Accademia Giuseppe Verdi – Stagione Lirica 2014/2015
“IL MATRIMONIO SEGRETO”
Dramma giocoso in due atti di Giovanni Bertati
Musica di Domenico Cimarosa
Sig. Geronimo PAOLO PECCHIOLI
Elisetta PAOLA CIGNA
Carolina PATRIZIA CIGNA
Fidalma MONICA MINARELLI
Conte Robinson MICHELE PIERLEONI
Paolino GIAMPAOLO FRANCONI
Orchestra da camera di Asolo
Direttore Roberto Zarpellon
Regia e scene Emiliana Paoli
Costumi Massimo Poli
Luci Sauro Frizzi
Casciana Terme, 8 novembre 2015
Meno di quarantotto ore dopo il Don Giovanni Tenorio, assistiamo ad un’altra opera con libretto di Giovanni Bertati, evento più unico che raro, se si considera che fra le settanta opere cui il poeta di Martellago collaborò, l’unica rimasta bene o male in repertorio è Il matrimonio segreto, a sua volta l’opera più celebre fra le sessantacinque musicate da Domenico Cimarosa. Il matrimonio segreto ebbe una prima a Vienna nel 1792 che definire trionfale sarebbe riduttivo: è ben noto infatti che l’imperatore Leopoldo II la apprezzò a tal punto che, dopo aver ordinato un’abbondante cena per gli artisti, li invitò a ripetere l’opera per intero, il bis più lungo della storia della musica, ed impresa oggi inconcepibile, se si considera che la prima durò più di tre ore a causa degli applausi e dei bis di arie e pezzi d’assieme. Il successo iniziale dell’opera fu in parte dovuto a un cast illustre, di cui l’unico nome ancor oggi ricordato è quello di Francesco Benucci, il basso che oltre al Conte Robinson, fu primo interprete delle Nozze di Figaro (protagonista), Così fan tutte (Guglielmo) e della versione viennese di Don Giovanni (Leporello). A differenza della stragrande maggioranza delle opere buffe settecentesche, Il matrimonio segreto rimase saldamente in repertorio per tutto l’Ottocento; sicuramente la ripresa più memorabile deve esser stata quella parigina del 1830 con il cast stellare composto da Luigi Lablache (Don Geronimo), Antonio Tamburini (Robinson), Giovan Battista Rubini (Paolino) e Maria Malibran (Carolina): possiamo solo immaginare gli abbellimenti apportati da questo formidabile quartetto, e scommettere che Rubini non si sarà certamente accontentato di salire ad un semplice si bemolle, la nota più acuta scritta in partitura per il suo ruolo.
Dopo due opere drammatiche fra le più strappalacrime (Madama Butterly e La traviata) l’Accademia G. Verdi di Casciana Terme ha terminato la stagione 2014/2015 con una bella e sana risata scegliendo proprio il capolavoro cimarosiano. I sei personaggi hanno più o meno la stessa importanza, e ciascuno ha almeno un’aria con cui ritagliarsi uno spazio personale, ma è indubbio che l’opera sia soprattutto un lavoro di squadra, un marchingegno ad orologeria in cui atteggiamenti da primadonna stonerebbero e pregiudicherebbero la riuscita dello spettacolo. Ciononostante è innegabile che la simpatia del pubblico ricada principalmente sul personaggio di Carolina, qui una Patrizia Cigna in forma strepitosa, in grado di mantenere una costante rotondità del suono nell’incessante martellare in alto di una tessitura piuttosto acuta. Carolina è una di quelle ragazze, che pur esibendo un lato intraprendente e ribelle, risente moltissimo della commedia larmoyante in gran voga nella seconda metà del Settecento, sulla scia della Cecchina di Piccinni e della Nina di Paisiello, carattere che Patrizia Cigna ha reso benissimo con emozionante patetismo soprattutto nel quintetto “Deh lasciate ch’io respiri”, momento che moveva alle lacrime Stendhal e che ha commosso anche il sottoscritto. Un piccolo colpo di genio è stato scritturare nella parte di Elisetta, la sorella “cattiva” di Carolina, Paola Cigna, gemella di Patrizia. Il timbro da soprano lirico leggero è ovviamente molto simile a quello della sorella, e tecnicamente non ha nulla da invidiarle: posseggono entrambe una fonazione d’alta scuola, ottima emissione sul fiato, capacità di prodursi in bellissimi filati, e persino un registro grave più sonoro di quanto non capiti ascoltare nella maggior parte delle colleghe di corda. Elisetta possiede l’unica aria virtuosistica della partitura, “Se son vendicata”, una vera e propria aria di opera seria in un contesto buffo, in cui Paola Cigna ha avuto la possibilità di sciorinare un’agilità ben sgranata in una tessitura centrale e quindi non comodissima. Monica Minarelli ha interpretato il ruolo della “cougar” Fidalma con grande verve comica senza farne una ridicola macchietta, come spesso avviene. Paolo Pecchioli (Don Geronimo), direttore artistico dell’Accademia, eccelle nei ruoli di buffo perché, unito ad indubbie doti istrioniche, porta ad essi un timbro da basso cantante, e quindi esente da parlati, borbottii e cachinni vari. Positiva anche la prova di Michele Pierleoni, baritono che trova in questo tipo di repertorio il proprio territorio elettivo. Il timbro chiarissimo di Giampaolo Franconi richiama alla memoria un tipo di tenore, quello di grazia, leggerissimo, vaporoso, un tenore peso piuma un tempo molto popolare ed oggi in via di estinzione. Non si può nascondere che la sua vocalità dimostri ancora diverse acerbità, ma si è fatto comunque valere per la freschezza ed ingenuità portate al personaggio di Paolino. Un’opera d’assieme come questa richiede un direttore in grado di tenere ben strette le redini ed al contempo far scorrere il tutto al passo ed al ritmo giusto. Roberto Zarpellon ha offerto una lettura raffinata, con particolare attenzione alla grande quantità di finezze contrappuntistiche e ai colori strumentali, il tutto espresso con ammirabili precisione e scioltezza. Ha messo in rilievo la vena melodica che sprizza da ogni poro della partitura senza indulgere nei manierismi che spesso piagano così tante esecuzioni mozartiane. Emiliana Paoli, regista e scenografa, ha fatto sapiente uso delle piccole dimensioni del palcoscenico creando una piattaforma rotante divisa in quattro parti, ciascuna rappresentante una stanza diversa dell’abitazione di Geronimo, attraverso le cui porte gli passano gli attori, spesso mentre è in movimento. Sarebbe superfluo passare in rassegna ogni singolo episodio: basti dire che, dal momento in cui durante la sinfonia le servette si fanno strada attraverso il pubblico in sala, spolverando e lustrando tutto quello che incontravano, incluse le pelate di qualche spettatore, non vi è stato un attimo di sosta. Ogni movimento era incatenato al successivo senza cesure: un ingranaggio ben oliato in cui la parte comica, amplificata dalle buffe e stravaganti parrucche, è forse prevalsa su quella patetica, chiave di lettura legittima e più che giustificata. Foto Danilo Franconi