Orizzonti Festival di Chiusi: “La voix humaine”

Orizzonti Festival delle Nuove Creazioni nelle Arti Performative #15
“LA VOIX HUMAINE”
Tragedia lirica in un atto di Jean Cocteau
Musica di Francis Poulenc
Elle  TIZIANA FABBRICINI
Direttore Sergio Alapont
Maestro al pianoforte  Andrea Dindo
Regia, scene e costumi  Renato Bonajuto
Produzione Festival Orizzonti Fondazione
Nuovo allestimento, prima nazionale
Chiostro di San Francesco, Chiusi, 7 agosto 2015 

Giunto alla quindicesima edizione, l’Orizzonti Festival delle Nuove Creazioni nella Arti Performative di Chiusi è da due anni sotto la direzione di Andrea Cigni, “homo artisticus” a tutto tondo, attore, regista, mimo, nonché docente, che ha individuato nella multidisciplinarietà l’ingrediente imprescindibile per fare del Festival un punto di riferimento nel panorama culturale italiano, raro esempio di realtà artistica che cresce e si sviluppa in un mondo che al contrario, per mancanza di fondi e pessime gestioni, si restringe a vista d’occhio. Ed ecco che nello spazio di una decina di giorni intensissimi si succedono freneticamente spettacoli di prosa, balletti, concerti di musica classica, di jazz, laboratori, proiezioni cinematografiche, mostre, incontri con il pubblico, masterclass, per concludersi con la consegna del “Premio Orizzonti 2015” ad uno dei personaggi più amati e influenti dello spettacolo italiano, Franca Valeri. Non poteva mancare l’opera lirica, quest’anno rappresentata da due atti unici eseguiti separatamente: dopo la Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni proposta la settimana scorsa in uno spazio aperto, un palcoscenico montato davanti alla Cattedrale della città, è stata la volta della Voix humaine di Francis Poulenc ospitata nel bellissimo Chiostro di San Francesco. Sebbene sia stata composta per un teatro di notevoli dimensioni (quello dell’Opéra Comique di Parigi), La Voix humaine è senz’altro più appropriata a spazi intimi come questo, soprattutto quando viene eseguita nella versione per pianoforte approntata dallo stesso compositore, ben consapevole che offrire un’opzione meno costosa avrebbe indubbiamente favorito la diffusione dell’opera. Si tratta infatti non di un semplice adattamento, ma di autentica versione alternativa; l’esecuzione con il pianoforte non deve esser quindi vista come un ripiego in mancanza di meglio, ma come una scelta artistica legittima. Entrambe hanno i loro pregi: il pianoforte, se da un lato non può se non parzialmente ricreare l’orchestrazione elegantemente diafana e sensuale di Poulenc, ne riproduce la frequente asprezza e soprattutto, come evidenziato dal pianista Andrea Dindo nella conferenza di introduzione all’opera, accorcia i tempi di risposta fra musica e soprano, favorisce il colloquio, anzi il duello fra le due componenti, e concede alla solista una maggiore capacità reattiva. La Voix humaine è infatti un monodrama, genere musicale poco frequentato nel Novecento, se è vero che l’esempio immediatamente precedente all’opera di Poulenc è Erwartung di Schönberg rappresentato nel 1924 (ma composto nel 1909). La protagonista non ha un nome (semplicemente “Elle”), ed è l’unico personaggio in scena, colta nel momento in cui tiene l’ultima conversazione telefonica con l’amante; anche se non detto esplicitamente, ci è dato intuire che l’uomo l’abbia abbandonata e stia per sposare un’altra donna. Questa impostazione drammatica impone un limite affascinante; si pensi ad esempio al Concerto per la mano sinistra in re maggiore di Ravel, o a film come In linea con l’assassino (Phone Booth) di Joel Schumacher. La premessa può sembrare solo una “trovata”, un artificio, ma Poulenc e prima di lui Cocteau la trasformano in qualcosa che è ben più di una semplice sfida drammaturgica.  E la sfida è indubbiamente formidabile: il soprano deve occupare la scena da sola per circa tre quarti d’ora e al contempo trasmettere quello che le dice l’amante all’altro capo del filo, informazioni che il pubblico può solo dedurre.  Poulenc sceglie un approccio innovativo all’annosa questione di come equilibrare musica e dramma. In poche parole vuole “la botte piena e la moglie ubriaca”, miscelando il potere espressivo diretto della voce cantata con una vocalizzazione più prosaica e una teatralità più sfaccettata. Tutto questo esige una fisicità non comune da parte della cantante.
Tiziana Fabbricini ha colpito per la straordinaria capacità di cambiare colore vocale (ed espressione facciale) con una spiazzante repentinità, intonando ora le poche dosi di preoccupazioni, poi di falso sollievo, poi ancora le oasi sognanti seguite subito dal panico, che costituiscono la linea vocale. Si può azzardare che Poulenc riesca a conseguire qualcosa di analogo alle risoluzioni continuamente frustrate e alle cadenze ritardate nel Tristan wagneriano: riesce in pratica a frustrare le nostre aspettative che un inciso melodico possa prima o poi, stimolato da uno dei teneri ricordi di Elle, sbocciare e prendere il volo nella forma, se non proprio di classico pezzo chiuso, di timido arioso. La Fabbricini nel corso della serata ha perfettamente adattato questa malleabile partitura alla propria sensibilità. La voce ha dispiegato una gamma intera di sfumature (il pianto si sposa alle grida di dolore senza mai trasformarsi in urla, le confidenze a mezza voce sono sussurrate con squisita dolcezza) offrendo un controllo vocale perfetto del materiale, rivelandosi a proprio agio in una vocalità dalla tessitura assai frastagliata e ricca di fulminei scatti verso gli acuti. Se in rarissime occasioni si sono verificati dei minimi slittamenti di intonazione nel registro centrale, se talora una parola si è perduta nei momenti di dolore, l’emozione era costantemente presente, come se sorgesse dal più profondo dell’anima. Il soprano ha delineato con precisione il personaggio: una donna seducente, spinta sull’orlo del baratro dall’amante e tuttavia in grado di mascherare il dolore con eleganza. Il panico non si trasforma in isterismo incontrollato, e assente è anche la patetica leziosità con cui altre interpreti farciscono i momenti in cui Elle cerca di far buon gioco a cattiva sorte. Questa donna spezzata, così come la rende la Fabbricini, appartiene a qualsiasi epoca, a qualsiasi dolore; commuove non con facili istrionismi ma in quanto simbolo di tutte le separazioni.
La Voix humaine, soprattutto nella versione con pianoforte, è indubbiamente una di quelle opere il cui successo o fallimento poggia quasi interamente sulle spalle della protagonista, che deve pur tuttavia ricevere stimoli e indicazioni da un direttore, in questo caso Sergio Alapont, e un pianista (Andrea Dindo). Non è semplice discernere il contributo dei due musicisti all’interpretazione della Fabbricini, che ha già molte produzioni di quest’opera all’attivo e che quindi avrà sicuramente messo moltissima farina del suo sacco. Dindo in ogni caso si è dimostrato pienamente all’altezza della situazione, con un accompagnamento (termine che in questo caso è riduttivo, poiché il pianoforte è tenuto a svolgere il ruolo del presente non presente) in perfetta simbiosi con il soprano, come due organismi che respiravano con un solo polmone. Alapont ha senza dubbio svolto funzione essenziale, anzi vitale nel dosaggio e nell’equilibrio di questa associazione.
Come nel caso della resa musicale, anche nel campo puramente scenico non è agevole capire la piena misura in cui il regista Renato Bonajuto abbia influito sulla prestazione finale del soprano: quel che conta è il risultato, e questo è stato, come già accennato, sconvolgente nella sua semplice naturalezza. Sebbene si soffermi a descrivere in dettaglio il costume ed anche l’acconciatura della protagonista (rossa, come quella della Fabbricini), Cocteau fornisce indicazioni sceniche lapidarie: la stanza non deve contenere nulla d’importante se non la donna e il telefono che lei impugna come una pistola. Bonajuto ha quindi appropriatamente incorniciato l’azione in un ambiente che suggeriva raffinatezza (la donna in fin dei conti appartiene alla borghesia medio-alta) con pochi tocchi essenziali: oltre al telefono, un divano, un tavolino e un piccolo bar con alcune bottiglie cui Elle ricorre nei momenti più arroventati. In un’opera in cui poco è già troppo, Bonajuto ha offerto la soluzione più efficace e auspicabile. Lo spettacolo è stato accolto con vivo entusiasmo, rivolto ovviamente soprattutto verso la Fabbricini, destinataria di una meritata e lunghissima ovazione. Foto I Flashati per Orizzonti Festival