I novantatré anni che fanno del Maestro Guido Lauri una delle ultime e più importanti memorie storiche della tradizione ballettistica italiana più pura sono tanti solo per la quantificazione anagrafica e la stratificazione storia, perché l’agilità mentale e fisica contraddicono ogni luogo comune in merito. Entrato a sei anni alla Scuola di Ballo del Reale Teatro dell’Opera di Roma, nel 1939, ottiene il diploma con il massimo punteggio ed entra a far parte del Corpo di Ballo come Primo ballerino étoile. Danseur noble dalla tecnica raffinata, è stato protagonista dei più importanti titoli del repertorio classico-romantico: dal secondo dopoguerra è spesso richiesto nei principali Teatri lirici italiani e stranieri (anche oltre oceano), ma sa “rinunciare a una proposta a Holliwood per amore della moglie (e collega) Anna Maria Paganini” – come ci racconta. Al Teatro dell’Opera di Roma è stato Direttore e Maestro di Ballo dal 1965 al 1983. Lo incontriamo nella sua casa di Roma ‒ tappezzata di cimeli fotografici che lo ritraggono nel fulgore della sua bellezza giovanile ‒ dove, insieme alla figlia Tiziana (già solista del Teatro dell’Opera di Roma), si racconta con entusiasmo. Ed è bello sentire la terminologia tecnica declinata in versione “italianizzata”, d’uso ai suoi tempi, come “attitudine” e “stacco”.
Maestro Lauri, ci parli dei primi anni di studio, in un momento storico molto difficile, in cui la Scuola del Teatro dell’opera di Roma era stata l’unica a puntare sulla danza classica maschile, ottenendo ottimi risultati. Al Teatro dell’Opera ho studiato proprio con i primissimi Maestri, a sei anni e mezzo. Servivano ballerini da utilizzare nelle opere. Ho studiato con Dimitri Rostoff e Ileana Leonidoff, con Nicola Guerra (che era l’unico italiano ad avere la pensione dall’Opera di Parigi e dall’Opera di Budapest), Ettore Caorsi, Mara Duse e, nel 1938, con Teresa Battaggi, seguita presto dalla sorella Placida, che si occupava dei corsi inferiori. Guerra, Caorsi e Battaggi erano Maestri della Scuola italiana più pura. In quel momento la Scuola del “Teatro Reale” valorizzava molto la tradizione del balletto classico. Avrei dovuto diplomarmi con il famoso “Passo d’Addio” nel 1939, ma Teresa Battaggi chiese il permesso al Direttore artistico, che allora era Tullio Serafini, di farmi rimanere un altro anno alla Scuola, insieme ad Adriano Vitale, altro bravissimo ballerino dal temperamento diverso rispetto al mio (era molto più “morbido”, stilisticamente parlando). Abbiamo studiato un anno in più con lei in due, con lezioni che duravano tre ore! In pratica ho fatto tre “Passi d’Addio”: il primo, poi quello dell’anno seguente in cui mi aveva fatto restare con Vitale, e poi per la terza volta per sostituire l’unico ballerino che doveva diplomarsi e mi trovai a dover imparare tutto la sera prima.
La Sua insegnante era Teresa Battaggi, figura importante ma piuttosto dimenticata. Cosa ricorda? Avevamo il massimo rispetto per la nostra insegnante. Di provenienza scaligera, la sua attività si è svolta molto all’estero come danzatrice, insieme alla sorella Placida, che spesso le faceva da partner en travesti, come si usava all’epoca per sopperire alla mancanza di uomini. Teresa Battaggi aveva una cosa molto bella: favoriva e proteggeva tutto quello che era italiano nella danza e c’era molta attenzione allo stile. Esattamente il contrario di quello che in genere facciamo, perché gli italiani sono molto bravi a parlare male di se stessi. Ho ritrovato le sue lezioni in quelle del grande ballerino danese di Erik Bruhn. Adriano Vitale e io facevamo lezione in due alle otto del mattino e dovevamo trovarci già scaldati. Insomma si iniziava alle sette e mezza! Poi scappavamo in Teatro per le prove. Quando a Roma si iniziarono ad aprire molte scuole private, iniziarono i reclami perché entrassero in Teatro anche le loro allieve. Fu fatto un vero e proprio reclamo e così non entrarono più solo gli allievi della Scuola del Teatro dell’Opera, che era nata come vivaio del corpo di ballo.
Essere un danzatore, all’epoca, era più difficile rispetto ad oggi, dal punto di vista della vita comune?
Da giovane, quando mi chiedevano cosa facessi, io rispondevo “tersicoreo”. Per lo più la gente non ne conosceva il significato, e certo non è che io dovessi risolvere la loro ignoranza, ma mi vergognavo a dire “ballerino”, perché non c’era proprio l’idea del rispetto per il nostro mestiere. Mi seccava dover sempre spiegare cosa fosse un ballerino classico, rispetto a quello che avevano loro in testa. A Roma una volta esisteva un’invettiva: “A’ fijio de una ballerina!” Come dire “figlio di una buona donna”, insomma… Pensate un po’.
Lei ha avuto un rapporto speciale con Napoli. Ce ne parli.
Napoli è una città che io amo tantissimo, dove ho lavorato per dieci anni. Verso la fine della seconda guerra mondiale, nel 1944, a Napoli non c’era un Corpo di Ballo e per le opere prendevano signore anche un po’ in là con gli anni. C’erano le truppe americane e la Signora Bianca Gallizia, che rifondò la Scuola di Ballo del San Carlo e mi voleva un gran bene, mi chiamò per lavorare al San Carlo finché non vennero su gli allievi della Scuola interna. Quindi per tanto tempo ho fatto su e giù fra Roma e Napoli. Con gioia.
Quando ha smesso di danzare, agli inizi degli anni Sessanta, cosa ha fatto?
Ho insegnato all’Opera, a Lisbona, a Rio de Janeiro, in Germania e ho rimontato balletti di repertorio e coreografie originali. Non ho alcun video della mia danza perché all’epoca non si usava… Solo Leonide Massine registrava i propri balletti. Forse c’era qualcosa ma ora non saprei dire dove possano trovarsi.
A Suo avviso qual è il problema della danza oggi?
La mancanza di attenzione allo stile e all’espressività. Noi italiani siamo molto espressivi, ma abbiamo voluto imitare gli stranieri, soprattutto inglesi e americani. Non ci sono più le grandi personalità che si distinguono per il proprio carattere. Un livellamento triste, dove anche l’appiattimento tra uomo e donna non rende giustizia alla danza e al nostro passato in quest’arte.
Le ore passano leggere e la conversazione potrebbe continuare per giorni, se non ci fosse l’urgenza del treno Roma-Napoli a farci catapultare in metro per rientrare. Tutti dovrebbero cercare e ascoltare per non dimenticare ma “ereditare” qualcosa di irripetibile, che rischia di svanire con la vita umana.