pur con un’eccezione lampante, i protagonisti sul palco non destano certo altrettanto entusiasmo e rimangono confinati per lo più in un limbo senza infamia e senza lode. Un primo esempio è proprio la protagonista Kristin Lewis, un’Aida perfettamente in parte per physique du role ma non altrettanto nel canto. La voce manca di naturale corposità per sostenere adeguatamente la parte e il risultato è la tendenza ad allargare forzatamente portando a un’emissione spesso non troppo pulita. Un altro problema che si avverte di frequente sono alcune mezzevoci spesso al limite dell’udibile, nonostante l’impegno di Mehta nel moderare adeguatamente i suoi in buca. Durante la serata però la performance del soprano evolve in meglio e accanto ad un “O Patria mia” emozionante e ben interpretato, la Lewis “ritorna vincitrice” anche da diversi duetti (su tutti il “Pur ti riveggo”) in cui dimostra di avere una buona padronanza del registro acuto con un volume niente male, prima passato in sordina. Per Fabio Sartori il problema del volume non si pone. Il tenore trevigiano appartiene a quello stuolo di “Radames eroici” che fa del forte e mezzoforte costante la sua bandiera, caratteristica – per quanto visto precedentemente – che si addice a questo allestimento molto meno che ad altri. Ma se su questa sottigliezza si può tranquillamente chiudere un occhio, ciò che infastidisce di più è la fissità di alcuni suoni e un fraseggio piuttosto approssimativo, difetti che inficiano l’intera performance trasformandola non in qualcosa di brutalmente scorretto, quantomeno la rende un po’ monotona e incolore. Ma arriviamo finalmente all’autentico fiore all’occhiello di questa produzione. Anita Rachvelishvili domina la scena e la voce con una tale efficacia che vien voglia di intitolare l’opera “Amneris”. Un personaggio complesso, in continua oscillazione tra la principessa feroce e la vulnerabile donna innamorata, due volti che nel mezzosoprano georgiano trovano la sintesi perfetta in un’unica magnetica interpretazione. A supporto di questa grande prova attoriale si affianca un mezzo vocale notevolissimo: timbro brunito, volume sorprendente, fraseggio naturale ed elegante, straordinaria musicalità. Tutte qualità che hanno garantito una performance strepitosa sotto ogni aspetto, con apici di eccellenza nel crudo duetto con Aida (“Fu la sorte dell’armi”) e nella lacerante Scena del Giudizio (“Ohimè, morir mi sento!”). Si poteva chiedere di più? Ridimensionando un attimo gli entusiasmi, ci imbattiamo in un’interpretazione tutto sommato buona di George Gagnidze nei panni di Amonasro, per poi cadere in un punto di non ritorno con l’interpretazione scandalosamente approssimativa e scomposta di Matti Salminen (Ramfis).
Carlo Colombara convince nel ruolo del re. Eterea La Gran Sacerdotessa di Chiara Isotton, perfettibile il messaggero di Azer Rza-Zadà. Al termine, ibrido di applausi e contestazioni sparse per buona parte del cast, ma Mehta e Rachvelishvili mettono tutti d’accordo senza riserve: ovazioni, giù il sipario.