“Medea in Corinto” (1813) di Giovanni Simone Mayr (1763-1845)

Melodramma tragico in due atti su libretto di Felice Romani dalla Medea di Euripide e dalla Medea in Corinto di Domenico Morosini.
Prima rappresentazione: Napoli, Teatri San Carlo, 28 novembre 1813
Primi interpreti: Isabella Colbran (Medea), Andrea Nozzari (Giasone), Michele Benedetti (Creonte), Teodolinda Pontiggia (Creusa), Joaquina Garcìa (Ismene), Manuel Garcìa (Egeo), Raffaele Ferrari (Evandro), Gaetano Chizzola (Tideo). Giuseppe Festa (direttore)
Per l’opera nuova i due artisti scelsero ad argomento Medea in Corinto, tragedia lirica che rappresentata al Teatro S. Carlo di Napoli (autunno 1813) meritò al compositore e al poeta una lettera di ringraziamento del Governo di Napoli, onore non mai dianzi compartito ad alcuno.

In questa lettera del duca di Noja – soprintendente dei teatri e dei spettacoli, primo ciambellano della regina – si diceva, indirizzandosi al Mayr:
«Non trascuro di lodare il giovane autore del libro, a cui pure vi prego di far pervenire gli attestati della sovrana soddisfazione»
La «Gazzetta di Genova» del 22 dicembre 1813, che questa lettera riportava, aggiungeva la postilla che segue: «Questo giovane autore è il nostro concittadino sig. Felice Romani, che giustifica ognor più l’alta idea che abbiamo più volte avuto occasione di manifestare in questo foglio, del raro suo merito; e che è ormai noto in Italia per molte sue produzioni di un gusto squisito e piene di attico sale”. (Emilia Branca, Op. cit., p. 116)
Così Emilia Branca ricordò la composizione e l’immediato successo arriso alla Medea in Corinto alla prima rappresentazione avvenuta il 28 novembre 1813 al Teatro San Carlo di Napoli dove fu messo a disposizione di Mayr un cast d’eccezione costituito dalla bellissima e famosissima Isabella Colbran nel ruolo di Medea e Andrea Nozzari in quello di Giasone. Già conosciuto nella città partenopea dove erano state rappresentate al San Carlo appunto e al Teatro del Fondo due sue opere, Mayr era stato contattato dal geniale impresario Domenico Barbaja che gli aveva commissionato una nuova opera secondo il modello francese con grandiosi recitativi declamati in sostituzione del noioso recitativo secco, scene corali ed arie. Per questa nuova opera fu scelto da Romani e da Mayr il mito di Medea che già aveva conosciuto un grande successo teatrale grazie all’omonima opera di Cherubini su libretto di François Bénoît Hoffman ben conosciuta sia da Mayr che da Romani. Alcuni studiosi di Mayr hanno ipotizzato che il libretto di quest’opera avrebbe costituito la fonte primaria di quello della Medea in Corinto, facendo riferimento all’interesse mostrato dal compositore italiano di origine tedesca per i soggetti trattati da Cherubini come la Lodoïska (1791), l’Elisa (1794) e, quindi, la Medea (1797). Grazie alla sua solida cultura classica Felice Romani, pur traendo qualche suggerimento dal libretto di Hoffman, trattò il soggetto con una certa autonomia ed originalità, come si evince dall’introduzione del personaggio di Egeo, assente nel libretto messo in musica da Cherubini, ma presente sia nella tragedia di Euripide, da Romani sicuramente conosciuta nella traduzione realizzata da Padre Corneli e pubblicata a Padova nel 1754, sia nella Médée di Corneille che sembra il testo al quale attinse maggiormente perché ricco di spunti e di situazioni drammatiche che si adattavano più facilmente alle sue intenzioni artistiche. Proprio il modo in cui è trattato il personaggio di Egeo sembra suffragare questa ipotesi dal momento che, presentato da Euripide come un nobile viandante in cerca di donne che gli possano assicurare una prole, in Corneille appare sin dall’inizio ammantato di quella regalità che ne costituisce uno degli aspetti più significativi oltre a divenire protagonista di situazioni drammatiche del tutto assenti negli altri modelli letterari. Presentatosi, infatti, come re di Atene e pretendente di Creusa, figlia di Creonte, re di Corinto, Egeo chiede ufficialmente la mano della fanciulla e, offesosi, perché respinto cerca di perseguire con la forza il suo intento. Imprigionato e liberato da Medea, alla fine ritorna ad Atene. Del tutto sparita in seguito dal repertorio, l’opera, tuttavia, nella prima metà dell’Ottocento, almeno per una generazione, continuò a calcare i principali palcoscenici europei, annoverando tra i suoi interpreti anche il grande soprano Giuditta Pasta. Ancora nel 1823 l’«Allgemeine Musikalische Zeitung» scriveva che la scena dell’incantesimo del secondo atto poteva essere favorevolmente paragonata alle grandi scene composte da Gluck e da Mozart. Nonostante i suddetti apprezzamenti la Medea di Mayr non rimase ancora per molto nei cartelloni teatrali e fu quasi del tutto dimenticata per essere ripresa 150 anni dopo la prima e nell’anno del bicentenario della nascita del compositore in un’edizione critica approntata dal musicologo Heinrich Bauer che analizzò i vari manoscritti della partitura conservati in biblioteche italiane e straniere.

L’opera
Atto primo

L’opera è introdotta da una classica ouverture
formalmente costituita da due sezioni delle quali la prima lenta e maestosa introduce l’Allegro in forma-sonata in cui al brillante primo tema esposto dagli archi si contrappone il secondo di carattere cantabile affidato, nella dicotomia classica per questa forma sinfonica, ai legni.

La prima scena vede gli abitanti di Corinto che intonano un coro con il quale tentano di rassicurare Creusa sull’amore di Giasone. Nel coro ai suggerimenti del libretto francese di Hoffman si mescolano gli echi della tragedia di Seneca. Se i versi di Romani

Perché temi? A te l’amante
Involare non può Medea.
Tanti eccessi, ond’ella è rea,
Eclissar la sua beltà,

non possono non ricordare quelli del libretto francese:

Jason s’est dégagé d’un hymen odieux
Il fut contraint de fuir une épouse inhumaine
Mais aujourd’hui que la vertu l’enchaîne
Rien ne peut plus briser ses nœuds,

appare chiaro che il librettista aveva anche presente il testo del primo coro della tragedia di Seneca che rivolgeva a Giasone questo invito:

Ereptus talami Phasidos horridis,
effrenae solitus pectora conjugis
invita trepidus prendere dextera
felix Aeoliam corripe virginem.

Al coro risponde Creusa con accenti di tenero e commosso lirismo, mentre Tideo, il padre Creonte e gli abitanti di Corinto annunciano l’arrivo di Giasone protettore della città e della pace. Nel successivo recitativo accompagnato Creonte informa la figlia della sconfitta definitiva di Acasto che aveva minacciato la pace di Corinto e dell’imminente esilio di Medea che avrebbe lasciato i figli a Giasone. Annunciato da un coro che esalta le imprese di Giasone e che si configura come una geniale aggiunta di Romani rispetto al modello francese, l’eroe si produce nella sua cavatina, Di gloria all’invito, nella quale manifesta i suoi sentimenti di affetto nei confronti sia di Creonte che di Creusa. Nel successivo recitativo accompagnato si apprende che ormai sono pronti i preparativi per le nozze con Creusa, promessa una volta a Egeo, ma innamorata ricambiata dell’eroe greco il quale, felice, manifesta la sua gioia a Tideo; questi, però, gli ricorda i suoi trascorsi con Medea, la sua precedente amante, diventata per Giasone una donna empia. A differenza del libretto di Hoffman qui Medea agitatissima fa la sua apparizione sulla scena con largo anticipo manifestando con grande forza passionale la sua ira per l’indifferenza di Giasone nei suoi confronti. Cacciata via dagli abitanti di Corinto, Medea resta sola sulla scena con i suoi tormenti che Romani, ancora una volta distaccandosi dal modello di Hoffman per ricollegarsi a quello tramandato da Corneille e da Seneca, scandaglia con grande forza icastica. Rimasta sola, Medea intona, introdotta da un violino solista, l’aria Sommi dei, una pagina di un lirismo già romantico nella quale l’eponima eroina chiede agli dei dapprima di vendicare il suo amore oltraggiato, ma poi, pentita, invoca Amore affinché la possa aiutare dal momento che lui è stato la causa di tutti i suoi delitti.
Nel successivo recitativo accompagnato Ismene rimprovera a Giasone di aver tradito Medea, ma l’uomo si difende rispondendo di aver ottenuto da Acasto il commuto della pena di morte per Medea e per i suoi figli nel bando dalla città di Corinto. Sopraggiunge Medea che nel successivo duetto con Giasone rimprovera all’eroe di aver commesso quei delitti per cui è condannata (l’uccisione del fratello, il tradimento nei confronti del padre e il supplizio di Pelia) solo per amor suo.
Come già accennato in precedenza, altra novità introdotta da Romani è la presenza di Egeo che, nel recitativo e aria Alfine io vi riveggo, contempla con nostalgia i luoghi in cui è fiorito il suo amore per Creusa, sua promessa sposa, ma ora in procinto di sposare Giasone. Nel successivo recitativo accompagnato il re di Atene trova nelle parole di Tideo conferma alle voci che davano imminenti le nozze tra Giasone e Creusa. La scena si sposta nel tempio dove un coro di sacerdoti e donzelle è impegnato nei preparativi delle nozze rovinate da Egeo e da Medea che rapiscono Creusa.
Atto secondo
Il secondo atto si apre con un coro piuttosto convenzionale
con il quale si festeggia il ritorno di Creusa che, introdotta da uno splendido assolo dell’arpa, ringrazia tutti nella successiva aria Caro albergo di ottima fattura musicale per la scrittura che anticipa esiti donizettiani e belliniani. Nel successivo recitativo accompagnato, di cui sono protagonisti Creonte, Creusa e Tideo, si apprende che Giasone ha sconfitto Egeo e che l’eroe sarà anche arbitro del destino di Medea; costei appare nella scena successiva insieme con Ismene in un sotterraneo rappresentato da una scrittura cupa. Ismene è preoccupata, perché non capisce quali siano le intenzioni di Medea che vuole invocare le forze dell’Averno per mettere in opera il suo terribile progetto. La donne è furibonda e nel recitativo Ogni piacere è spento manifesta le sue intenzioni di vendetta, mentre nell’aria Antica notte invoca le forze infernali in una scrittura estremamente drammatica e cupa resa anche da una sapiente orchestrazione. Cupo è anche il coro delle forze infernali che rispondono a Medea, mentre una musica nobile, quasi salottiera, introduce il successivo recitativo che si svolge negli appartamenti regali, dove Giasone e Creonte discutono dei recenti avvenimenti. Giunge Creusa che cerca di intercedere affinché si possa esaudire il desiderio di Medea di vedere per l’ultima volta i suoi figli prima di partire. Rimasta sola, Creusa appare agitata da un turbamento interiore, ma viene prontamente rassicurata da Giasone appena sopraggiunto nel successivo tenero duetto. Con un nuovo cambio di situazione drammatica, la scena si sposta nel carcere dove langue Egeo che commisera la sua condizione imprecando contro le stelle e il destino. Subito dopo l’uomo è raggiunto da Medea la quale nel successivo recitativo gli manifesta la sua intenzione di liberarlo a patto che questi le dia asilo nel suo regno. L’uomo accetta e anzi, nel duetto successivo Se il sangue, la vita si mostra pronto ad offrire ben altri onori alla sua salvatrice che desidera solo perseguire la sua vendetta. Una solenne introduzione strumentale ambienta la scena successiva che si svolge negli appartamenti reali dove è stato appena compiuto il rito sacro del matrimonio; Giasone, che non è solo felice (Grazie, nume d’amor), ma anche sorpreso per il fatto che Medea gli abbia lasciato la possibilità di godere di questo momento, si produce nell’aria Amor, per te penai in un’esaltazione del dio che gli ha donato questa gioia. La sua gioia, però, è turbata dalle voci del coro da dietro le quinte che annuncia la triste notizia della prossima morte di Creusa per avvelenamento. Nel successivo recitativo affidato a Tideo si apprende che l’artefice del misfatto è Medea della quale l’uomo cerca di correre in traccia; costei, da parte sua, sempre più agitata, dopo aver discusso con Ismene dell’infelicità di Giasone, medita di compiere una vendetta ancor più atroce nei confronti dell’antico amante: uccidere i figli. Il pensiero di questo orrendo delitto, in una mirabile anticipazione del tormento di Norma, fa tentennare Medea che, però, a differenza della sacerdotessa gallica, porta a compimento il suo misfatto. Nello splendido finale, mentre Giasone e Creonte piangono rispettivamente la moglie e la figlia, manifestando propositi di vendetta, la donna entra in scena facendo intendere di aver ucciso i figli. Una tempesta nel frattempo infuria e Medea si allontana su un carro tirato da due draghi, mentre Giasone tenta di uccidersi, ma viene trattenuto a differenza di quanto avviene in Corneille dove l’eroe al colmo della disperazione si uccide.