Venezia: Diego Matheuz, Anna Barutti e Massimo Somenzi in concerto al Teatro Malibran

Teatro Malibran, Stagione sinfonica 2014-2015 del Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Diego Matheuz
Pianoforti Anna Barutti, Massimo Somenzi  
Pēteris Vasks: Cantabile per archi
Francis Poulenc: Concerto per due pianoforti e orchestra in re minore FP 61
Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore, op. 70
Venezia, 28 febbraio 2015
Graditissimo ritorno al Teatro Malibran, in questa stagione fenicea di concerti, dei pianisti veneziani Anna Barutti e Massimo Somenzi, già brillantissimi allievi del Conservatorio Benedetto Marcello e ormai affermati solisti non solo in Italia, oltre che di Diego Matheuz, che è stato direttore principale dell’orchestra del Teatro La Fenice dal 2011 al 2014, meritandosi la stima e l’affetto del pubblico veneziano. I titoli in programma erano caratterizzati da una comune tendenza a rivsitare il passato più o meno lontano: contemplato con struggente nostalgia, nel caso del Cantabile per archi del compositore lettone Pēteris Vasks – che guarda a certe analoghe pagine di Mahler –, oppure rifatto con intenti parodistici e tanta voglia di divertirsi e di divertire, come nel neoclassico Concerto per due pianoforti e orchestra in re minore FP 61 di Francis Poulenc – un pastiche di materiali eterogenei, con citazioni che vanno da Scarlatti a Mozart, da Ravel a Stravinskij – o nella Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore op. 70 di Dmitrij Šostakovič, che nei tre scanzonati movimenti veloci si basa su un neoclassicismo ironico e spensierato, infarcito di gustosi ammiccamenti agli stili di diversi autori, tra cui Stravinskij, Prokoviev, Haydn.
Impeccabili gli archi dell’orchestra della Fenice nel Cantabile di Vasks, che schiude un universo sonoro, fatto di tenui note lungamente tenute, a suggerire atmosfere rarefatte, che talora lentamente si caricano di pathos fino a raggiungere il culmine – non troppo marcato – di un climax, per poi ritornare a crepuscolari sonorità, come in un nostalgico ricordo, nel quale la lontananza temporale addolcisce le passioni, lenisce il dolore, e alla fine genera sempre piacere: “Oh come grato occorre (…) il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l’affanno duri!”, afferma – per quanto in un diverso contesto – Leopardi. Matheuz ne ha offerto una lettura giustamente senza sdolcinature – com’è suo costume –, ma nello stesso tempo sensibile alle innumerevoli sfumature, che arricchiscono questa pagina di estrema suggestione.
Tutt’altro clima domina nel Concerto per due pianoforti e orchestra di Poulenc, composto nel 1932 su commissione di Winnaretta Singer, figlia del magnate delle macchine da cucire, divenuta marchesa di Polignac, della quale Poulenc fu più volte ospite a Palazzo Contarini Polignac sul Canal grande. Nel ’32 Maurice Ravel, aveva da poco completato i suoi due concerti per pianoforte (Concerto per pianoforte e orchestra e Concerto per pianoforte per la mano sinistra), al primo dei quali Poulenc sicuramente si ispirò per questo lavoro, eseguito in prima assoluta a Venezia nello stesso anno, nell’ambito del Festival di Musica contemporanea della Biennale – solista l’autore stesso insieme a Jacques Février, per cui la composizione era stata concepita. Anna Barutti e Massimo Somenzi hanno sfoggiato, in particolare, un tocco sapientemente variato nell’interpretazione di questo concerto, nel quale emerge abbastanza spesso l’anima percussiva del pianoforte, in linea con una delle tendenze prevalenti nel pianismo novecentesco. Nel primo movimento, Allegro ma non troppo, i due solisti hanno espresso pienamente la verve che emana da questa musica, segnata da diversi passaggi ironici, inframezzati da qualche squarcio di esibita più che sincera malinconia; una musica che svela l’indole impertinente del “ragazzaccio” Poulenc,attraverso uno spregiudicato eclettismo che associa i richiami neoclassici alle canzonette da caffè o alle sonorità delle orchestrine gamelan. Analogamente, nel secondo movimento, Larghetto, i due solisti hanno eseguito con la giusta leggerezza i richiami al classicismo mozartiano (in particolare al Concerto per pianoforte e orchestra KV 466 e al Concerto per due pianoforti e orchestra KV 365), misti a spunti musicali – melodie e colori orchestrali – prettamente francesi. Il Music-hall francese, il Jazz alla maniera di Geoge Gershwin e le sonorità gamelan giavanesi si intrecciano nel movimento conclusivo, Allegro molto, in cui assieme ai solisti, hanno brillato anche gli strumentisti dell’orchestra, dimostrando grande capacità d’insieme, fino all’improvviso travolgente finale, a conclusione di un’esecuzione davvero pregevole, in cui – anche altrove – le varie sezioni e i singoli strumenti erano spesso felicemente impegnati in prestazioni solistiche.
Altrettanto impegnativa, nella seconda parte del concerto – per i frequenti assolo, oltre che per i passaggi d’insieme – la Sinfonia n. 9 di Šostakovič, che costituisce la terza parte della cosiddetta “trilogia bellica”, finalizzata a celebrare le sofferenze, lo sforzo e la vittoria del popolo sovietico nella guerra contro la Germania nazista: dopo la Settima, composta in buona parte durante l’assedio Leningrado, e l’Ottava, che rappresenta un requiem per le vittime della guerra, la Nona doveva festeggiare solennemente, gioiosamente la vittoria dell’Unione sovietica sugli invasori. In effetti nel lavoro di Šostakovič, scritto nel 1945 ed eseguito per la prima volta nel novembre di quell’anno dall’orchestra sinfonica di Leningrado, diretta da Evgenij Mravinskij, domina un clima certamente gioioso, ma anche traboccante di humor, spenseratezza, voglia di scherzare, cosicché la sinfonia fu accolta con ostilità della critica ufficiale sovietica, che lamentò la mancanza di contenuti adeguati (intendi: di una celebrazione magniloquente in linea con la retorica stalinista), cogliendovi invece “cinismo” e “fredda ironia”. Di questo, peraltro, era consapevole l’autore stesso, che nel presentare il suo nuovo lavoro alla stampa, lo aveva definito un “pezzetto allegro”, prevedendo che “i musicisti avrebbero provato piacere a suonarlo ed i critici si sarebbero deliziati a stroncarlo”.  La più concisa delle sinfonie di Šostakovič è divisa in cinque brevi movimenti, di cui quelli lenti – il Moderato e il Largo – sono intrisi di lirismo, mentre l’Allegro iniziale, lo Scherzo e il conclusivo Allegretto – concepiti, come si è già accennato, secondo l’ideale neoclassico di Strawinsky e Prokofiev, ma anche in base al classicismo viennese di Haydn e di altri autori – rivelano particolare propensione all’umorismo, se non alla vera e propria comicità. Assai ricca e varia, in questa partitura, è la strumentazione, nella quale hanno un ruolo di primo piano, i legni, per quanto anche le altre sezioni siano adeguatamente valorizzate. Di grande effetto l’esecuzione dell’orchestra della Fenice, che sotto la guida sicura di Matheuz, ha sfoggiato verve, humor, sensibilità, padronanza tecnica. L’Allegro, costruito sul modello haydniano – come conferma la presenza di uno dei suoi elementi più tipici: il ritornello – ci ha immesso sin dalle prime battute in un clima giocoso, sviluppandosi poi attraverso i suoi due spigliati temi dal ritmo danzante, il secondo dei quali introdotto da un semplice ma efficace motivo di due note al trombone, distanti un intervallo di quarta, dal tono clownesco, particolarmente irresistibile a conclusione dello sviluppo, quando lo strumento a coulisse lo ripete ostinatamente prima che il secondo tema possa ripresentarsi. Un diverso stato d’animo, dolcemente lirico e meditativo, si è colto nel successivo Moderato, mentre con il Presto si è pienamente ricreato il clima giocoso dell’Allegro, il cui sviluppo è percorso da temi di danza, con variazioni, pieni di humor, tra cui spiccava imperioso quello dai toni spagnoleggianti. Espressivo il recitativo dei fagotti e dei tromboni, su cui si basa il Largo, che rappresenta l’unico legame emotivo con le altre due sinfonie della “trilogia bellica”. Di nuovo spensierato il clima dell’Allegretto, caratterizzato da uno scintillante tema, variamente elaborato, dai tratti davvero buffi, corrispondente alla polka del film La giovinezza di Maksim (1935) di Grigorij Michajlovič Kozincev, per concludersi con una vorticosa coda in un crescendo surreale. Calorosi applausi, a conclusione della prima parte del concerto, premiati da un bis pianistico, consono al programma proposto, che ha confermato le doti migliori dei solisti: la Landerinette da Ma mère l’Oye di Maurice Ravel. Tripudio finale per tutti con segnalazione delle parti orchestrali più meritevoli.