Palermo, Teatro Massimo: “Le Toréador” e “Cavalleria Rusticana”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2015
“LE TORÉADOR”
Opéra-bouffon in due atti, Libretto di Thomas Sauvage
Musica di Adolphe Adam
Don Belflor UGO GUAGLIARDO
Coraline LAURA GIORDANO
Tracolin CHRISTOPHER MAGIERA
Flauto in scena ANTONINO SALADINO
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto, Libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza LUCIANA D’INTINO
Lola
VALERIA TORNATORE
Turiddu
CARLO VENTRE
Alfio ALBERTO MASTROMARINO
Lucia CHIARA FRACASSO
Primi ballerini Elisa Arnone e Giuseppe Bonanno
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Piero Monti
Regia Marina Bianchi
Scene e costumi Francesco Zito
Bozzetto originale per Cavalleria rusticana Renato Guttuso
Luci Bruno Ciulli
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Palermo, 18 aprile 2015
Fuorviante è il titolo de Le Toréador, opera in due atti di Adolphe Adam andata in scena per la prima volta all’Opéra-comique il 18 maggio 1849. Non vi troviamo nessuna atmosfera spagnoleggiante, né tanto meno un ardimentoso matador, precursore dell’Escamillo che infiammerà il cuore di Carmen. Più rivelatore è invece il sottotitolo, L’Accord parfait che ironicamente allude al nodo dell’azione. Al centro vi è infatti un triangolo amoroso, tre personaggi che come tre note si uniscono per dare vita all’accordo perfetto. Questo spunto ha costituito l’occasione per l’abbinamento con Cavalleria rusticana, in un nuovo allestimento proposto dal Teatro Massimo come terzo spettacolo della stagione 2015. Nel caso di Adam siamo poi di fronte a una novità pressoché assoluta, trattandosi della prima italiana nella versione originale de Le Toréador. L’elemento più attraente di questa strana opéra-bouffon è dato dalla natura intertestuale che sovrappone citazioni e continui rimandi ad altri lavori musicali, trasformandola in una sorta di pot-pourri. La regia di Marina Bianchi riesce a cogliere questo aspetto e a farne il perno della sua concezione drammaturgica. In tal senso vanno intese le due modifiche effettuate rispetto all’originale. La prima è una modifica nella trama, che presenta la protagonista (Coraline) non più come una ex cantante d’opera costretta al ritiro, ma come un’artista in piena attività. Connesso al primo è anche il cambiamento di ambientazione che sposta l’azione dal giardino della casa di Coraline e Don Belflor al camerino di un teatro. Questa scelta permette di innescare un sottile gioco di rispecchiamenti, suggerito dallo scorcio del soffitto del Teatro Massimo che si intravede nel fondo della scena. In tal modo viene annullato ogni schermo divisorio tra finzione e realtà, come si evince dalla locandina sulla parete – guarda caso una locandina de Le Toréador – e dal continuo andirivieni di ballerini, cantanti, attori, orchestrali. Il rapporto di osmosi tra i due piani sfrutta anche la particolarità del ‘timbro protagonista’, in questo caso il flauto che incessantemente identifica Tracolin. Giustamente la regista pone in scena un vero strumentista, il talentuoso Antonino Saladino che diviene l’ombre fidèle del tenore, rinverdendo i fasti di Joseph-Henry Altès, primo flautista al quale si dovette una parte del successo della prèmiere.
Fra le promesse non mantenute del titolo vi è pure la caratterizzazione di genere. Le Toréador è infatti un’opera essenzialmente declinata al femminile, che ruota intorno alla figura (e alla voce) della smaliziata Coraline. Quest’ultima, delusa dal matrimonio con l’anziano Don Belflor (toreador in pensione), intende riallacciare la relazione con il flautista Tracolin, che alla fine riuscirà a intrufolarsi nel ménage e a rimanere come terzo incomodo nelle vesti di garante della pace coniugale. Per lineamenti del volto, fisico aggraziato e figura minuta Laura Giordano risulta assai adatta per questo ruolo, tanto da sembrare direttamente uscita dagli eleganti figurini di moda francese di inizio Novecento. La si apprezza innanzitutto durante la recitazione, spigliata ed estroversa, ma altrettanto nei difficili brani che le sono affidati. La salita sugli acuti è generalmente sicura, così come la capacità di superare le colorature, a dire il vero qualche volta un po’ prive di agilità. Rispondendo al carattere brioso della musica, il soprano si lascia andare a movenze spesso danzanti, rivelando le doti di attrice richieste dalla struttura dell’opéra-comique. È proprio la verve dei tre protagonisti, insieme alle soluzioni della regia, a fare in modo che l’azione risulti sempre movimentata. Tali soluzioni sono spesso determinate dalla situazione scenica (si pensi alla lettura delle carte o al divertente terzetto sulle variazioni di “Ah! vous-dirais je, maman”). In altri casi esse coincidono con semplici pretesti risolti dalla buona intenzione dei protagonisti (l’impegnativo cambio d’abito della Giordano all’inizio del secondo atto). Più spesso però non è chi canta a fungere da elemento dinamico, bensì gli altri personaggi presenti sul palcoscenico: dai danzatori intenti a provare qualche passo (i bravi Elisa Arnone e Giuseppe Bonanno) a uno scatenato Don Belflore impegnato in siparietti comici durante l’aria del tenore. Christopher Magiera nel ruolo di Tracolin è nel complesso abbastanza scrupoloso, per quanto dotato di una voce non coinvolgente. Giudizio positivo per Ugo Guagliardo, che sa unire espressività ad un timbro sempre più affascinante e maturo. Talmente accattivante è la vis attoriale del basso palermitano da desiderare di trovarsi sul palcoscenico per godere delle buffe espressioni del suo volto, soltanto intuite dalla distanza.
L’altro motivo che spinge a voler far parte di questa variopinta tranche de vie è la scenografia ideata da Francesco Zito. Ogni dettaglio è estremamente curato, dal séparé con motivi floreali, alla parrucca sulla toilette di Coraline. Estremamente preziosi i costumi, con deliziosi tratti à la turque che restituiscono il profumo di una Parigi all’apice del suo splendore. Zito si conferma una garanzia, come dimostra l’impianto scenografico di Cavalleria rusticana, ripreso da un bozzetto del 1971 di Renato Guttuso. Dallo spazio chiuso e interno del camerino si passa all’impostazione en plein air, incentrata sulla tripartizione dei luoghi – esterno dell’osteria, piazza e chiesa – che tradizionalmente caratterizza la messinscena dell’opera. Il contrasto visivo rispetto a Le Toréador è già evidente nella gamma cromatica utilizzata, con colori neutri e prevalenza dei toni neri macchiati da impercettibili sprazzi di rosso, quasi un annuncio dell’imminente tragedia. All’interno della chiesa sono poi ripresi tutti gli ingredienti del cerimoniale festivo siciliano, dalle luminarie all’apparato dipinto che si intravede durante il “Regina coeli”, grazie all’apertura del bel portale in ferro battuto. La scenografia reca quindi la consapevolezza della radicale opposizione con l’opera di Adam, contraddetta da somiglianze esteriori (la macrostruttura in due parti separate da un intermezzo, il motivo del tradimento, l’inno al vino) ma ribadita sul piano musicale e drammaturgico. Soprattutto la triangolazione amorosa che fonda Le Toréador è soltanto apparente in Cavalleria rusticana, poiché quest’ultima si struttura sul continuo scontro fra coppie di personaggi. Perdendo di vista questo aspetto, anche la regia risulta complessivamente più dimessa, con evidenti incongruenze – ad esempio mamma Lucia che assiste al lancio della sfida di Turiddu ad Alfio – e la presenza fuori luogo dei due danzatori. Ancor meno consapevole sembra essere Stefano Ranzani nel momento in cui decide di staccare tempi fin troppo accelerati, purtroppo privi di sfumature. Quella leggerezza e superficialità che erano perfette per Le Toréador non risultano altrettanto adatte per l’opera di Mascagni, con conseguenze generali sulla resa musicale. A manifestare i maggiori problemi è poi il Coro del Teatro Massimo, impreciso e poco coordinato, fatta eccezione per il brindisi finale.   Nel ruolo di Santuzza, Luciana D’Intino dimostra dimestichezza con un personaggio da lei interpretato in diverse occasioni. Intenzioni e carattere sono ideali per rappresentare gli eccessi di una donna tradita, schiacciata dalle convenzioni della Sicilia di fine Ottocento. Gli inabissamenti al grave conferiscono spessore drammatico al personaggio, ma pure nelle zone acute l’interprete riesce a svolgere il suo compito con incisività di emissione. La tessitura media risulta però penalizzata e la difformità tra i registri estremi crea una sorta di ‘schizofrenia’ vocale, come se la D’Intino fosse posseduta da due cantanti con impostazione di voce radicalmente diversa. La sua prova è però superiore rispetto a quella dei due interpreti maschili. Carlo Ventre, originario di Montevideo, parte male con una siciliana del tutto priva di passione e morbidezza, recuperando nei brani che seguono. Generalmente il tenore appare convincente nel duetto con Santuzza e nel brindisi, sebbene i momenti di espansione lirica si collochino ad un livello inferiore. L’accorato addio alla madre produce comunque l’effetto desiderato, grazie anche ad una decorosa Chiara Fracasso, puntuale nei suoi interventi e corporeamente raccolta in se stessa. Discreta Valeria Tornatore nel ruolo di Lola, dotata di una linea di canto sufficientemente levigata, ma priva della seduzione timbrica richiesta dalla fisionomia del personaggio. Recupera ben poco Alberto Mastromarino, anch’egli come Ventre zavorrato da una partenza non proprio incisiva. Ancora una volta è l’inflessione nasale a condizionare la buona riuscita del suo unico assolo, ma ciò che dispiace è constatare la progressiva perdita di smalto in un interprete che sicuramente potrebbe rendere assai meglio. Probabilmente incide anche lo sguardo di Marina Bianchi, che intende costruire un Alfio composto, “una figura in positivo del maschile” che reagisce alla rivelazione di Santuzza in modo non violento, profondamente serio. Eppure, più che composto, nel duetto Mastromarino sembra disinteressato, confermando il medesimo atteggiamento della Tosca di qualche mese fa. Contro l’indifferenza degli uomini vale a poco la sorellanza fra donne che è presente nelle intenzioni della regista, ma che in definitiva non viene granché rispettata. Soltanto nell’abbraccio finale la promessa sembra mantenuta, con una ricomposizione iconografica che riporta alla mente il tema della pietà. Il triangolo che in Adam sanciva la vittoria ‘borghese’ della donna, in Mascagni si ribalta così nella sconfitta senza possibilità di redenzione dell’elemento femminile. Foto Rosellina Garbo