Genova, Teatro Carlo Felice: “Fedora” (cast alternativo)

Teatro Carlo Felice Stagione d’Opera e Balletto 2014/2015   
“FEDORA”
Melodramma  in tre atti di Arturo Colautti, dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Umberto Giordano
La principessa Fedora Romazov IRENE CERBONCINI
Il conte Loris Ipanov RUBENS PELIZZARI
De Siriex, diplomatico SERGIO BOLOGNA
La contessa Olga Sukarev  PAOLA SANTUCCI
Dimitri, groom MARGHERITA ROTONDI
Desiré, cameriere MANUEL PIERATTELLI
Il barone Rouvel ALESSANDRO FANTONI
Cirillo, cocchiere LUIGI RONI
Borov, medico CLAUDIO OTTINO
Gretch, ufficiale di polizia ROBERTO MAIETTA
Lorex, chirurgo DAVIDE MURA
Nicola, staffiere ALESSIO BIANCHINI
Sergio, staffiere ANTONIO MANNARINO
Michele, portinaio ALESSANDRO PASTORINO
Boleslao Lazinski, pianista SIRIO RESTANI
Un piccolo savoiardo SEBASTIANO CARBONE
Il vecchio Loris LUCA ALBERTI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Valerio Galli
Maestro del coro Patrizia Priarone
Regia Rosetta Cucchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Claudia Pernigotti
Luci Luciano Novelli
Nuovo allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 22 marzo 2015

Un tempo opera del grande repertorio, da vari decenni ormai, sostanzialmente dal dopoguerra, Fedora viene allestita quasi esclusivamente su richiesta di qualche celebre primadonna, spesso nella fase Sunset Boulevard della parabola artistica, bramosa di cimentarsi in un ruolo da mattatrice che non solleciti più di tanto il registro acutissimo. Ed infatti eFedora Genova marzo2015-1ntrambe le affermazioni sono confermate dagli annali del Teatro Carlo Felice: si contano ben ventuno allestimenti fra il febbraio 1899 (appena tre mesi dopo la prima assoluta al Teatro Lirico di Milano) e il 1945, poi assistiamo a un salto di undici anni (1956), dopo di che passano addirittura quarantaquattro anni prima che Mirella Freni, che ne aveva fatto un cavallo di battaglia nell’ultima fase della carriera, la portasse anche a Genova nel 2000.  Ci voleva un’altra diva, genovese per di più, per far riaffiorare Fedora dal semi-oblio in cui è purtroppo caduta, Daniela Dessì, la cui prova è stata descritta in dettaglio dal collega Baracchini (qui la sua recensione), a cui rimando anche per quanto concerne la parte visiva dello spettacolo. E genovese è anche la Fedora del cast alternativo, Irene Cerboncini, che ha confermato ed anzi rafforzato l’opinione positiva destata lo scorso anno nei panni di un’altra ben più popolare eroina nata dalle fervida immaginazione di Sardou, Tosca. La Cerboncini, già interprete di Fedora al Teatro alla Scala undici anni or sono, è tuttora nel pieno dei suoi rigogliosi mezzi vocali, possiede uno strumento da autentico lirico spinto, acuti raccolti emessi con una “punta” penetrante, un registro medio-grave pastoso che le permette di fronteggiare senza problema alcuno la tessitura alquanto ibrida del ruolo (come già Santuzza, creata dalla stessa Gemma Bellincioni, anche Fedora ha spesso irretito mezzosoprani in cerca di ruoli da protagonista) e di affondare nel registro di petto con gusto e senza sbracature. Particolarmente ricca di armonici si rivela la zona in cui il ruolo martella incessantemente, quella tra fa 4 e la 4, senza traccia di quello stridore che spesso comporta il battere e ribattere in questa area, e l’unica nota acutissima della partitura, il do 5 al termine del secondo atto (che fra l’altroFedora Genova marzo2015-2 sarebbe solo un oppure offerto dal compositore) era emessa con spavalderia, esprimendo alla perfezione quel senso di climax liberatorio che indubbiamente possiede. Nonostante Fedora venga descritta come opera verista (naturalista sarebbe definizione assai più pertinente), in realtà l’enfasi posta sugli estremi emotivi è un esercizio in psicopatologia: il soprano ligure canta in modo ineccepibile ma assai di rado appare nevrotica o pericolosa. Probabilmente si tratta di un tentativo di ipercorrezione, volto a “ripulire” il ruolo dagli eccessi istrionici che lo hanno spesso caratterizzato, ma che ha finito per sanitizzarlo un po’ troppo.
Decisamente rivolte verso un certo tipo di approccio veristeggiante sono al contrario l’emissione e l’interpretazione di Rubens Pelizzari, un Loris che in diversi punti richiamava alla memoria il Mario Del Monaco della celebre incisione discografica DECCA (un esempio per tutti, l’identico modo di enfatizzare la prima sillaba della parola “un’onda di risa” nel racconto di Loris del secondo atto). Voce di quelle che si suol definire “generose”, tende a cantare tutto su un perenne forte (concediamo che il ruolo non invita né richiede in fin dei conti troppe sottigliezze), con emissione un po’ nasaleggiante nei centri e aperta in alto. Scritto per un giovane Enrico Caruso, che agli inizi della carriera non aveva acuti sicurissimi, anche il ruolo di Loris insiste sul registro centrale e in particolare nella zona del passaggio, come del resto la stragrande maggioranza delle parti tenorili composte in quel periodo storico. Per dovere di cronaca è doveroso ricordare che Pelizzari, per l’indisposizione di Fabio Armiliato la sera precedente, si è ritrovato a cantare due recite a poche ore di distanza l’una dall’altra.
Fedora Genova marzo2015-3Piacevolissima sorpresa l’Olga di Paola Santucci, riuscita nella difficilissima impresa di dare un certo spessore ad un ruolo ingrato vocalmente e ancor più drammaturgicamente, il cui unico scopo è quello di allentare la tensione e di creare un’oasi di spensieratezza poco prima e come contrasto alla catastrofe finale. La Santucci ha un bel timbro compatto e piuttosto scuro per un soprano lirico leggero, un’emissione tecnicamente agguerrita e una presenza scenica di grande naturalezza. Tutto ciò non le ha impedito di esser deprivata dell’aria della bicicletta del terzo atto: non sarà un momento musicalmente di prim’ordine ma non ha molto senso in fin dei conti apportare tagli in un’opera tanto corta.
Convincente anche Sergio Bologna nei panni di De Siriex, commosso e partecipe nel terzo atto e frivolo alla bisogna; vocalmente il ruolo non pare porre particolari problemi al baritono carrarese.
Considerato il numero altissimo di ruoli secondari, ci limiteremo a menzionare il veterano Luigi Roni nelle vesti del cocchiere Cirillo, e la voce pura ed intonata del bambino Sebastiano Carbone.
Che Valerio Galli abbia una particolare affinità per il repertorio della Giovane Scuola è cosa ormai appurata da tempo e le sue prove pucciniane degli ultimi anni ne sono testimonianza. Per un direttore che si avvicini a Fedora la sfida forse più ardua è quella di mantenere la tensione narrativa estremamente tesa e al contempo dare il giusto risalto alle espansioni melodiche, e può sicuramente dirsi che Galli abbia trovato il giusto equilibrio: ha diretto questa musica, che – si ammetta pure – non è immune da dislivelli qualitativi, con un fuoco continuo e costante, energizzando anche quei momenti a prima vista inerti, quale ad esempio la scena musicalmente scarna (in pratica nient’altro che un lunghissimo pedale) in cui Fedora decide di scrivere la lettera, e che sfocia nel celebre intermezzo, reso dal direttore con un respiro ed una vibrazione emotiva travolgenti. Foto di Marcello Orselli