MiTo – Settembre Musica 2015 – Nona Edizione
“IL RAGAZZO DEL RISCIÒ”
Opera in due atti su libretto di Xu Ying dal romanzo Luotuo Xiangzi di Lao She
Musica di Guo Wenjing
Versione originale in cinese
Xiangzi HAN PENG
Huniu SUN XIUWEI
Xiaofuzi SONG YUANMING
Liu Siye TIAN HAOJIANG
Er Qiangzi SUN LI
Sun Paizhang LIANG YUFENG
Ragazzo del risciò 1 YANG GUANGMENG
Ragazzo del risciò 2 LIU YANG
Ragazzo del risciò 3 CHEN RAN
Ragazzo del risciò 4 YANG SHUAI
Gao WANG ZHIHUA
Cameriera WANG RONGRONG
Cliente CHEN SHOUKUI
Poliziotto XU DA
Orchestra e Coro China National Centre for the Performing Arts di Pechino
Direttore Zhang Guoyong
Maestro del Coro Wang Lei
Regia e scene Yi Liming
Costumi A’Kuan
Luci Wang Qi
Allestimento del China National Centre for the Performing Arts di Pechino
Torino, Teatro Regio, 23 settembre 2015 (prima rappresentazione europea)
Un’intesa siglata tra il Regio di Torino e il National Centre for the Performing Arts (NCPA) di Pechino – i cui frutti dovrebbero concretizzarsi negli anni a venire in coproduzioni e scambi di professionalità – ha fatto sì che sia stato il teatro d’opera torinese, nella cornice di MiTo-Settembre Musica, ad ospitare la prima rappresentazione europea del Ragazzo del risciò di Guo Wenjing (il titolo ha debuttato a Pechino nel giugno 2014). Non si tratta, si badi bene, di teatro musicale tradizionale cinese, ma di una composizione che si inserisce a pieno titolo nella storia del teatro d’opera occidentale, che in Cina è approdato con stupefacente successo negli ultimi decenni, e del quale Wenjing ha mutuato la poetica e il linguaggio, fondendovi alcuni elementi che richiamano le tradizioni musicali del proprio Paese (certi effetti sonori, e un paio di strumenti in orchestra) e scegliendo come propria fonte un popolare romanzo cinese del Novecento, Luotuo Xiangzi di Lao She. Il modello cui più si avvicina Il ragazzo del risciò è indubbiamente quello dell’opera cosiddetta “verista” – non è ora il caso di soffermarsi sugli equivoci cui si presta la definizione –, alla quale rimandano sia il soggetto sia la struttura musicale. La vicenda, infatti, da un lato è di marcata denuncia sociale, dal momento che rappresenta una società chiusa, dominata dai rapporti di forza, nella quale i tentativi di ascesa sociale di un uomo del popolo sono ripetutamente destinati a infrangersi di fronte alla violenza e ai soprusi, e generano un “vinto” cui non resta che rassegnarsi a una vita apatica di miseria; dall’altro lato, porta in scena sentimenti vividi, a tratti esasperati, tipicamente melodrammatici, quali sono quelli cantati da una parte significativa del teatro d’opera fin de siècle italiano e non solo. La partitura, suddivisa in scene, pur prevedendo una continuità drammatica cela al proprio interno, specialmente nel secondo atto, momenti d’espansione lirica nei quali si possono riconoscere senza difficoltà arie e duetti. Del resto, intento dichiarato del compositore è stato quello di non riprodurre l’atmosfera musicale della Pechino d’inizio Novecento messa in scena, quanto piuttosto di usare la musica – vocale e strumentale – per sottolineare le emozioni e i conflitti drammatici che sostanziano la vicenda: la poetica del nostro melodramma, né più né meno.
I complessi del NCPA hanno saputo dar vita allo spettacolo con efficacia. Il suono è molto pulito, il Coro si muove a ranghi serrati, il direttore d’orchestra Zhang Guoyong coordina tutto con padronanza. Non sono concetti scontati, considerato che si tratta di compagini giovani, con poco più di un lustro di vita alle spalle. Chi era stato in Cina alcuni anni fa assicura che dal punto di vista esecutivo sono stati fatti passi da gigante. Il Coro ha ricevuto l’applauso più lungo della serata, al termine di quello che Wenjing ha concepito quasi come intermezzo corale: una lunga pagina, che precede la scena finale, nella quale si leva un accorato canto d’amore all’antica Pechino, per sempre perduta; pagina dal chiaro sapore verdiano che ha suscitato nel pubblico un entusiasmo indirizzato, possiamo immaginare, anche al compositore. L’antica Pechino era poi evocata nelle splendide scenografie – i costumi, riproducendo un ambiente popolare, erano comprensibilmente più anonimi – che rispecchiano la migliore tradizione degli allestimenti d’opera: tanta cartapesta, sì, ma piacevole da vedere. E la regia, curata da Yi Liming, ha fatto vivere con chiarezza la vicenda sulle scene, ponendo in evidenza i sentimenti e i rapporti di forza tra i personaggi. Non è semplice esprimere un giudizio sui solisti di un’opera che non si è mai ascoltata distinguendo l’interpretazione dalla volontà del compositore, ma è indubbio che tutti sono riusciti a caratterizzare i propri personaggi con efficacia, sbalzando la vicenda narrata da Lao She con colori vivaci e contribuendo al successo della partitura. Lascia qualche perplessità che Han Peng (il protagonista Xiangzi) sia definito «uno dei dieci nuovi grandi tenori cinesi», dato che non pare di ravvisare nella sua voce quelle caratteristiche naturali e tecniche che giustificherebbero l’affermazione; può darsi, tuttavia, che non fosse in serata, e il personaggio è stato comunque incarnato con coerenza. Il basso Tian Haojiang (Liu Siye), il baritono Sun Li (Er Qiangzi) e il tenore Liang Yufeng (Sun Paizhang) hanno saputo dar voce a uomini che hanno accolto, ciascuno nella misura permessagli dal ruolo sociale ricoperto e dalle sostanze possedute, la logica di sopraffazione del mondo che li circonda, e sono incapaci di provare sentimenti di fronte alle sofferenze inflitte e alla stessa morte dei propri figli. Le prime due figure dispongono di un linguaggio che mescola elementi seri a elementi buffi per delineare ritratti grotteschi, restituiti con lucidità dagli interpreti. Sul fronte femminile, è stata buona la di scelta accostare due soprani dalle caratteristiche vocali nettamente differenti: Sun Xiuwei, di temperamento drammatico, incisiva e tagliente negli acuti, per incarnare la spregiudicata Huniu, capace tuttavia di un canto passionale e struggente al momento della morte; Song Yuanming, voce lirica delicata, per la figura mite e introversa di Xiaofuzi.
Che dire, in conclusione, di questa nuova opera “europea” arrivata dalla Cina, frutto di quella straordinaria e solerte capacità del popolo cinese, già vista in tanti settori, di assorbire ed emulare il meglio della produzione artigianale e artistica delle realtà culturali con cui entra in contatto? Qualcuno potrebbe scrollare le spalle con sufficienza, e osservare che si imita la nostra musica di cent’anni fa, rinunciando a usare linguaggi nuovi e dimenticando che il teatro d’opera si è nel frattempo evoluto. Chi commentasse in questa maniera, tuttavia, ignorerebbe che un secolo, un secolo e mezzo fa il nostro teatro musicale era vivo e in grado di produrre capolavori immortali; negli ultimi decenni le novità, salvo rare eccezioni, sono diventate cosa da addetti ai lavori, destinate a vivere lo spazio di una produzione e di qualche recensione. Qualcun altro potrebbe avere un moto di sdegno, al grido di «ora i cinesi ci copiano anche l’opera!»; ma non farebbe meglio, questi, a chiedersi perché, se i cinesi credono nel teatro d’opera, in Occidente, e in Italia in particolare, non dovrebbe crederci più nessuno? Personalmente preferisco vedere ne Il ragazzo del risciò – così come nei complessi del NCPA di Pechino e nei nuovi teatri lirici che vengono costruiti in Cina e in altri Paesi asiatici – un frutto del fascino che le nostre espressioni artistiche, e il teatro d’opera in specie, esercitano su tutti i popoli che ne vengono a conoscenza. Questo fascino deve, da un lato, renderci orgogliosi, e, dall’altro, spronarci a non abbandonare ad altri il compito di valorizzare e far conoscere nel mondo il nostro patrimonio culturale; missione possibile, va da sé, se questo patrimonio viene studiato, compreso, amato e fatto vivere in primo luogo nelle nostre scuole e nei nostri teatri.