Venezia, Teatro La Fenice: “Don Pasquale”

Teatro La Fenice, Stagione 2014-2015, Lirica e balletto
“DON PASQUALE”
Libretto di Giovanni Ruffini, dal dramma giocoso Ser Marcantonio di Angelo Anelli
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale ROBERTO SCANDIUZZI
Il dottor Malatesta DAVIDE LUCIANO
Ernesto ALESSANDRO SCOTTO DI LUZIO
Norina BARBARA BARGNESI
Un notaio MATTEO FERRARA
Orchestra e Coro del Teatro la Fenice
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Italo Nunziata
Scene e costumi Pasquale Grossi
Light designer James Patrick Latronica
Venezia, 14 febbraio 2015

Un Don Pasquale “stile anni Trenta” potrebbe sembrare la solita eccentrica trovata registica, invece il meccanismo teatrale ideato da Italo Nunziata, coadiuvato da Pasquale Grossi per le scene e i costumi, nonché da James Patrick Latronica (purtroppo recentemente scomparso) per le luci è decisamente credibile e funziona a meraviglia. Si tratta della ripresa del fortunato allestimento dagli stessi a suo tempo realizzato (anno 2002) per il Teatro Malibran di Venezia, e riproposto in seguito in importanti teatri italiani (Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Verdi di Trieste, Teatro Massimo di Palermo, Teatro Comunale di Ferrara) ed europei (Teatro São Carlos di Lisbona, Staatstheater di Darmstadt). La contestualizzazione storica è affidata – a parte i costumi – a vari elementi: interni monumentali e austeri secondo gli stilemi architettonici razionalisti del fascismo, come lo studio di Don Pasquale con massiccia scrivania, solerte dattilografia e macchina da scrivere nera, e alla parete l’immagine della facciata esterna dell’opificio tessile, di cui Pasquale da Corneto è proprietario, tipicamente ad angolo arrotondato; del medesimo stile l’austero salotto della sua casa (almeno prima della rivoluzione che vi porterà Norina). Ma un ruolo essenziale spetta alle videoproiezioni di pellicole d’epoca, in cui appaiono i divi del cinema dei telefoni bianchi: dal Latin lover internazionale Rodolfo Valentino, al nostrano Vittorio De Sica, dalla biondissima (tedesco-ucraina d’origine) Assia Noris alla fatale Elisa Cegani. Queste scelte sono motivate dal fatto che – a detta del regista – il contesto storico che fa da sfondo all’opera di Donizetti rivela vari elementi in comune con gli anni Trenta del Novecento, alludendo al comune ruolo emergente dei ceti borghesi. Non osiamo addentrarci in siffatte questioni. Certo è che l’intramontabile topos teatrale dello scapolo facoltoso quanto attempato, che si illude di poter conquistare una ragazza ben più giovane, venendo da questa sbeffeggiato, in attesa che ella si getti tra le braccia del giovane (rigorosamente modesto), che sinceramente ama, è una storia che si inserisce perfettamente nel clima di un fascismo paternalistico, che promuoveva un cinema d’evasione con un debole per l’ascesa sociale degli “umili”. Significativo l’uso delle luci, che si abbassano e assumono tonalità fredde in certe situazioni cruciali come in corrispondenza alla “mutazione “ di Norina, seguente al finto matrimonio nell’atto secondo. Analogamente pregnante la strutturazione dello spazio scenico, diviso in tre parti: al centro uno spazio grande, ove si svolge la vita sociale con le sue convenzioni, le sue ipocrisie, ai lati due piccole porte, che fanno da cornice ai personaggi, nei momenti in cui essi confessano la loro verità nascosta, come quando Norina-Sofronia, intonando “Sta a vedere, vecchio matto”, ci apre il suo animo (ancora nell’atto secondo). Dunque “forma” e “vita” a confronto (nell’accezione pirandelliana). Niente male per un opera “buffa”, che poi buffa non è, bensì piuttosto “di mezzo carattere”, alternando sapientemente momenti comici a momenti lirici.
Anche sul piano musicale le cose non potevano andar meglio, a cominciare dalla prestazione del maestro Omer Meir Wellber, festeggiatissimo dal pubblico veneziano, particolarmente divertito dalla sua apparizione in buca dell’orchestra in una mise da tennista: un simpatico scherzetto di Carnevale. Il maestro israeliano sarebbe addirittura, secondo alcuni, in odore di nomination a direttore principale dell’orchestra della Fenice, una volta scaduto il mandato affidato al valente Diego Matheuz. Tutto si può dire di questo giovane direttore, tranne che non abbia la musica nel sangue. Così se l’agogica può apparire, ad alcuni, a tratti troppo stringata, come eccessive le sonorità, questo non va mai a scapito di una lettura finemente attenta alle sfumature. Ne risulta, tra l’altro, una delle caratteristiche essenziali delle sue interpretazioni, al pari dei più grandi direttori: il bel suono, teso e morbido, coeso e nel contempo in grado di rivelare ogni singolo particolare. Complice ovviamente la raffinatezza nell’orchestrazione del Grande Bergamasco, un compositore non poi così distante dalla sublime scuola strumentale viennese. Questo si è avvertito fin dalla pregevole sinfonia, che si apre con la languida melodia della “serenata” di Ernesto, proseguendo poi col frizzante motivo della cavatina di Norina, per culminare nel concitato tempo finale dal sapore a tratti rossiniano.
Quanto al Cast, Roberto Scandiuzzi nel ruolo eponimo si è confermato una straordinaria voce di basso, in grado, con tutta evidenza, di affrontare ruoli ben più impegnativi anche nel repertorio serio. La parte di Don Pasquale peraltro non è affatto da sottovalutare: richiede una voce estremamente duttile, oltre a scioltezza nel fraseggio e, come sempre in questo genere d’opera, presenza scenica degna di un attore. E Scandiuzzi ha dimostrato di avere tutte le carte in regola nel delineare un personaggio fondamentalmente tronfio e vanesio all’inizio, allorché si sente ardere di senile passione (“Un foco insolito”), come nel momento dell’illusione di un’improbabile vendetta (“Aspetta, aspetta, cara sposina”), consapevole dei propri limiti solo nel momento in cui si rende conto della beffa subita (“È finita, Don Pasquale”). Non è stata da meno Barbara Bargnesi come Norina-Sofronia, un soprano leggero dotato di una voce dal timbro tenuemente screziato, omogenea nei vari registri, dimostrandosi davvero agile nelle colorature e sicura negli acuti (in particolare nel finale del quartetto “Son tradito, beffeggiato” (a conclusione dell’atto secondo, insieme a Don Pasquale, Malatesta ed Ernesto), ma anche capace di una gestualità assolutamente adeguata alla situazione scenica, dando vita ad un personaggio variamente sfaccettato: falsamente remissivo per poi sfoderare tutta la sua spregiudicata, e altrettanto artefatta scaltrezza e svelarsi nel contempo tenera, sincera amante. Un esempio per tutti, “So anch’io la virtù magica”, la celebre cavatina, preceduta dallo struggente arioso “Quel guardo il cavaliere”. Teneramente appassionato l’Ernesto di Alessandro Scotto Di Luzio, una voce forse ancora un po’ acerba, ma certamente molto promettente sia per qualità interpretative che per estensione: “Sogno soave e casto” (atto primo), “Cercherò lontana terra” (in apertura dell’atto secondo, dove tra l’altro si è segnalata la prima tromba della valentissima orchestra), la bellissima serenata del terz’atto “Com’è gentil la notte a mezzo april!” sono alcuni dei momenti salienti della sua interpretazione, molto attenta ad adeguarsi alle varie situazioni psicologiche. Davide Luciano è un dottor Malatesta pienamente nella parte grazie ad una voce baritonale gradevolmente timbrata e duttile: sussiegoso e sfrontato nelle sue macchinazioni ai danni del vanesio vegliardo fin dall’iniziale “Bella siccome un angelo”, che ha concluso con una perfetta cadenza. Di sicura professionalità il Notaio offerto da Matteo Ferrara. Irresistibili in genere le scene d’insieme, particolarmente ardue in presenza del canto sillabato, affrontato in scioltezza in particolare dal basso e dal baritono. Ottima la prestazione del coro che ha brillato in “Che interminabile andirivieni!” oltre che nella serenata, nell’ultimo atto. Scroscianti applausi alla fine di ogni atto, soprattutto in occasione del saluto finale con il maestro Moretti tra il coro, anch’egli vestito da domestico con tanto di grembiule (altra esilarante chicca carnevalesca).