“Siegfried” al Gran Teatre del Liceu di Barcelona

Atto III, scena III

Barcelona, Gran Teatre del Liceu – Temporada 2014/2015
“SIEGFRIED”
Seconda giornata, in tre atti, della Tetralogia Der Ring des Nibelungen
Libretto e Musica di Richard Wagner
Siegfried  LANCE RYAN
Mime  GERHARD SIEGEL
Der Wanderer  GREER GRIMSLEY
Alberich  OLEG BRYJAK
Fafner  ANDREAS HÖRL
Erda  MARIA RADNER
Brünnhilde  CATHERINE FOSTER
Stimme des Waldvogels  CRISTINA TOLEDO
Orquestra Simfònica del Gran Teatre del Liceu
Direttore  Josep Pons
Regia  Robert Carsen
Scene e costumi  Patrick Kinmonth
Assistente alle scene  Darki Petrovich
Luci  Manfred Voss
Produzione Bühnen der Stadt Köln
Barcelona, 17 marzo 2015

Sono a oggi ventisette le edizioni di Siegfried realizzate dal Gran Teatre del Liceu di Barcelona: la prima fu nel 1900, con Raffaele Grani come protagonista, un tenore italiano, anche perché l’opera era cantata in italiano (nella famigerata versione di Angelo Zanardini); l’ultima, quella attuale, rientra invece all’interno di una Tetralogia distribuita, come ormai è d’uso, su quattro anni: il progetto musicale è affidato a Josep Pons, che del Liceu è il Direttore musicale, mentre l’allestimento e la regia sono di Robert Carsen. Iniziato nel 2013, questo Ring des Nibelungen si concluderà l’anno prossimo con la terza giornata. Negli ultimi anni si è assistito a produzioni wagneriane tra loro disparate, ma per quanto riguarda la Tetralogia è andata affermandosi la tendenza alla macchinosità teatrale, alla struttura farraginosa, complicata, e anche un po’ circense: chi ha visto gli allestimenti della Fura dels Baus o di Guy Cassiers sa bene di quale fenomeno si tratti. L’idea teatrale di Carsen è del tutto differente, perché riporta la rappresentazione al gesto individuale, all’interazione tra i personaggi, per ridurre al minimo il resto della scena; lo spazio, in questo Siegfried, è colmato dalle sole presenze corporee, che lo animano senza bisogno di macchinari o di altri effetti mirabolanti.
Tale impostazione si abbina bene alle scelte musicali. Il direttore Josep Pons svolge infatti un lavoro molto accurato e affronta la partitura con esemplare correttezza, senza mai eccedere, né nei ritmi né nelle sonorità. Ma incorre nell’errore di voler far risaltare tutto, ogni motivo e ogni singola piega strumentale; e così nella sua pregevole orchestra manca sempre il legato, manca quella tinta unitaria che avvolga la sala in un suono omogeneo, autenticamente wagneriano.
Sul protagonista, Lance Ryan, è opportuno sintetizzare al massimo, anche perché se n’è già scritto a sufficienza a proposito delle sue ultime recite scaligere, Siegfried e Götterdämmerung. Da allora, purtroppo, la vocalità del tenore canadese (vincitore del concorso AsLiCo 2002) non è cambiata in modo apprezzabile; il timbro si è leggermente schiarito, e l’emissione oscilla sensibilmente; basti dire che, nella voce e nella gestualità, quanto più tenta di incarnare l’eroico Siegfried, tanto più rischia di assomigliare a Stan Laurel … È vero che la regia di Carsen, come è facile immaginare, profila ambientazioni e personaggi del tutto antieroici; ma del carattere musicale di Siegfried dovrà pure salvarsi qualcosa di quello che Wagner auspicava!
Senza dubbio, per qualità artistica, presenza e gesto il personaggio meglio riuscito è quello di Wotan. La voce di Greer Grimsley non sfoggia moltissimi colori, ma quanto a corposità, sicurezza, intonazione e tenuta è semplicemente grandiosa. Questo basso-baritono è nato a New Orleans e frequenta i teatri di tutto il mondo (pochissimo quelli italiani: forse due sole apparizioni in tutta la sua carriera) con ruoli più che altro wagneriani (e anche straussiani); ad ascoltarlo pare formato per essere un Wotan quasi ideale. Il Mime di Gerhard Siegel ha pochissimo di caricaturale nel I atto; anzi, è quasi dignitoso nelle sue premure verso Siegfried, mentre diventa grottesco nel II. La voce di questo tenore tedesco è molto bella, e non ha nulla delle solite risonanze lagnose che spesso rendono stucchevole il canto di Mime; Siegel del resto nasce come compositore, e in tutta la sua interpretazione il senso teatrale applicato alla musica è straordinario; il pubblico del Liceu se ne rende ben contro, visto che alla fine gli tributa un’ovazione pari a quella di Wotan. Oleg Bryjak è un Alberich dalla voce potente e fermissima, quasi più da basso che da baritono (l’emissione degli acuti non è infatti felicissima), con una dizione perfetta, che gioca molto sulle liquide. La sua formazione artistica è tutta kazakha, ma debutta nel ruolo di Alberich (tra quelli che più assiduamente sostiene) a Vienna nel 1998: si sente in lui, come in Siegel, una musicalità particolare nata da annosa esperienza. Il duetto nibelungico tra i fratelli è dunque magnifico, perché entrambi gli interpreti sono cantanti e artisti eccezionali (forse si potrebbe rilevare qualche inflessione di gola in Bryjak, rispetto all’omogeneità vocale di Siegel, ma è davvero poca cosa). Andreas Hörl (Fafner) è un allievo di Kurt Moll, e dal maestro ha ereditato l’aplomb di basso wagneriano, anche se di voce meno imponente. L’Erda di Maria Radner è corretta ed espressiva. Non del tutto aerea e leggera come si vorrebbe è invece la voce dell’uccellino del bosco della madrilena Cristina Toledo. La sorpresa vocale femminile dovrebbe essere nel Siegfried al risveglio di Brünnhilde, che qui è Catherine Foster (si alterna nelle recite a Iréne Theorin; il pubblico italiano ricorderà quest’ultima come walchiria scaligera nella Tetralogia diretta da Barenboim). Dal 2007 l’inglese Foster canta il ruolo di Brünnhilde nei cicli completi del Ring rappresentati a Weimar, Amsterdam, Hamburg, Berlin (sia alla Deutsche Oper sia alla Staatsoper), Helsinki, Tokyo, et cetera; al Liceu ha debuttato proprio come protagonista di Die Walküre nella scorsa stagione. La voce, pur bene impostata, è priva di caratteri salienti; nell’emissione di lunga tenuta tende a produrre il solito vibrato largo, che a volte sembra proprio un’oscillazione; belle le mezze voci, mentre gli acuti si confondono un po’ con il grido. Il livello vocale della compagnia è quindi complessivamente più che buono (se si sottrae alla media il giudizio sul protagonista), e come tale il pubblico catalano dimostra di apprezzarlo.
Ancora più uniforme e coerente tutto l’impianto registico. Se nel I atto è molto pregevole la fotografia del sordido accampamento dove vivono Siegfried e Mime (una roulotte d’antan è la loro casa, circondata da rottami e rifiuti), nella regia di Carsen il II atto è forse il momento meglio riuscito, poiché in esso coesistono il grandioso e il grottesco: il luogo è un bosco dai tronchi spezzati, dove Alberich vive come un barbone. L’apparizione di Fafner coincide con la discesa dall’alto di una gigantesca benna, che si spalanca come le fauci di un drago, posandosi sulla scena e troneggiandovi fino alla fine. Mime si traveste da maître d’hôtel in guanti bianchi per ammannire a Siegfried un avvelenato pranzo della vittoria; quando l’eroe lo trafigge cade ginocchioni, con la faccia nella torta che aveva mellifluamente preparata. Sono i particolari a dimostrare la genialità di un regista: dopo che Fafner è colpito a morte, tra i fumi che aleggiano sopra la benna compare l’interprete vestito con tuta militare, esattamente identica a quella di Siegfried, ancorché impregnata di sangue. Il drago, il serpente neghittoso e superbo, è dunque lo stesso Siegfried, e il giovane resta turbato perché nel mostro riconosce di aver ucciso se stesso, la sua infanzia e la sua innocenza; e in effetti, impadronendosi dell’anello, anche l’eroe avvia la propria distruzione, come tutti i protagonisti della Tetralogia.
Il III atto non si apre, come di solito, sulle falde della montagna infuocata, bensì nella sala del Walhall con i mobili accatastati e i grandi divani coperti da teli bianchi: il luogo dove Wotan e gli altri dei attendono la fine; un luogo evocato dai personaggi della Götterdämmerung, ma mai rappresentato nel libretto del Ring; poi la scena si svuota per diventare un campo di battaglia cosparso di armi abbandonate e circondato da una linea di fuoco. Ritorna quindi la tradizione; ma merito generale di Carsen è aver proposto un percorso di crescita del suo protagonista: nel I atto è ancora un adolescente disadattato, che gioca con gli animali di peluche di cui la scena è disseminata (Mime ne estrae uno anche dal forno della cucina da campo), nel II diventa uomo compiaciuto della sua forza, nel III scopre l’amore e la sessualità. Un divenire elementare, la cui realizzazione non dispiace però al sofisticato Carsen; del resto, a manifestare la complessità di quel che nel mondo e nell’esistenza può apparire semplice provvede sempre la musica di Wagner.
Foto A. Bifill © Gran Teatre del Liceu