Bruxelles, Théâtre La Monnaie: “Un ballo in maschera”

Bruxelles, Théâtre La Monnaie – stagione 2014/2015
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti di Antonio Somma
Musica di Giuseppe Verdi
Gustav III STEFANO SECCO
René Ankarström GEORGE PETEAN
Amelia MARIA JOSE SIRI
Ulrica Arfvidsson MARIE-NICOLE LEMIEUX
Oscar KATHLEEN KIM
Cristiano ROBERTO ACCURSO
Ribbig TIJL FAVEJTS
Horn CARLO CIGNI
Un Giudice ZENO POPESCU
Un Servo PIERRE DERHET
Orchestra Sinfonica e Coro del Théâtre La Monnaie
Direttore Carlo Rizzi
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Alex Ollé
Allestimento in collaborazione con Valentina Carrasco
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Urs Schönebaum
Video Emmanuel Carlier
Produzione Théâtre La Monnaie
Coproduzione Opera Australia (Sydney), Teatro Colón (Buenos Aires), Den Norske Opera (Oslo)
Bruxelles, 20 maggio 2015  
C’era una certa attesa fra il pubblico del Théâtre La Monnaie per l’unico titolo verdiano della stagione. Le opere italiane non sono molto frequenti nella programmazione della Monnaie e capita di aspettare anni prima di vedere un’opera di Rossini, Bellini o Donizetti; tuttavia, ogni anno a maggio va in scena Verdi, con un numero di rappresentazioni superiore a quello programmato per le altre opere della stagione, e spesso con il tutto esaurito. Quest’anno dunque è toccato al Ballo in Maschera, che riprende il primo libretto scritto da Antonio Somma e bocciato dalla censura napoletana, Gustavo III. Se per certi versi lo spettacolo ha risposto alle aspettative, per altri ha provocato semmai qualche inarcare di sopracciglia e qualche commento perplesso.
In realtà sono due gli spettacoli andati in scena alla Monnaie, in contemporanea. Se si chiudevano gli occhi, c’era il Ballo in Maschera di Verdi con una buona resa complessiva tanto da parte dell’orchestra che dei cantanti. Una volta aperti gli occhi, sul palcoscenico veniva rappresentata una vicenda del tutto diversa. L’interpretazione scelta dalla regia di Alex Ollé appariva infatti fuori contesto, incoerente con il libretto e con i personaggi; i quali cantavano Verdi e recitavano un copione a se stante. La vicenda è trasposta in un ipotetico futuro prossimo venturo, in un mondo che Ollé immagina preda del più cupo totalitarismo, alla “1984” di George Orwell. Idea modesta, certamente non nuova, e tutto sommato banale. I personaggi sono tutti omologati, vestiti in modo uniforme e con un numero stampigliato sulla schiena, e calzano in testa una calotta che ricopre le orecchie e ricorda i caschetti dei pionieri dell’aviazione. Si muovono come automi, anche durante il ballo. Il potere rappresentato da re Gustavo appare svilito e omologato anch’esso, con momenti che sfiorano il ridicolo e il grottesco. Questa scelta che si potrebbe definire prettamente “politica” contrasta decisamente con il delicato equilibrio dell’opera tra vicenda pubblica e tormento privato, a tutto discapito della componente personale ed emotiva. Sempre nell’ambito di questa scelta politica sembrano inserirsi i video di Emmanuel Carlier che accompagnano il preludio, immagini di povertà, bambini denutriti e aerei da guerra, il classico atto di denuncia delle brutture del mondo contemporaneo che mette a posto con la coscienza. Lo schermo su cui sono proiettate le immagini è un’immagine a sua volta, il corpo nudo di un uomo che corre, e anche qui si resta sul prevedibile essendo il nudo un elemento pressoché costante degli allestimenti della Monnaie. Fra questi personaggi cosi disumanizzati riaffiora di tanto in tanto la vicenda sentimentale che pure sarebbe centrale nell’opera, e allora Gustav e Amelia nel secondo atto in un sussulto di umanità si tolgono la calottina e la gettano in terra. Ma questi rari momenti appaiono rappresentati con un’esagerazione enfatica che sembra lontana dalla verità umana ed emotiva, e un esempio fra tutti è la foga di Renato che all’inizio del terzo atto manda all’aria sedie e suppellettili. La visione “politica” di Ollé la fa da padrona anche nel finale, nel quale, su “Notte d’orror”, un gas giallastro discende sui convitati del ballo uccidendoli tutti, ad eccezione dei congiurati che indossano una maschera antigas stile prima guerra mondiale. Difficile davvero dare un senso a questa innovazione. Le scene di Alfons Flores sono perfettamente intonate all’atmosfera plumbea che domina l’allestimento. Pilastri di cemento disposti su più file che si alzano e si abbassano per disegnare spazi e stanze più o meno ampi: non c’è molto altro. Il colore dominante, ovviamente, è il grigio. Anche l’abituro di Ulrica non va molto più in là. Le luci dovrebbero forse animare questa scena squadrata e donarle intensità ed emozione, ma l’impressione è che anche Urs Schönebaum abbia preferito non peccare di originalità. Lo stesso si può dire per i costumi di Lluc Castells, completi per gli uomini e tailleur per le donne, di stile assai sobrio, grigi o azzurri o viola, con il numero stampigliato sulla schiena e l’immancabile calottina in testa. Se l’intenzione degli autori era di disumanizzare completamente l’opera, di toglierle qualsiasi slancio poetico, l’operazione può dirsi riuscita. Per fortuna, se la parte più prettamente teatrale dello spettacolo lascia a desiderare, lo spettatore ha di che consolarsi con la parte musicale. Carlo Rizzi dirige l’orchestra con chiara maestria e con precisione ed eccelle quando si tratta di far montare la tensione, ma vale anche per lui quel che si diceva sull’accentuare all’eccesso certi momenti drammatici. Troppo spesso però l’orchestra deborda e sovrasta il canto. Nell’insieme comunque ha offerto agli spettatori una bella serata di musica. Complessivamente di  buon livello anche il cast vocale. Convince nel ruolo di René George Petean, che ha una bel timbro di voce e tutta la potenza necessaria al personaggio. L’emissione è luminosa, ottima la dizione, se pur con qualche limite espressivo, ma su questo pesa sicuramente l’impostazione registica che mortifica i personaggi. Stefano Secco è un Gustav dal buon fraseggio e affronta il ruolo senza incertezze interepretative. Più alterna la sua resa vocale, soprattutto nel registro acuto che non sempre appare a fuoco, pur non dimenticandoci delle intemperanze orchestrali. Maria José Siri possiede ben poco della voce drammatica prevista per il ruolo. Le forzature sono molte, non possiamo però aggiungere altro visto che, dopo l’intervallo, il pubblico viene informato che la cantante, pur soffrendo per un infortunio alla caviglia incorso nei giorni precedenti, continuerà comunque a cantare fino alla fine dello spettacolo, ma riducendo i movimenti in scena. La Siri è ammirevole per l’impegno dimostrato in queste circostanze, e non nasconde la sofferenza al momento di raccogliere gli applausi finali. Marie-Nicole Lemieux sembra difettare nella gestione della respirazione ma è comunque una solida, matronale Ulrica, dominatrice e insolente. Giustamente frizzante e precisa il soprano Kathleen Kim (Oscar). Il timbro è brillante, gradevole e gestisce le agilità con sicurezza. Dopo un inzio un po’ troppo “civettuolo”,  nel seguito si astiene da qualsiasi sospetto di petulanza e il personaggio acquista un maggior peso drammatico. Buone le parti di fianco: Roberto Accurso (Cristiano), Tijl Favejts (Ribbig) e Carlo Cigni (Horn). E’ una solidcertezza il coro della Monnaie diretto da Martino Faggiani, che offre bellissimi momenti di musica pienamente verdiani. Applausi nella norma, senza particolare enfasi, alla fine dell’opera.