Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2015
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
direttore Antonio Pappano
Giuseppe Verdi: Sinfonie e Preludi da Luisa Miller, La forza del destino, I masnadieri, Aida, Sinfonia
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 7 in fa maggiore Op. 92
Parma, 18 ottobre 2015
Quel boato fragoroso, da stadio, che accompagna la fine di ogni brano: è il suono ricorrente di questa serata al Teatro Regio di Parma. Sul palco l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, sul podio a sferzarli con gesto il più energico possibile Antonio Pappano. Colpiscono subito l’intesa fra bacchetta e strumentisti e la qualità di questi. Ovunque la compagine romana suona brillante, gli archi si distinguono dal primo all’ultimo leggio, i legni sorprendono per morbidezza, intonazione, qualità pura. Impossibile non menzionare almeno Gabriele Geminiani, primo violoncello di cavata morbida, musicista solidissimo, italianamente cantante nel preludio de I masnadieri. Perché il programma (neanche a dirlo, siamo pur sempre al Festival Verdi) raccoglie quattro fra sinfonie e preludi verdiani. L’energia passa dalla più compatta Sinfonia di Luisa Miller a due sorelle articolate, ricche dei temi che poi si sentiranno nel corso dell’opera secondo l’ottocentesca tradizione dell’ouverture pot pourri. Ci si riferisce alla Sinfonia da La forza del destino, ma anche al brano raro della serata: quella Sinfonia pensata per la prima italiana di Aida del 1871, poi scartata a favore dell’originario Preludio. Brano ampio, letto da sir Tony come un piccolo poema sinfonico, indimenticabile per la corrusca energia dei violoncelli nell’enunciazione del tema dei sacerdoti, tirato a lucido nel finale fiammeggiante.
Medesima brillantezza nella beethoveniana Settima sinfonia che occupa la seconda parte della serata. Un Beethoven denso, pieno di colori cangianti, in technicolor. Forse non ci siamo più abituati, forse qualcuno obietterà che scarso è l’interesse all’impianto formale del brano e che c’è una certa esteriorità nella condotta dei vari movimenti (brillanti e sempre vigorosi il primo, il terzo e il quarto, languoroso e con qualche inusuale crescendo il funebre Allegretto). Ma se questa sinfonia dev’essere “apoteosi della danza” (la stracitata definizione è di Wagner), che la sia fino in fondo. È allora plausibile l’incedere dionisiaco del finale, solido ma mai pesante. E che piacere istintivo sono in grado di scatenare gli archi nel rapinoso accelerando conclusivo. Bis in salsa anglosassone: “Nimrod” dalle Enigma Variations di un altro sir, Edward Elgar: prodigio di morbidezze, crescendo infallibile. Nel clamore degli applausi, qualche timida contestazione dal loggione, da parte chi forse (ma ancora abbiamo queste esigenze?) avrebbe preferito un altro italico brano. Ma in un’epoca di specialisti, Pappano è e resta un direttore onnivoro, curioso, internazionale – e questo concerto lo dimostra fino all’ultimo. Ce lo teniamo molto volentieri così.