La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle

Giselle è, ancora oggi, uno dei balletti del repertorio ottocentesco più rappresentati e più “sentiti” dal pubblico e dagli interpreti. Tutto sembra essere stato detto al riguardo, eppure questo felice esito dell’arte e dell’ingegno Théophile Gautier, Adolphe Adam e dei coreografi Jean Coralli e Jules Perrot continua a essere un fertile terreno di studio, da parte degli storici della danza.
Un taglio particolare è offerto dal saggio scientifico di Maria Venuso, pubblicato nel novembre del 2014 su «Acting Archives Review» dell’Università Orientale di Napoli. Si esaminano qui le ascendenze ballettistiche del lavoro operistico idealmente più vicino a Giselle, ossia La Sonnambula di Vincenzo Bellini, per condurre un esame comparato fra la drammaturgia dell’opera e il balletto, grazie al confronto tra il linguaggio del melodramma e quello coreografico. E questo per fare chiarezza sui luoghi comuni che spesso rischiano di circoscrivere Giselle in ambiti più o meno fuorvianti.

Il presente contributo ha per oggetto la disamina della drammaturgia di uno dei balletti del repertorio ottocentesco sui quali più si è scritto e che ancora alimenta idee e utili riflessoni, Giselle, ou Les Wilis su musica di Adolphe Adam, coreografia di Jean Coralli e Jules Perrot e libretto da un’idea di Théophile Gautier, sviluppata per lo scenario da Jules Henry Vernoy de Saint-Georges (prima rappresentazione il 28 giugno 1841, all’Opéra di Parigi). In questa sede, sia pure con i dovuti limiti, si utilizzeranno i dati acquisiti dalla letteratura musicologica relativa a uno dei più fortunati esiti del melodramma italiano, La Sonnambula, o i due fidanzati svizzeri su musica di Vincenzo Bellini e versi di Felice Romani (prima rappresentazione al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo 1831) e si tenterà di ‘trasferirli’ sul balletto principe del Romanticismo francese, a tutt’oggi inossidabile tassello del repertorio delle più grandi compagnie di balletto.
Il melodramma, quale arte teatrale fondata sul connubio di musica canto e gestualità, è il genere di spettacolo più legato alla rappresentazione ballettistica.[1] La musica è la parola del balletto, laddove il gesto si ferma; è l’anima del melodramma laddove la voce tace, la voce fuori campo del narratore o della mente del personaggio. E nel balletto la musica diventa voce e pensiero di quest’ultimo, completandone necessariamente l’espressione del sentimento o dell’azione.
La metodologia impiegata dagli studi musicologici (di diretta derivazione filologica) sarà qui applicata all’articolazione strutturale e drammaturgica del disegno coreografico, in quanto appare assai adatta a trasferire sul materiale ballettistico di rilevanza storica gli stessi criteri per decodificare l’intrinseco valore artistico e la potenza drammaturgica della messa in scena coreica. Senza alcuna pretesa di esaustività, in questo contributo si prenderanno in considerazione, sia pure in maniera non completa, i punti più significativi di due rappresentanti emblematici di entrambi i generi in oggetto, considerando che le ascendenze del balletto Giselle sono state per lo più ricercate nel mondo esclusivo della poesia e della letteratura, a cagione della genesi dalla situazione derivata da Hugo e Heine, che piacque tanto a Gautier, la cui paternità del libretto, condivisa con Vernoy de Saint-Georges, è a tutt’oggi controversa. La stretta collaborazione di Gautier e Saint-Georges ─ quest’ultimo già tecnicamente versato nella composizione di librtetti da ballo, dal momento che aveva già lavorato per due fortunati balletti di J. Mazilier, La Gipsy (1839) e Le dialble amoreaux (1840) ─ era una prassi abituale al tempo e le tesi di autorevoli studiosi del Novecento (tra cui Serge Lifar, Ivor Guest, Edwin Binney) confermano la difficoltà di dirimere la faccenda dell’autorialità.[2] È fuor di dubbio che l’estro poetico di Gautier abbia contribuito in maniera determinante alla fortuna di Giselle non solo nell’idea, espressa in prima persona nel resoconto pubblicato su «La Presse» a pochi giorni dal debutto del balletto (il 5 luglio del 1841). La dichiarata fonte di ispirazione trovata nelle descrizioni del mondo lunare popolato di elfi e pallide Villi nel De l’Allemagne di Heine, la sua iniziale intenzione di ricavarne un balletto dal titolo Les Wilis, in realtà poco ‘rappresentabile’ secondo le abitudini correnti, nonché lo scambio di idee con Saint-Georges sul tema e sulla sua resa per il ballo, conducono all’esito che noi conosciamo, senza chiarirne i punti più problematici. Nella stessa lettera ad Heine Gautier dichiara l’intenzione iniziale di plasmare il profilo della protagonista sulla fanciulla spagnola del poema Fantômes di Victor Hugo, ma anche il successivo ripensamento dettato dalla mancanza dell’effetto scenico necessario. Il primo atto, di impianto più tradizionale, sarebbe dunque – secondo quanto lascia intendere il poeta – opera dello smaliziato librettista Saint-Georges, quale fabula topica, con la definizione del carattere ingenuo fresco e ‘diverso’ della protagonista (diverso dai suoi simili), finalizzata essenzialmente a ‘procurare’ «la graziosa morta» necessaria all’introduzione dell’atto bianco[3] di ascendenze germaniche, rendendo peraltro «accettabile e possibile all’Opéra» la leggenda narrata da Heine, «pur rispettando lo spirito della …leggenda».[4] La fonte è espressamente citata all’inizio del libretto di Giselle, dove Gautier riporta un brano di De l’Allemagne preceduto dalla dicitura «tradizione tedesca da cui è tratto il soggetto del balletto di Giselle ou Les Wilis».[5]
Temi, motivi e idealità del balletto romantico confluiscono magistralmente in Giselle, le cui fonti, come si è visto, contengono in nuce potenzialità espressive idonee a testare lo spirito del tempo. La fenomenologia del soprannaturale entra nella coreografia influenzandone gli esiti drammatici, che approdano a numeri di ballo a solo e d’insieme. Alla stregua di opere eloquenti come Lucia, Sonnambula e altre, Giselle riflette la Weltanschauung romantica con non minore evidenza.[6]
La Sonnambula e Giselle sono due capolavori molto più vicini di quanto non si creda.[7] L’accostamento, apparentemente insolito, prende le mosse dall’affinità, intravista ma non sviluppata, tra Sonnambula e Giselle da parte di Giancarlo Landini: un confronto ritenuto dallo studioso «affascinante» quanto «fuorviante»:
«[…] Riuscì a Bellini di costruire la più completa sublimazione romantica dell’amore, che nell’immaginario collettivo si presenta come una versione operistica delle punte e del tulle di Giselle. Accostamento affascinante, ma per certi versi fuorviante»[8].
Già Bruno Cagli, a proposito della moda delle eroine folli o sonnambule nei primi decenni dell’Ottocento, aveva sottolineato quanto Giselle si inserisse, al pari dell’opera belliniana, nella novità di un nuovo genere:
«Come Giselle crea per le nuove platee la figura dello spirito che emerge dall’al di là per rivendicare il proprio diritto all’amore, così, le sonnambule, al pari delle eroine in preda al delirio, delle regine ingiustamente condannate, si servono della loro malattia per provocare il trionfo della verità. Si delira, prima di Lady Macbeth, soprattutto per dire il vero, per difendere il passato, acquistare l’aureola, condannare per il futuro i colpevoli.
Queste sonnambule del teatro musicale sono depurate da ogni scoria. La belliniana Amina, fragilissima ed eterea nel momento in cui, sull’orlo del tetto, cammina sulla trave pericolante nel bianco abito delle nozze non consumate, ne è la più perfetta astrazione».[9]
Il Landini stesso, dopo aver osservato che il risultato belliniano dové certo più al linguaggio della tradizione napoletana (e come non avrebbe potuto?), nella «essenziale nudità» dell’«economia di mezzi» propria della Nina di Paisiello – semplice, trasparente e pura[10] – che si riscontra nel canto nobile di Amina, nelle righe successive risolve egli stesso la sua affermazione in una direzione efficace. È proprio questo fattore che avvicina la Giselle di Adam-Gautier, pietra miliare del balletto romantico, al capolavoro belliniano, la cui influenza appare chiara agli occhi di chi non ha il campo visivo ristretto alla sola danza. La lunghezza e la semplicità della linea melodica del canto, la parsimonia della tecnica finalizzata all’ottenimento di un risultato innovativo (nel regno del brillante stile rossiniano) fece di Bellini Maestro indiscusso di quello stile elegiaco che non penalizza ma fa fluire sapientemente la drammaturgia dell’opera.
Dal balletto La Somnambule al melodramma La Sonnambula: una prima trasformazione dal codice della danza al codice della musica.
È ben noto che un’opera di grande successo e valore artistico come La Sonnambula di Vincenzo Bellini abbia attinto l’idea del soggetto da un balletto del repertorio francese (un balletto, tra l’altro, che non ha avuto la stessa fortuna dell’opera, per la costante abitudine di assegnare a musicisti scadenti e a coreografi non sempre di valore i lavori di balletto per i teatri d’Opera). Epperò, nel nostro tipo di speculazione, questo vuol dire molto.
Di certo l’assunzione di un modello drammatico proveniente dalla messa in scena danzata era una cosa piuttosto rara per un librettista d’opera, vista la struttura del libretto da ballo.[11] Tuttavia è lecito pensare che una questione di praticità, dettata dalla fretta del momento (visto il cambio improvviso di argomento[12]), e la funzionalità di un plot di gran moda, strutturato secondo numeri agevolmente trasferibili in “melodramma all’italiana” (soli, duetti, masse etc.) e una sequenza già teatralmente ordinata, abbiano suscitato l’interesse di Felice Romani.[13] La fonte di cui si parla è La somnambule, ou l’Arrivée d’un Nouveau Seigneur, su musica di Louis-Joseph-Ferdinand Hérold, coreografia di Jean-Pierre Aumer e libretto di Eugéne Scribe, andato in scena il 19 settembre del 1827 all’Opéra di Parigi. Un panorama di riferimenti visivi e di allusioni musicali evocano la figura della giovane donna in trance, tanto di moda in quegli anni sulle scene francesi. Presto scomparso dal repertorio[14], il lavoro di Aumer-Hérold presentava, già nel 1827, tutte le caratteristiche peculiari del balletto romantico, con l’ambientazione idilliaca nella Provenza rurale, una trama la cui protagonista, graziosa fanciulla destinata alle nozze, vagava sui tetti in preda a sonnambulismo entrando e uscendo dalle finestre (come farà, cinque anni dopo, la Silfide nelle sue apparizioni dalla finestra della casa di James) in un clima da sogno nel quale immergere i suoi virtuosismi. Fonte del libretto era stata la comédie-vaudeville in due atti La Somnambule, che trionfò al Theatre du Vaudeville di Parigi il 6 dicembre del 1819, nata anch’essa dalla penna di Scribe, in collaborazione con Casimiri Delavigne (1793-1843).
Molti dei libretti e delle partiture venivano elaborati da compositori versati in entrambi i generi teatrali, i più noti dei quali al tempo erano Adolphe Adam[15] e Ferdinand Hérold (Parigi 1791 –
1833), [16] noti soprattutto per balletto e opéra comique, mentre fra i librettisti i nomi principali erano quelli di Eugène Scribe e Jules Henry Vernoi de Saint-Georges Georges, entrambi autori di più di venti opere e balletti all’Opéra, durante la Monarchia di luglio. I danzatori erano impiegati regolarmente nelle opere, mentre i cantanti, se non comparivano nei balletti, avevano comunque modo di collaborare in diversi modi; il tenore Adolphe Nourrit, ad esempio, scrisse il libretto per i balletti La Sylphide, La Tempête, L’Ile des pirates.
Quello che appare scontato, ossia la presenza di una trama, è in realtà l’elemento imprescindibile per un discorso su due generi che si fondano sulla stessa premessa di base: una storia da raccontare. Gli ingredienti fondamentali delle trame di opera e balletto, in questo contesto, erano pressoché gli stessi: contrasti politico-sociali e drammi amorosi. Entrambi i temi assumevano tuttavia un peso diverso, a seconda che si trattasse dell’uno o dell’altro genere (nel balletto si presentavano più leggeri rispetto all’opera e si concludevano per lo più con un lieto fine), mentre l’azione si svolgeva prevalentemente in Europa e nelle sue colonie, con particolare privilegio per le ambientazioni in Spagna, Francia e Italia. Il periodo storico favorito era per lo più quello medievale o dei secoli XV-XVII, una volta abbandonata la predilezione per l’età antica e del mito, tanto care alle messe in scena settecentesche. Il cliché librettistico generale imponeva formule rese popolari da Eugène Scribe, in cui non si escludevano soluzioni ‘a effetto’ (in genere più impressionanti nell’opera), colpi di scena, incidenti vari.[17] Comuni erano molte scene tipiche: processioni, scene di preghiera, celebrazioni di fidanzamenti, balli in maschera, letture di missive rivelatrici, furiosi baccanali, utilizzo di musicisti sul palco. Di ascendenza precipuamente comique, nel balletto, è il ricorso al ‘colore locale’, realizzato attraverso la ripresa di modelli folklorici montani, oltre alla eclettica varietà nell’impiego dei mezzi espressivi che si adattano al tipo di situazione o di personaggio di volta in volta presentato in scena.
Ambientato in un villaggio tra Arles e Tarascon, la dimensione campestre e arcadica della Provenza precorre lo scenario di Giselle, in cui la stagione della vendemmia e la danza dei giovani contadini corrispondono alla stagione della fienagione e alle danze dei popolani nella Somnambule. L’argomento si sviluppa nell’arco di tre atti e il libretto riferisce, com’era d’uso all’epoca, dialoghi e pensieri che sarebbero stati esplicati sulla scena dai danzatori in una notevole quantità di sequenze pantomimiche.[18] Il balletto appare totalmente epurato dall’elemento gotico, presente invece nel vaudeville e nel libretto del Romani per Bellini, e cioè del terrore popolare per le apparizioni notturne del bianco fantasma che infesta il villaggio e che si svelerà essere la povera fanciulla.[19] La raffigurazione di una natura rassicurante e benigna, minacciata tuttavia dal timore di forti passioni, dall’angoscia generata dall’irrazionale notturno, dai turbamenti di un amore che sembra infranto per sempre riflettono il disorientamento generato dalla complessa situazione politica della Francia dell’epoca.
Prima interprete del balletto fu Pauline Montessu, che pare fosse la favorita dell’allora Direttore Lubbert. Il successo immediato fece seguire riallestimenti a Copenaghen, per opera di Auguste Borrnonville, e a San Pietroburgo da parte di Didelot nel 1829. Nel 1859 anche Marius Petipa ne diede una propria versione, mente non si hanno notizie precise sulle rappresentazioni italiane. Fatto sta che nel 1831 la trasformazione del soggetto in opera lirica, su libretto di Felice Romani e musica di Vincenzo Bellini abbagliò il pubblico che, con tutta evidenza, all’azione danzata preferì La Sonnambula belliniana.[20]
I ritmi narrativi della partitura del balletto erano stati dettati a Hérold dalla drammaturgia di genere, come d’uso al tempo, per cui la musica era stata espressamente scritta sul canovaccio ricavato dal coreografo sulla traccia del drammaturgo. Le connotazioni fondamentali non si discostano da quelle consuete per l’epoca: gradevolezza e fluidità per l’ascoltatore, all’occorrenza una verve ritmica, un fascinoso impasto timbrico per le scene più sentimentali, costante attenzione alle situazioni rappresentate in scena e alle esigenze coreografiche. Ancora una volta, una musica più funzionale che di spessore artistico autonomo. La partitura è divisa in tre atti e si compone di ventotto numeri musicali (ventitré originali e cinque aggiunti nel 1854), nelle quali Hérold si impegna a seguire la narrazione definendo temi melodici legati a personaggi e situazioni, come nel Pas de Deux del primo atto, mentre nell’Introduzione e nel Finale I (che nella versione del 1854 diventa Finale II) si ripresentano i temi principali del balletto con la scena del sonnambulismo e il Finale III con la riconciliazione dei due innamorati.[21]
Gina Guandalini, nel suo contributo sula balletto per il Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, sottolinea l’esiguità delle indicazioni musicali nel testo e mette in evidenza la frequenza delle ‘citazioni’ tematiche. Quando, ad esempio, la sonnambula entra nella stanza del Signor di Saint-Rambert, l’orchestra riporta alla mente dello spettatore (e dei personaggi) le arie di danza della giornata appena trascorsa. Oppure, nel momento in cui ella cade addormentata sul divano dell’ospite, l’indicazione precisa è «L’orchestra suona l’aria Dormez donc, mes chers amours», un’arietta o ninna nanna allora molto celebre di Amadée (o Amedée) de Beauplan (1790-1853), pseudonimo di A. Rousseau. Ancora una volta la prassi del balletto preromantico di far comprendere la situazione scenica mediante la ripresa di brani già noti si ritrova nella comune pratica di Hèrold, come sottolinea il suo biografo Benoîtv Jouvin, il quale del compositore elogiava la elegante «arte di arrangiarsi» tra brani altrui, perfettamente adatti al momento scenico, e colpi d’ala di ispirazione propria.[22] Un’altra indicazione prescritta dal libretto annuncia «Una musica vivace e lieta» per accompagnare l’arrivo di un cesto nuziale inviato dal signorotto, assolutamente inconsapevole del dramma causato dal sonnambulismo della precedente sera, mentre un’ultima indicazione sottolinea la forte tensione emotiva della scena in cui Thérèse ricompare la seconda volta nelle vesti di sonnambula (scena assente nel vaudeville del 1819). In questo particolare momento l’attenzione del pubblico è catalizzata sul pericolo della rischiosa passeggiata della fanciulla e lo stesso potere emotivo scaturisce dalla medesima scena nell’opera di Bellini, specie se coadiuvato dalle grandi interpretazioni delle storiche “Amine” come la Malibran, la Lind o la Callas.
Il balletto di Hèrold-Aumer aveva anticipato questa sensazione di suspense, in cui il pubblico assiste col fiato sospeso alla camminata della protagonista in stato di trance sull’asse del mulino sospesa nel vuoto, al di sopra della pericolosissima ruota. Una coloritura sentimentale che, grazie alla commistione di musica pantomima e danza, da arcadica diventa protoromantica.[23] Fra le diverse arie prese in prestito, Hérold ebbe tuttavia il merito di essere stato il primo ad impiegare, nella prima scena di sonnambulismo, l’artificio delle arie ripetute, al fine di suggerire la rievocazione, da parte di Thérèse, di momenti felici del passato. E questo, come si vedrà qui di seguito, ritornerà con grande effetto drammatico in Bellini come in Adam, benché la ‘tonalità’ generale del balletto di Hérold-Aumer sia molto diversa da quello di Sonnambula e Giselle. L’atmosfera di Somnambule è difatti pervasa da un’aria gaia e festante che, finanche nei momenti più delicati, conserva una certa leggerezza. La verve musicale è costantemente brillante e la scena del sonnambulismo presenta una ‘oscurità comica’ e non tenebrosa. L’orchestra dà voce musicale all’equivoco che fa già intuire il lieto fine; nella parte finale del balletto, nel momento in cui Edmond sta per sposare Gertrude e interviene in nobile Signore, è chiaramente percepibile una citazione della ouverture de La gazza ladra di Rossini. Un’atmosfera più lunare la si trova nella seconda scena di sonnambulismo. Il soggetto è ‘vissuto’ nell’opera con notevole diversità, rispetto alla fonte ballettistica, che tuttavia permea il melodramma con la sua intrinseca impalpabilità.
La fonte francese costituita dai due testi di Scribe (vaudeville e balletto) non è tuttavia la sola ad aver influenzato il libretto di Felice Romani. Un altro testo attinente al tema del sonnambulismo, la Dame blanche di Boïldieu (1825), ridotta da Gaetano Rossi a libretto per Pavesi con il titolo di La dama bianca di Avenello per la Canobbiana di Milano nel 1830, incise con ogni probabilità sull’elaborazione del soggetto. Inoltre, la presenza a Napoli di un libretto anonimo sullo stesso soggetto e con gli stessi personaggi, intitolato La dama bianca e stampato per la rappresentazione al Teatro del Fondo nel carnevale del 1827, potrebbe far supporre una conoscenza dello stesso da parte di Bellini, che in quell’anno si trovava ancora nella città partenopea.
Veicolo esclusivo dell’ascesa verso il mondo degli spettri è, in questo particolare momento storico, come ben si sa, la donna. Eredità del riscoperto medioevo, oltre al folklore e alla ricerca della più genuina identità di ciascun popolo, le protagoniste femminili invadono la letteratura e ispirano le arti.[24] Con l’affermazione del romanzo gotico e l’invasione di elementi ‘oscuri’, il ramo che non devia verso l’orrido del romanzo nero vede congiunti elementi del romanticismo più sentimentale − ossia la storia d’amore (a lieto fine o meno) − e il paranormale, l’amore perduto e i conflitti interiori. Il confluire di questi stati d’animo lacerati dalla passione e dal dubbio, in un contesto spesso arretrato o ‘isolato’ storicamente e, specie nei momenti di maggiore tensione drammatica, ambientato in un paesaggio notturno in cui l’oscurità permettesse la rivelazione dei sentimenti più profondi, rende leggende miti e saghe nordiche gli scenari prediletti in Francia per il balletto, analogamente a quanto accadeva per l’opera in Germania.
L’altra faccia del “demoniaco”, qualora si voglia intendere il significato etimologico della parola come manifestazione dell’anima di un individuo o di una più generica potenza divina che permetta di intendere il sovrasensibile, la si trova nel retroterra comune di ben più blandi fenomeni intesi come paranormali o metafisici, temuti perché sconosciuti. Uno di questi è il fenomeno del sonnambulismo, che a un certo punto divenne di gran moda nel XIX secolo.[25] Partendo dalla rappresentazione della figura di Giovanna D’Arco sulla scena parigina del tempo, in cui la ‘pulzella d’Orleans’ veniva rappresentata come sonnambula, folle o invasata dal fanatismo religioso, la fascinazione per il mondo dell’inconscio a Parigi toccava il suo punto più alto fra l’aprile e il dicembre del 1827, dal momento che lavori di genere differente si concentravano sul tema del sonnambulismo.[26]
Per ben otto mesi le scene parigine furono costantemente popolate da donne in trance, folli e sonnambule, tutte presentate nella stessa mise, ovvero in vestaglia bianca, a piedi nudi, con i capelli sciolti e gli occhi sgranati.[27]
Le fanciulle erranti per i tetti delle case abbigliate in questa foggia sono oggi classificate come eroine dalla follia ‘semiseria’. Amnesie, allucinazioni, comportamenti irrazionali e sonnambulismo appaiono tutti fenomeni confluiti nelle ‘scene di pazzia’ e c’è da dire che l’opera lirica aveva accolto il fenomeno già prima, in chiave comica o semiseria, per poi farlo successivamente sfociare in chiave drammatica. Nel 1797 Luigi Piccinni (1764-1827), figlio del celebre Niccolò, compose un’opera buffa dal titolo La Sonnambula. Nel 1800, in occasione del Carnevale, il Teatro San Benedetto di Venezia presentò La Sonnambula, farsa giocosa su musica di Ferdinando Paer (1771-1839), libretto di Giuseppe Maria Foppa. Alla Scala di Milano nel 1805 Giulio Viganò mise in scena La finta sonnambula, ‘ballo comico’ rappresentato come intermezzo all’opera buffa Lo stravagante e il dissipatore, su libretto del Foppa e musica di Francesco Basily o Basili. Grande successo nel 1824, sempre alla Scala, del melodramma semiserio di Michele Carafa su libretto di Felice Romani: Il Sonnambulo.
Nel contesto storico parigino del 1820 la rappresentazione teatrale del sonnambulismo evocava tuttavia associazioni specifiche, dato il confronto dei coevi lavori letterari con gli esperimenti scientifici; il balletto di Hérold e quanto da esso scaturito inglobavano alcune delle idee circolanti nel 1827 sul tema dell’immoralità, il mesmerismo[28] e le ambigue relazioni fra inconscio e soprannaturale. Lo spettatore poteva partecipare a questo clima attraverso il potere narrativo della musica dei teatri parigini, in cui erano d’uopo i riferimenti allusivi e motivi familiari, oltre all’utilizzo di cliché musicali.[29]
Queste strutture narrative (e il topos della fanciulla folle per amore) si affermano con imperitura vitalità drammatica.[30] Nel ponte ideale che collega la fonte diretta della Sonnambula a Giselle, l’avanzamento del tragico sulla scena procede in maniera progressiva: dal balletto Somnambule, di diretta ascendenza comica, in cui il sonnambulismo è piuttosto un equivoco, all’opera di Bellini, che si muove «nella galassia stilistica e concettuale del drame e dei suoi derivati musicali»,[31] con momenti di alto lirismo che promanano dalla tragedia solo sfiorata, a Giselle, in cui la tragicità della sorte della protagonista è il fulcro della vicenda.
Nella elaborazione della fonte parigina, Felice Romani opera una vera e propria evoluzione della «tonalità d’insieme del soggetto», nel comune intento con Bellini di trovare il registro stilistico di livello più elevato.[32] Ne La Sonnambula l’innocenza di Amina ha un profilo musicale che Bellini sembra aver ricalcato su quella della Nina o sia La pazza per amore del 1789, su musica di Giovanni Paisiello e libretto di Giuseppe Carpani, in un contesto in cui, fino agli anni Venti dell’Ottocento, il balletto mutuava sovente soggetti operistici.[33] La purezza della fanciulla è condizione essenziale dello sviluppo di tutta la drammaturgia. La Nina è l’opera che nella tradizione napoletana segnò l’inizio del cosiddetto genere larmoyante, l’ascendente della fresca purezza della Sonnambula, che ebbe notevole influsso sui soggetti operistici, dando vita alle eroine alienate per dispiaceri d’amore, quali saranno la Lucia di Lammermoor nel 1835[34] e la Linda di Chamounix nel 1842.[35]
Sul personaggio di Amina, lo stesso Felice Romani scriveva, sulla «Gazzetta Ufficiale Piemontese» del 7 settembre 1836:
«Il personaggio di Amina … è forse il più difficile di molti … Conviene che l’attrice sia schietta, ingenua, innocente, e nel tempo stesso appassionata, sensitiva, amorosa; che abbia un grido per la gioia come pel dolore … in ogni sua mossa … in ogni sospiro un non so che di ideale e insieme di vero, come si vede in certe pitture dell’Albani, come si sente in certi idilli di Teocrito; conviene … che il suo canto sia semplice e nello stesso tempo fiorito, che sia spontaneo e nel punto medesimo misurato, che sia perfetto e non apparisca lo studio».[36]
La caratterizzazione della fanciulla Giselle sembra ricalcare alla perfezione questo personaggio. E non è necessario ripercorrere in questa sede quanto già noto in proposito. Se Gautier immaginava la ‘sua’ Giselle come una felice combinazione di due opposti caratteri, quello etereo e quello terreno (fino ad allora sempre distinti e mai concentrati in un’unica ballerina) sintetizzati rispettivamente da Maria Taglioni e Fanny Essler[37], è anche vero che Giselle nel primo atto esprime gioia di vivere e passione delicata, più che sensualità. Anche in Giselle vi è la nobilitazione del personaggio tipico della contadina, non più villanella comique (come ancora in Somnambule), poiché la sua allegria non è spensierata gaiezza, come si evince da continui presagi, bensì solo felice scoperta di un sentimento puro e totalizzante, avviluppato nella rete di ripetuti ammonimenti che turbano finanche i momenti più belli.[38]
L’anomalia psichica – un fenomeno tradizionalmente legato al genere femminile, in ambito artistico e letterario – diviene uno ‘stato di grazia’, un invasamento che ricorda la trance necessaria all’epifania degli dei pagani. Il Romanticismo aveva trasformato queste figure di folli, già «bizzarre e nevrotiche in diafane entità lunari», dalla Muette de Portici (1828) di Daniel Auber, su libretto ancora una volta di Scribe, alla Lucia di Lammermoor fino alla nostra Giselle e alla Linda di Chamounix.
Per Quirino Principe Amina è ‘isolata’ dal contesto generale delle eroine folli per amore, in quanto «intatta dall’eros, immune dal peccato, libera dalla follia. Passa attraverso il male che scivola su di lei senza intaccarla».[39] Non interessa, in questa sede, elucubrare sulla presunta purezza di Giselle o di Amina[40], ma notiamo come alla danza di Giselle ben si adatti la triade di aggettivi che Principe attribuisce al colore orchestrale della Sonnambula: «tenue, brillante e trasparente».[41]
Lo studio completo può essere letto qui.
[1] Cfr. M. Smith, Ballet and Opera in the Age of Giselle, Princeton, Princeton University Press, 2000; Eadem, Ballet, Opera and Staging Practices at the Paris Opéra, in La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano. Atti del Congresso internazionale di studi (Parma, Teatro Regio – Conservatorio di musica, 28-30 settembre 1994), Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1997, pp. 172-318.
[2] Si veda in merito E. Cervellati, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo, Bologna, Clueb, 2007, p. 106 e ss.
[3] Per ‘atto bianco’ si intende quella parte di un balletto (il ballet blanc dell’Ottocento romantico) popolata da creature soprannaturali, generalmente donne vestite di leggerissimi e bianchi tutù. Dalle monache morte di Robert le diable di Giacomo Meyerbeer (1831) fino a Raymonda di Alexandr Glazunov e Marius Petipa (1898), gli atti bianchi appaiono una costante del balletto del XIX secolo, fino a Les Syplhides (1909), su musica di Fryderyk Chopin e coreografia di Mikail Fokine, nostalgica ricostruzione dello stile romantico e aereo di Maria Taglioni. La novità della scelta musicale operata da Fokine segnava la rottura definitiva con il balletto romantico letteralmente inteso. Come scrive Debra H. Sowell «L’affascinante immagine del corpo di ballo, che volteggia in tutù bianchi e lunghi fin sotto il ginocchio in balletti come La Syplhide e Giselle, dette origine alla denominazione di ballet blanc, di questo repertorio, una tradizione che sarebbe giunta fino agli anni Novanta dell’Ottocento, e che può ammirarsi ancor oggi nelle candide formazioni di ballerine-cigno che popolano il II e IV atto del Lago dei cigni». Si vedano in merito M. U. Sowell et al., Il balletto romantico. Tesori della Collezione Sowell, Palermo, L’Epos, 2007, p. 25 e F. D’Amico, Forma Divina ‒ Novecento e balletti, a cura di         N. Badolato e L. Bianconi, Firenze, Olschki, 2012, p. 512.
[4] «La Presse», 5 luglio 1841, cit. in Cervellati, Théophile Gautier, cit., p. 107.
[5] In Ivi, p. 105.
[6] Mi sia consentito di rinviare per, la definizione del profilo della protagonista a partire dalla prima idea di Gautier fino alla definizione finale del personaggio, a C. W. Beaumont, The ballet called Giselle, London, Dance Books Ltd, 2011 (prima ed. 1944), pp. 78-80 e all’imprescindibile studio summenzionato di Elena Cervellati.
[7] Alberto Testa ha voluto vedere ne La Traviata verdiana il corrispondente operistico di Giselle, sottolineando il passaggio da un regime ‘leggero’ a uno ‘drammatico’ tra primo e secondo atto. Cfr. in proposito A. Testa, Giselle: leggenda, simbolo, realtà, in Giselle, per il Teatro dell’Opera di Roma, gennaio 1994, p. 39. L’accostamento ha avuto una certa fortuna nel mondo della danza, ma un’analisi approfondita delle situazioni e delle circostanze – sulle quali non ci si addentrerà in questa sede – rendono in realtà diversissime le psicologie di Giselle e di Violetta. Nello stesso luogo, tuttavia, Testa coglie l’essenza dell’ «emotività visiva» che conrtaddistingue Giselle: «musica senza suono, canto senza voce, linguaggio senza parole». Cf. Ivi, p. 46, cit. in M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, Roma, Armando, 2004, p. 83.
[8] G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, in La Sonnambula, Programma di sala del Teatro di San Carlo di Napoli, stagione 2001, p. 39. Su Giselle e l’ideologia che si esprime nel secondo atto del balletto, proprio in virtù di tale sublimazione, si veda E. Alderson, Ballet as Ideology: Giselle, Act II, in «Dance Chronicle», vol. X, n. 3 (1987), pp. 290-304.
[9] B. Cagli, Il risveglio magnetico e il sonno della ragione, in «Studi musicali», a. XIV (1985), pp. 157-170: 165.
[10] Landini, cit., pp. 33-34. Nina, una delle prime ‘sublimazioni’, nel teatro musicale, di un turbamento mentale. Cfr. Q. Principe, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Milano, Mursia, 1991, pp. 77 e ss.
[11] Si veda in merito F. Pappacena, Dal libretto di balletto alle note per la messa in scena, in «Acting Archives Review», a. III, n. 6 (novembre 2013), pp. 1-25.
[12] La Sonnambula fu composta, com’è ben noto, in sostituzione dell’Ernani, dramma derivato direttamente da Hugo, cui l’autore non diede termine per preoccupazioni di natura prevalentemente censoria, da parte del Lombardo-Veneto. Il nuovo soggetto fu scelto sempre nell’ambito del repertorio francese.
[13] A. Roccatagliati, L. Zoppelli (a cura di), La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Riduzione per canto e pianoforte condotta sull’edizione critica della partitura, Milano, Ricordi, 2012, p. XXIII e ss.
[14] Una recente ripresa per l’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma del 2008, con coreografia di Luciano Cannito e regia di Beppe Menegatti, ha riproposto il balletto senza tuttavia la possibilità di una ripresa filologica, data la mancanza assoluta di qualsivoglia documento scritto, né di tradizione orale, come invece è avvenuto per gli altri balletti del repertorio ottocentesco. In questo caso il solo libretto, qualche vecchio dagherrotipo e i bozzetti dei costumi sono stati gli elementi che hanno garantito il rispetto della drammaturgia originale, così come fu annotata da A. Bournonville su uno spartito conservato in Danimarca, con l’aggiunta di un completo Pas de Deux (fatto inserire nel 1858 dalla ballerina Carolina Rosati). Cfr. in merito il Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambule, pp.12; 19.
[15] Fu probabilmente per la sua forte personalità, tanto quanto per il suo talento, che Adam ottenne nove balletti, più di ogni altro compositore del suo tempo. Egli ne fece la sua attività grazie anche alle giuste amicizie, ottenendo la sua prima commissione, La Fille du Danube nel 1836, tramite la conoscenza di Eugene Desmares, amante di Maria Taglioni. Dal tempo di Giselle nel 1841, Adam conseguì il rispetto dovuto per essere accolto con ampio plauso nelle produzioni del teatro. Cfr. A. Pougin, Adolphe Adam. Sa vie, sa carrière, ses mémoires artistiques, Paris,
1877, cit. in S. Jordan, The Role of the Ballet Composer at the Paris Opéra: 1820-1850, in «Dance Chronicle», vol. IV, n. 4 (1981), pp. 374-388: 384, n. 34. Il potere di Adam, raro per un compositore di balletti, fu tale che riuscì a modificare la scena finale del balletto, in cui Giselle, invece di tornare nel sepolcro, veniva condotta da Albreht su un letto di fiori, che l’avrebbero lentamente ricoperta.
[16] Cinque furono le partiture di balletto presentate all’Opéra, tutte fra il 1827 e il 1829; egli morì 1833, prima che Adam iniziasse a scrivere per l’Opéra.
[17] Cfr. Smith, cit., pp. 20-25.
[18] La storia narra dell’orfanella Thérèse, allevata dalla vedova di un ricco mugnaio e promessa sposa di Edmond, contadino benestante. L’ostessa del villaggio, Gertrude, è sua rivale in amore.
L’arrivo di un nuovo signore del castello, elemento inesistente nel vaudeville di Scribe, sarà centrale nel balletto e nell’opera belliniana. Costui decide di trascorrere la notte nella locanda del villaggio, nella quale, nottetempo, non tarda a verificarsi un intrigante gioco di seduzione con Gertrude e la sua servetta Marcelline. A un sinistro rumore le due donne fuggono e Gertrude perde nella stanza il suo scialle: Thérèse entra dalla finestra in veste da notte, recando una lanterna. M. Saint Rambert (questo il nome del Signorotto) comprende immediatamente il suo sonnambulismo e cerca di sostenerla affinché non cada, ma l’arrivo dei paesani, tra i quali c’è anche Edmond, suscita immediata concitazione e sdegno per la riprovevole scena di palese tradimento, con l’inevitabile ripudio della ragazza da parte del fidanzato. Gertrude può finalmente approfittare della situazione e sposare Edmond, ma la madre di Thérèse fa presto a rivelare a tutti che anch’ella è compromessa, data la presenza del suo scialle nella camera da letto del signore. Intanto tutti possono vedere Thérèse camminare nel sonno sull’orlo del tetto del mulino rischiando di cadere nel vuoto ma, nella paura generale, il suono delle campane la ridesta e il suo Edmond può finalmente capire l’errore e perdonarla. Il signore che arriva nel villaggio da lungi rappresenta quella figura autoritaria immancabile in un contesto rurale e portatrice di superiori conoscenze scientifiche ignorate dalla massa di popolani incolti, ai quali l’uomo spiega la natura del sonnambulismo (un par mio non può mentir, dice seriamente nell’opera di Bellini, e il volgo ben lo crede, dopo aver immaginato chissà quale fantasma). Si veda in merito G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, in La Somnambule, Programma di Sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, pp. 37 e ss.
[19] Ibidem.
[20] Nel 1946 il grande coreografo George Balanchine creò per la compagnia del Colonnello De Basil, a Montecarlo, un balletto omonimo ma con soggetto diverso, in cui la musica utilizzava brani tratti da La Sonnambula e da I Puritani di Bellini, riarrangiati da Vittorio Rieti. Cfr. Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambule, p. 18-19.
[21] La popolarità, all’epoca, della musica di questo balletto è testimoniata da riprese varie e parafrasi come il Mélange per pianoforte di Henry Karr (1828) e Le Bal, fantasia su temi de La Somnambule di Nicolas Louis. Cfr. L. Tozzi, Hérold, chi era costui?, in Sonnambulismo e rappresentazione, in Programma di Sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambulei, pp. 34 e ss.
[22] Guandalini, cit., pp. 39 e ss.
[23] Ivi, pp. 42-43.
[24] Il cliché della fragile fanciulla nelle vesti di protagonista aveva guadagnato il primo piano già in Pamela, o la virtù premiata di Samuel Richardson, romanzo in due volumi che vide la luce tra la fine del 1739 e l’inizio del 1740, che riscosse immediatamente un grande successo, inaugurando una fiorente stagione di eroine.
[25] Sarah Hibberd, partendo dalla fonte dell’opera di Vincenzo Bellini, il ballet-pantomime La Somnambule di F. Hérold – generalmente ricordato oggi in funzione dell’opera e che ispirò tutta una serie di popolari vaudevilles sul tema – illustra la forza e l’attrazione voyeuristica per i fenomeni di trance, negli anni finali della Restaurazione borbonica in Francia. Cf. S. Hibberd, “Dormez donc, mes chers amours”: Herlod’s La Somnambule (1827) and dream phenomena on the Parisian lyric stage, in «Cambridge Opera Journal», Vol. XVI, n. 2 (luglio 2004), pp. 107-132. La studiosa procede con un’analisi delle relazioni fra sonnambulismo, mesmerismo, follia e soprannaturale, introducendo in primo luogo importanti sfumature sulla spesso generalizzata natura delle scene di trance nel teatro del XIX secolo, opponendo un modello alternativo a quello dell’eroina fuori di senno dell’opera italiana. La Hibberd illustra e le pratiche musicali specifiche della tarda Restaurazione a Parigi, che costituirono un momento cruciale nell’estetica e conseguentemente contribuirono al successo delle eroine sonnambule. Un panorama di allusioni visive e musicali concentrate attorno a queste figure femminili che, relazionate con le folli eroine dell’opera italiana, denotano una propria personalità, con le relative implicazioni sociali. Data la predominanza di episodi di follia, piuttosto che di sonnambulismo, agli occhi dello spettatore moderno quest’ultima patologia apparirebbe come una sorta di «follia diluita», a detta della stessa Hibberd.
[26] Secondo le ricerche più attendibili il termine somnambule apparve per la prima volta nel 1688 nel numero di ottobre della rivista Nouvelles de la république des lettres. L’argomento richiamava inevitabilmente l’evocazione di cause soprannaturali, di spiriti maligni e possessioni diaboliche. Intorno alla fine del XVII secolo si cominciò a constatare che il sonnambulismo non dipendeva né da Dio né dal diavolo e si cominciò a banalizzarne la visione. Qualche decennio più tardi apparve sulle scene parigine una commedia in un atto Le Sonnambule, rappresentata alla Comédie-française dal 19 gennaio 1739, sugli autori della quale vi è ancora disputa fra il conte di Pont-de-Veyle, il conte de Caylus o un Sallé segretario del conte di Maurepas. In ogni caso, pare sicura la genesi in un ambiente di signori libertini, amanti dei piaceri. Una storia di quiproquo, priva di qualunque riferimento al soprannaturale, che apre la strada all’interpretazione comica del sonnambulismo giunta fino a noi attraverso lo stereotipo del personaggio in camicia da notte che avanza a occhi chiusi e le braccia tese orizzontalmente in avanti. Cfr. P. Enckell, Petite promenade somnambulique, in La Somnambule, in «l’Avant-Scène Opéra», n. 178 (1997), pp. 62-65: 63-64.
[27] A partire da Nina, la protagonista dell’opera di Dalayrac Nina, ou la folle par amour (1786), sopravvissuta nel repertorio dell’Opéra nel balletto, basato sulla stessa trama, di Louis-Luc Loiseau de Persuis (1813), numerose figure femminili sconvolte dalla follia apparivano in La Folle de Glaris, un adattamento dell’opera di Conradin Kreutzer Adele von Budoy (1821) al Teatro Odéon, oltre che in un certo numero di lavori basati su novelle di Walter Scott, compresa La Folle, ou le testament s’une anglaise o Emilia, ou la folle, andati in scena rispettivamente al Gymnase-Dramatique e al Théâtre-Français. In questo frangente facevano la loro comparsa sulle scene le due eroine folli per antonomasia del repertorio shakespeariano: Lady Macbeth, la cui scena di sonnambulismo costituiva il punto culminante della tragédie lyrique di Hyppolite Chelard, Macbeth, andata in scena all’Opéra e Ofelia, interpretata da Harriet Smithson nelle recite dell’Hamlet all’Odéon. Ma lo spettacolo che accolse maggior successo fu il summenzionato ballet-pantomime La Somnambule, ou l’arrivé d’un nouveau seigneur, che infervorò il pubblico di un grande entusiasmo, così che ben quattro vaudevilles sullo stesso tema furono rappresentati nei teatri secondari della città (La Villageoise somnambule, Héloïse, La Somnambule du Pont-aux-choux e La Petite somnambule). Cfr. Smith, Ballet and opera, cit., p. 109, n. 2.
[28] Franz Anton Mesmer (1734-1815), studioso austriaco, si affermò in tutta Europa con fondamentali osservazioni sul magnetismo animale, sull’esistenza cioè di un equilibrio interno di ogni essere umano. Le malattie erano considerate squilibri su cui era possibile intervenire con l’elettricismo, la suggestione, con l’induzione di trance durante la quale il paziente era in grado di compiere ogni tipo di azioni con coerenza e lucidità. Cfr. Guandalini, cit., p. 39.
[29] Cfr. Smith, Ballet and Opera, cit., p. 101 e ss.
[30] G. Carli Ballola, Intorno all’astro maggiore. Nascita, apogeo e fine di un sistema solare, in G. Taborelli (a cura di), Vincenzo Bellini: la vita, le opere, l’eredità, Acireale, Banca Popolare Santa Venera, 2001, p. 16.
[31] L. Zoppelli, Il personaggio belliniano, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita. Atti del convegno internazionale (Catania 8-11 novembre 2001), a cura di G. Seminara, A. Tedesco, Firenze, Olshki, 2004, p. 146.
[32] Roccatagliati, Zoppelli, cit., p. XXIV.
[33] Questa tendenza sarà successivamente capovolta e i soggetti del ballo passeranno nei libretti d’opera. Sulla «migrazione tematica ballo-opera» si veda ancora Guandalini, cit., p. 47. Qui si ricorda come il Nabucco verdiano sia stato derivato dallo scenario di Antonio Cortesi, come la Manon Lescaut di Puccini sia stata costruita sullo stesso tema di Aumer, come Le Corsaire, balletto su musica di A. Adam e libretto di J. H. Vernoy de Saint Georges e Joseph Mazilier, abbia ispirato il Corsaro di Pacini e poi di Verdi. Nel Novecento inoltrato sarà invece il balletto a riprendere i soggetti delle grandi opere, con La dame aux camélias, Manon, Carmen, Cenerentola, etc. Un interscambio tematico che costituisce ancora oggi un fenomeno tipico delle produzioni teatrali, indipendentemente dal genere di appartenenza.
[34] Opera in tre atti su musica di Gaetano Donizetti e libretto di Salvatore Cammarano, da The Bride of Lammermoor di Walter Scott. Prima rappresentazione al Teatro di San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835.
[35] Opera in tre atti su musica di Gaetano Donizetti e libretto di Gaetano Rossi. Prima rappresentazione al Teatro di Porta Carinzia di Vienna, il 19 maggio 1842.
[36] Cit. in Carli Ballola, cit., p. 72.
[37] Cfr. Beaumont, cit., pp. 78 e ss. Su T. Gautier e l’idea della danzatrice romantica si veda Cervellati, Théophile Gautier, cit., pp. 199-218.
[38] Albrecht, nel primo atto, tenta di seguire Giselle in casa come fa Edmond con Thérese in Somnambule, nel tentativo di anticipare la prima notte di nozze, dopo il dono di anello e fiori e le danze d’insieme, ma la madre lo allontana. La situazione è la stessa ma la tonalità è profondamente diversa, in quanto il mesto diniego della madre di Giselle fa intuire che l’esito della vicenda sarà un altro e il pubblico stesso sa che Albrecht sta mentendo.
[39] Principe, cit., pp. 36-37.
[40] Cfr. in proposito J. Mueller, Is Giselle a Virgin?, in «Dance Chronicle», vol. IV, n. 2 (1981), pp. 151-154.
[41] Ivi, p. 94.