Antonio Caldara (1670-1736). “La concordia de’pianeti”

Componimento teatrale per musica su libretto di Pietro Pariati. Ruxandra Donose (Giove), Delphine Galou (Venere), Daniel Behle (Mercurio), Veronica Cangemi (Diana), Franco Fagioli (Apollo), Carlos Mena (Marte), Luca Tittoto (Saturno). La Cetra, Andrea Marcon (Direttore). Registrazione: Dortmund, Konzerthaus, 13-19 gennaio 2014. 2 CD Archiv DG 0289 3356 4 – Da qui alcuni estratti dell’opera
Antonio Caldara è un compositore la cui importanza storica è ben riconosciuta. Fra gli ultimi protagonisti della stagione secentesca dell’opera veneziana, allievo di Legrenzi, attivo in Italia e Spagna fino al 1711 e poi a Vienna come compositore di corte dell’Imperatore Carlo VI dove impiantando il seme delle esperienze italiane avrebbe fatto germogliare l’albero da cui – attraverso il ruolo dell’allievo von Reutter – sarebbe fiorito il classicismo viennese. Di contro resta un compositore poco eseguito e poco ascoltato nonostante le dimensioni sterminate della sua opera (87 opere e 32 oratori per limitarsi al genere lirico) e l’alto livello riscontrato dai titoli recuperati, soprattutto nel repertorio sacro.
Si accoglie quindi con interesse questa nuova registrazione de “La concordia de’Pianeti” che però all’ascolto non giunge a suscitare entusiasmi. Composto nel 1723 – al culmine quindi dell’esperienza viennese – questo lavoro si inserisce pienamente in quel genere dell’Opera-Serenata molto diffuso nel XVIII secolo in relazione ad occasioni encomiastiche e celebrative. Il modesto libretto di Pietro Pariati pesa non poco sulla tenuta complessiva, in quanto, essendo privo non solo di qualunque tensione drammatica ma di qualunque sviluppo teatrale, si riduce ad una serie di arie alternata a recitativi – e rari interventi corali – in cui i pianeti personificati dalle divinità olimpiche esaltano i meriti dell’Imperatrice Elisabetta Cristina di Brunswick riconoscendola non solo degna di ascendere al cielo ma superiore agli stessi Dei.
Musicalmente l’opera rappresenta al meglio l’evoluzione avuta dal compositore nella sua maturità in cui la leggerezza delle opere giovanili cede il campo ad una scrittura più ricca e articolata soprattutto nell’orchestrazione che veniva così incontro ai gusti viennesi anche sacrificando un po’ quella spontaneità che era stata la cifra del primo barocco veneziano. Nell’opera ascoltiamo la presenza di queste due fasi storiche con momenti ancora quasi post-monteverdiani ed altri già decisamente proiettati verso il mondo di Vivaldi ed Händel. Il problema è che gli intenti celebrativi della composizione ed una certa ripetitività delle atmosfere del testo non sembrano aver particolarmente acceso la fantasia di Caldara e vano sarebbe cercare quel senso drammatico e quell’abilità nei contrasti che i contemporanei riconoscevano al compositore il tutto sviluppandosi in una brillantezza più o meno marcata ma alquanto di maniera.
Registrata congiuntamente alla prima esecuzione moderna del 18 dicembre 2014 ad Amburgo questa prima incisione moderna vede Andrea Marcon alla guida de La Cetra, complesso svizzero specializzato nell’esecuzione di musiche del tempo. Direzione curata, luminosa, sostenuta nei tempi e brillante nei colori ma un po’ generica e superficiale; si sarebbe preferita una dinamica più variata con un maggior gioco di chiaroscuri anche se bisogna riconoscere che l’opera al riguardo non concede molto.
Un discorso simile vale per la compagnia di canto, composta da ottimi musicisti ben preparati e partecipi ma che non giungono a suscitare veri entusiasmi lasciando ancor più la sensazione che certe debolezze siano più della composizione che degli interpreti. Vocalmente l’elemento più debole pare il Giove di Ruxandra Donose mezzosoprano educato e pulito, molto musicale e con buona tecnica – i passaggi di coloratura sono ben svolti – ma con mezzi di partenza limitati, dal momento che la sua voce appare piccola e priva di quel carisma e di quell’autorità che il re dei Numi dovrebbe naturalmente avere.
Molto bravi i due controtenori: Carlos Mena è un Marte squillante e luminoso, autenticamente sopranile nel timbro chiaro e penetrante e ben contrastante con la calda voce di mezzosoprano di Franco Fagioli (Apollo) la cui robustezza timbrica mette ancor più in luce la fragilità della Donose e che nel suo caso si aggiunge ad un naturale temperamento da virtuoso che trasmette autentica e gioiosa partecipazione quando può scatenarsi in rapidi e insidiosi passaggi di colorature.
La Venere di Delphine Galou – unico personaggio cui sono affidate tre arie anziché le due canoniche – ha un bel timbro caldo e femminile che si confà alla madre dell’Amore ma è un po’ povera di squillo e dà l’impressione di una voce non troppo sonora. Il momento migliore è l’aria della Licenza con il medesimo titolo dell’opera di cui è colta bene la gioiosità un po’ ampollosa e celebrativa. Molto bravo il Mercurio di Daniel Behle, sicuramente uno dei migliori interpreti della corda tenorile nel repertorio barocco dal momento che è capace di essere agile e leggero pur mantenendo sempre un virile eroismo che evita eccessive svenevolezze. Intensa ed espressiva la Diana di Veronica Cangemi dal bel registro acuto che compensa qualche debolezza nei settori più bassi della voce e degna di nota è la prova di Luca Tittoto come Saturno che non solo conferma di avere una delle più belle voci di basso oggi sulla scena ma sfoggia notevole abilità nei passaggi di bravura e notevole sensibilità interpretativa.
Buona la prova del coro – per altro non impegnatissimo – ed incisione molto pulita per essere live. Resta l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera non così fondamentale per la conoscenza di Caldara e del suo mondo musicale.