“Solliva, allievo del Conservatorio fondato qui dal principe Eugenio, ha venticinque anni. La sua musica è la più solida, la più accesa, la più drammatica ch’io abbia sentito da tempo. Non si appanna per un solo istante. Si tratta di un uomo di genio o soltanto di un plagiario? Hanno dato di recente a Milano, una dietro l’altra, due o tre opere di Mozart, che comincia a penetrare in questo paese; e la musica di Solliva richiama ad ogni piè sospinto Mozart. È un centone ben fatto? È un’opera di genio.
28 settembre. È un’opera di genio: c’è dentro un calore, una vita drammatica, una saldezza in tutti gli effetti, che decisamente non fanno parte dello stile di Mozart. Ma Solliva è un giovane; invaso dall’ammirazione per Mozart, ne ha preso il colore. Se l’autore di moda fosse stato Cimarosa, sarebbe sembrato un nuovo Cimarosa”. (Stendhal, Roma, Napoli e Firenze, Laterza, Bari, 1990, pp. 7-8).
Così un entusiasta Stendhal si espresse sul giovane compositore Carlo Evasio Soliva dopo aver assistito, alla Scala, ad una delle repliche della sua Testa di bronzo che, rappresentata per la prima volta nell’importante teatro milanese il 3 settembre 1816, aveva riscosso un notevole successo grazie anche al cast all’interno del quale figuravano il tenore Claudio Bonoldi e il basso Filippo Galli sotto la direzione di Vincenzo Lavigna, il futuro maestro di Verdi. La testa di bronzo era stata l’opera di esordio di Soliva, compositore oggi annoverato tra i minori della prima metà dell’Ottocento, ma che, comunque, godette di una certa notorietà in vita non solo in Italia, ma anche all’estero. Nato a Casal Monferrato il 27 novembre 1791 da Giovanni, che di mestiere faceva il caffettiere, e da Lucia Cima, Soliva si era diplomato in pianoforte e composizione al Conservatorio di Milano nel 1815, un anno prima del suo fortunato esordio teatrale con La testa di bronzo. L’opera, dopo aver tenuto il cartellone della Scala per ben 47 serate, fu ripresa nei maggiori teatri italiani con esiti alterni e a Dresda (1818) e a Monaco (1821) dove fu criticata per le evidenti influenze mozartiane, ma elogiata per l’assenza delle lunghe tirate tipiche dello stile italiano. Come operista non riuscì a ripetere il successo con le opere successive tra cui: Berenice d’Armenia, su libretto di Jacopo Ferretti, che ebbe il battesimo delle scene nel 1816 al Teatro Regio di Torino con , Giovanni Battista Velluti e Claudio Bonoldi; La zingara dell’Asturia; Giulia e Sesto Pompeo;Teresa Belloc-Giorgi Elena e Malvina, tutte rappresentate alla Scala rispettivamente nel 1817, nel 1818 e nel 1824. Lo scarso successo probabilmente fu dovuto al fatto che il suo stile vagamente mozartiano, conosciuto e apprezzato alla Scala grazie ad alcune rappresentazioni come Le Nozze di Figaro (1815) e Don Giovanni (1815) e Die Zauberlföte nel 1816), era stato superato dal grande astro nascente del melodramma, Gioacchino Rossini. Soliva riuscì comunque a svolgere un ruolo di un certo rilievo all’estero in quanto dal 1821 al 1830 fu direttore della scuola di canto del Conservatorio di Varsavia, dove conobbe Chopin, del quale tenne a battesimo con la sua bacchetta la prima esecuzione del Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (11 ottobre 1830) con il compositore in qualità di solista, dal 1832 al 1841 a San Pietroburgo dove ricoprì diversi incarichi a corte, e, infine, si stabilì nel 1844 a Parigi, dove sarebbe morto nel 1853. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Père Lachaise accanto a quelle di Chopin e di fronte alla tomba di Vincenzo Bellini oggi vuota, in seguito alla traslazione della salma a Catania.
Se La testa di bronzo fu l’opera di esordio di Soliva, lo stesso non si può dire per Romani che aveva già scritto alcuni libretti per importanti compositori come Rossini e Mayr, ma che ancora non si era del tutto affermato in quel panorama teatrale verso il quale sembrava portato. Come ricordato dalla moglie Emilia Branca:
“Il buon successo dei suoi lavori lo animò maggiormente a percorrere il sentiero che si era prefisso, tanto che fin dall’aprile 1816 allorquando l’Impresa del Teatro alla Scala bandì un concorso pel miglior melodramma che fosse composto, in un dato periodo di tempo, destinandovi un premio di L. 1000, questo fu deferito alla Testa di bronzo del Romani, alla Scala stessa prodotto (con musica del M. Carlo Soliva allievo del Conservatorio di Milano), quantunque il lavoro non fosse stato presentato al concorso. La commissione esaminatrice composta di valenti letterati a capo dei quali Vincenzo Monti, trovò che il solo scrittore che avesse corrisposto alle esigenze del programma, fu il nostro egregio Genovese, ed a lui decretò la testimonianza d’onore ed il corrispondente premio” (Emilia Branca, Felice Romani e i più riputati maestri di musica del suo tempo, Loescher, Torino 1882, p. 126)
Il 5 aprile 1816, infatti, la giuria, presieduta da Monti, dichiarò Romani vincitore e stabilì che il libretto della Testa di bronzo fosse messo in musica dal giovane Carlo Soliva. Così nacque quest’opera della cui prima si è già parlato.
L’opera
Libretto
L’ouverture
Estremamente gradevole all’ascolto, l’ouverture è costituita da un semplice Allegro, non direttamente connesso all’opera dal momento che non ne anticipa i temi principali. È una pagina brillante costruita interamente su un tema dall’iniziale ritmo puntato dal quale scaturisce un elegante florilegio melodico di carattere lirico. L’influenza di Mozart appare nella raffinata orchestrazione piena di contrasti timbrici e nella coda dove è possibile notare la presenza di formule conclusive care al genio salisburghese.
Atto primo
Nel palazzo di Adolfo, principe di Presburgo sono in corso i preparativi per le prossime nozze del principe con la contessa polacca Floresca. Giardiniere e Giardinieri, impegnati nell’addobbare con ghirlande la sala impreziosita da grandi busti di bronzo, esprimono in un coro (Su, compagni, non v’incresca) per la verità un po’ convenzionale, la loro gioia per il lieto evento, mentre Tollo, servo di corte, mostra qualche preoccupazione perché ancora non è tutto pronto. Inoltre egli cerca di insegnare, con scarso successo, come si vedrà in seguito, una serenata, comica sia nel testo per lo sgradevole e allitterante gioco di parole (O sola al par del sole) che nella musica volutamente retorica, in onore di Floresca.
Una tromba annuncia l’ingresso del principe che dà vita, insieme al suo consigliere Ermanno, a un duetto (Non mi parlar d’Elisa), formalmente mutilo della scena iniziale (recitativo accompagnato), ma estremamente interessante dal punto di vista vocale per il modo delicato e morbido con cui sono trattate le due voci baritonali. Nel duetto il consigliere cerca di dissuadere Adolfo dal suo proposito di sposare Floresca, già sposata in segreto con Federico, come si apprenderà in seguito, ricordandogli una sua vecchia relazione con una nobildonna di nome Elisa dalla quale ha forse avuto un figlio. Adolfo non si fa rattristare da questi ricordi e prorompe nella cabaletta (Divido il giubilo) in un’espressione di gioia. Adolfo va via e lascia sulla scena Ermanno che, nel successivo recitativo secco (Sempre sì mesto Ermanno?), si intrattiene a discutere con Riccardo, ufficiale della guardie, sulle prossime nozze, esprimendo la sua pietà per l’amico Federico e confidandogli di avere un piano per impedire il matrimonio.
Entra in scena Floresca la quale nel recitativo accompagnato (Tutto è già pronto) e nel breve cantabile dell’aria (Ah! Non credere al consiglio), si mostra lacerata da due opposti sentimenti: il dolore per queste nozze con il principe Adolfo, suo tutore, e la speranza, suscitata da Ermanno, che si possano evitare. Giunge Tollo a capo del coro dei Giardinieri (tempo di mezzo: Piano, piano è addormentata) con la funzione di pertichino e tenta di fare intonare, con scarso successo e con risultato comico, la serenata che aveva loro insegnato nella scena iniziale, ma Floresca, che sembra non curarsi di tutto quello che le accade intorno, dà sfogo, nella cabaletta (Amor che tacita), alla sue speranze di coronare il suo sogno d’amore con Federico al quale è già segretamente sposata.
Floresca è raggiunta da Ermanno il quale, nel successivo recitativo secco, la informa che ha predisposto la sua fuga al primo calar delle tenebre e che il suo vero sposo, il capitano Federico, accorso appena sentita la notizia delle nozze, si trova lì vicino, ben nascosto. La donna chiede allora di poterlo vedere un solo istante ed Ermanno mette in bocca a una testa di bronzo una chiave che apre un trabocchetto da cui esce Federico. I tre personaggi danno vita a un terzetto (Floresca!) nel cui cantabile (Appena il fosco velo) discutono della prossima fuga, ma vengono interrotti da un suono di trombe (tempo di mezzo: Oh! Dei! Qual periglio!) e sono costretti a congedarsi (cabaletta: Addio! Ti consola). Mentre Floresca si ritira, Ermanno spinge Federico nel suo nascondiglio, dimenticando, per la fretta, la chiave nella testa di bronzo.
Nella scena vuota fa il suo ingresso Tollo che, accortosi del cattivo umore di Ermanno, cerca di capirne le ragioni nel successivo recitativo secco (Come il signor Ermanno parte di qua ingrugnato) pensando che sia dovuto al fatto che i preparativi non sono ancora perfetti. L’uomo allora si mette a spazzolare le teste di bronzo, ma gira involontariamente la chiave inserita in una di queste. Si apre il trabocchetto e Federico, scoperto da Tollo, lo minaccia con una pistola (tempo d’attacco del duetto: Ferma, taci: o ch’io t’ammazzo) anche se ancora non ha ben chiaro cosa fare (cantabile: Costui m’impaccia). L’arrivo di alcune persone (tempo di mezzo: Gente arriva) induce Federico a scappare (cabaletta: Non mi scappi) dopo essersi fatto dare il mantello e il cappello da Tollo che chiude con qualche difficoltà il trabocchetto girando la chiave all’interno della testa di bronzo.
Introdotto da uno splendido assolo del violino, accompagnato dall’arpa in una scrittura orchestrale estremamente raffinata per l’epoca, il coro inneggia al principio Adolfo (Viva, viva il nostro principe) in una scrittura che produce quasi una situazione estatica. Nel successivo recitativo secco Adolfo corteggia Floresca la cui mancata risposta viene interpretata dal principe come un segno di timidezza; nel frattempo giunge un corriere che reca la notizia della diserzione di Federico.
Un improvviso rumore proveniente dal trabocchetto mette in allarme i presenti e dà l’avvio al Finale del primo atto (Ma qual rumore), nel quale il principe ordina ad Ermanno di aprire il nascondiglio da dove con gran sorpresa di tutti esce un Tollo spaventatissimo perfettamente caratterizzato da un quasi balbettante staccato tipico del basso buffo nel tempo d’attacco (Chi mai vedo?) estremamente raffinato dal punto di vista contrappuntistico. Adolfo decide dunque d’indagare chiedendo a Tollo chi lo spinse nel nascondiglio (tempo di mezzo: Parla, audace!), mentre gli altri sono spaventati perché immaginano che il principe avrebbe presto scoperto l’inganno (concertato: Ah che non gioiva il fingere). Alle ire dell’uomo che, sicuro del tradimento di Ermanno, l’unico a conoscere quel nascondiglio, minaccia ritorsioni nel confronti di tutti (tempo di mezzo: Fellone! a me palesa / gli empi disegni tuoi), si oppone Floresca mentre agli altri nella stretta conclusiva (Questo giorno di sciagura) non resta che prodursi in una riflessione amara su quanto avvenuto in quel giorno.
Atto secondo
Come spesso accade nei libretti di Romani, il secondo atto si apre con un coro (Già la notte si avvicina), qui intonato dai Giardinieri armati che, guidati da Tollo, sono alla ricerca di Federico sulla cui testa pende una taglia. Giungono alla capanna di Anna, zia di Tollo, alla quale l’uomo chiede ospitalità (recitativo secco: Giacché son capitato alla capanna) e poi racconta l’accaduto in un’aria (Figuratevi una festa) che ricorda l’aria del catalogo di Leporello dal Don Giovanni di Mozart; interrotto da un tuono che annuncia una tempesta, Tollo si rifugia insieme con i suoi compagni nella capanna, mentre giunge Federico, il cui recitativo accompagnato (Ove m’aggiro?) è introdotto da una musica tempestosa che non rappresenta solo la burrasca, ma anche l’agitazione che caratterizza l’animo dell’uomo. Nell’aria di ottima fattura (Cessate, oh dio, cessate), autentico piccolo gioiello, in cui non mancano tuttavia alcune reminiscenze mozartiane soprattutto del Don Giovanni, Federico spera che possano cessare le smanie che lo attanagliano rappresentate da ansanti appoggiature. La vista dei luoghi della sua infanzia (tempo di mezzo: Che veggo! Oh speme amica!) dona qualche piccolo conforto all’uomo che si abbandona a una cabaletta in tempo moderato (Cara valle solitaria) di carattere estatico. Federico vorrebbe entrare nella capanna di Anna (recitativo accompagnato: Aperto è l’uscio), ma desiste quando capisce che al suo interno stanno parlando di lui. Nel frattempo dalla capanna esce Tollo (Sì, sì, lo troveremo), nel cui animo la zia ha ispirato dei sentimenti di pietà nei confronti del disertore che si consegna a lui. Nel momento in cui Tollo sta per consegnarlo ai compagni, giunge Floresca, travestita da capitano, che lo ferma dicendogli che avrebbe pensato lei a riportarlo dal principe. Così, Floresca, che si fa riconoscere nel duetto (Federico! Mi ravvisa), salva l’uomo seguendo un cliché, diffuso nell’opera della prima parte dell’Ottocento, il cui modello è la Leonora del Fidelio. Il duetto si trasforma in terzetto con l’arrivo di Ermanno che aveva predisposto un battello per traghettare i due sposi sull’altra riva del Danubio, ma tutto sembra precipitare quando sopraggiunge Adolfo (recitativo secco: Non vi esponete, altezza) che vorrebbe fermare la fuga. Il principe è, però, ingannato da Floresca che, dopo aver favorito la fuga dello sposo, gli si presenta davanti in abiti virili dicendo che le sue azioni sono state ispirate da Amore. Alla fine la donna si fa riconoscere, suscitando la sorpresa in Adolfo (duetto: Voi, contessa!), ma è ingannata perché pensa che Federico sia in salvo. L’uomo, subito dopo, è condotto in ceppi dai soldati e si abbandona ad un abbraccio con Floresca, mentre Adolfo è alla fine preso da un moto di pietà per i due coniugi. Andati tutti via, resta sulla scena Anna che nel recitativo secco (In casa nostra il principe) rivela a Tollo di aver riconosciuto in Federico, Giorgetto, un piccolo trovatello al quale aveva dato il latte; nel frattempo l’uomo è giudicato dal gran consiglio, come si apprende nel recitativo secco di Riccardo (Fra poco il gran consiglio), e viene condannato a morte. Nel quintetto successivo (Lasciatemi) sono inutili le richieste di clemenza rivolte ad Adolfo che si piega soltanto quando Ermanno gli rivela che Federico è suo figlio illegittimo avuto dalla sua vecchia fiamma Elisa; è ormai troppo tardi, in quanto si sente una scarica di moschetti che fa temere il peggio precipitando tutti nella disperazione (Giorno orrendo); Floresca, riavutasi da un piccolo mancamento, appare ancora sconvolta e nell’aria (Dove son?), la cui prima parte presenta una struttura tripartita (A-B-C), piange, infatti, la morte dello sposo, ma è interrotta da grida di gioia. Come si apprende dal racconto di Tollo, Riccardo, informato da Ermanno del fatto che Giorgetto era il figlio del principe, aveva fatto caricare a salve i fucili. La donna può, così, abbandonarsi ai più puri sentimenti di gioia nella cabaletta Se ai lunghi pianti (Es.). La gioia trionfa nel finale, aperto da un radioso coro (Di lieti suonino), nel quale si celebra la riconciliazione grazie all’agnizione.