Lucca, Teatro del Giglio: “Madama Butterfly”

Teatro del Giglio – Stagione Lirica 2015/2016
“MADAMA BUTTERFLY” 
Tragedia giapponese in due atti.Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa da John L. Long e David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-Cio San) MARIA LUIGIA BORSI
Suzuki  LORENA SCARLATA
Kate Pinkerton  ALESSANDRA MEOZZI
B.F. Pinkerton  LORENZO DECARO
Sharpless  MARCELLO ROSIELLO
Goro  TIZIANO BARONTINI
Il principe Yamadori – Yakusidé  ANTONIO PANNUNZIO
Lo zio Bonzo  JOHN PAUL HUCKLE
Il commissario imperiale RICCARDO FASSI
La madre  AURORA BRANCACCIO
La zia  FEDERICA NARDI
La cugina  ROSALBA MANCINI
Dolore  ARIANNA PENSA
Orchestra e Coro della Toscana
Direttore Valerio Galli
Maestro del coro Mauro Fabbri
Regia Sandro Pasqualetto
Scene Sandro Pasqualetto e Rosanna Monti, dal progetto di Christoph Wagenknecht per il centenario dell’opera
Disegno luci Marco Minghetti
Allestimento Teatro del Giglio di Lucca
Coproduzione Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Goldoni di Livorno, Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Comunale Pavarotti di Modena
in coproduzione con la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari
Lucca, 20 novembre 2015
Inizio di stagione non particolarmente felice per il Teatro del Giglio di Lucca, inaugurata da una Madama Butterfly che prestava il fianco a diverse frecce, fra cui, senza tanti giri di parole, quella più letale è stata la regia di Sandro Pasqualetto.  Le intenzioni del regista a nostro avviso erano principalmente due: quella di differenziare il mondo di Butterfly da quello di Pinkerton, come se vissero su due piani paralleli senza contatto, e quella, di per sé lodevolissima, di rimuovere gli innumerevoli strati di incrostazioni depositatisi in più di un secolo su quest’opera, facendo piazza pulita di quasi ogni “giapponeseria”, di tutti quei bamboleggiamenti, leziose mossettine, risatine e sorrisetti celati dietro ai ventagli che hanno spesso e volentieri stravolto e ridotto a una macchietta il personaggio principale; se il tentativo era quello di restituire piena dignità alla protagonista, Pasqualetto ha però calcato la mano nella direzione opposta, creando una Madama Butterfly in cui la protagonista e la sua domestica erano eccessivamente stilizzate.  Cio-Cio-San è stata quindi spogliata quasi completamente di ogni emozione, e se ai giorni nostri non è più concepibile una “piccina mogliettina” sdolcinata e diciamolo pure, nel primo atto oca giuliva, non convince neanche una Butterfly schematizzata, fredda, talora lievemente robotica.  Non convince perché Cio-Cio-San non appartiene allo stilizzato teatro giapponese, ma è la protagonista di un’opera lirica italiana, per lo più scritta da un compositore che aveva fra gli obiettivi principali quello di mirar dritto alla giugulare degli spettatori, di coinvolgerli emotivamente: in quattro anni di revisioni Puccini era riuscito ad ottenere una concentrazione di effetti su una singola figura tragica come mai aveva fatto in precedenza, il tutto in una partitura raffinatissima che esprime alla perfezione i vari stati d’animo dei personaggi e che si adatta all’azione drammatica come una seconda pelle.  Un paio di esempi saranno sufficienti ad illustrare questa assenza di pathos teatrale: all’inizio del secondo atto vediamo da subito Butterfly e Suzuki che giocano con il bambino, distruggendo così l’effetto “choc” della sua introduzione davanti al console; si può obiettare che ormai dell’esistenza del figlio lo sanno anche i sassi, ma di sicuro fra gli studenti che affollavano il loggione ci sarà stato qualcuno all’oscuro del fatto, e quindi per loro l’effetto sorpresa, fra l’altro ampiamente indicato dalla musica, sarà stato vanificato.  Oppure alla fine, in cui Butterfly non intona l’addio al figlio stringendolo disperatamente fra le braccia, poiché quest’ultimo, dopo aver fatto rotolare insieme a Suzuki da dietro le quinte una pallina verso la madre, quasi come per distrarla mentre si prepara al rito del suicidio, viene portato immediatamente fuori scena dalla fedele domestica; la scena della morte, protratta ben oltre il punto in cui Puccini inconfutabilmente segnala l’atto autodistruttivo, è stata quanto più di anticlimatico si potesse immaginare. Molto belli erano invece i costumi (non accreditati), così come gradevoli e sobrie apparivano le scene di Rosanna Monti e dello stesso Pasqualetto, basate sul progetto di Christoph Wagenknecht per il centenario dell’opera;  nella loro assoluta essenzialità riflettevano la concezione del regista, che ha oltretutto avuto forti ripercussioni sulle prestazioni scenico-vocali dei cantanti, ed in modo particolare di Maria Luigia Borsi, che “come una mosca prigioniera l’ali batteva”, stretta nella camicia di forza di tale impostazione del personaggio, che per di più si rifletteva anche nella resa puramente vocale: rimanere quasi immobile o muoversi a gesti stilizzati non invita un cantante a dar libero sgorgo alla fiumana di emozioni che il ruolo sollecita.  Da diverse passate precedenti interpretazioni di quest’opera sappiamo quanto commovente possa esser in quest’opera la Borsi, che solo un anno e mezzo fa a Genova ha portato il pubblico giù e su per interminabili montagne russe emotive, lasciandolo alla fine quasi spossato, cosa che qui non è avvenuta.  Certo, i pregi della vocalità del soprano toscano erano sempre in evidenza, con “Un bel dì vedremo” finemente cesellato,  ma sarebbe difficile avere un’idea di quanto possa comunicare in questo ruolo se si avesse esperienza soltanto di questa recita lucchese.  Il tenore Lorenzo Decaro pare aver adottato la tecnica dell’affondo laringeo che dà invariabilmente suoni forzati, duri, poco malleabili, acuti incerti e dall’intonazione sospetta; uno dei pochi pregi, se non l’unico, di questo metodo fonatorio è quello di produrre suoni potenti, o meglio stentorei, ma almeno in questo caso il volume era piuttosto scarso, e si è lasciato sopraffare dal soprano nel duetto del primo atto. Marcello Rosiello è stato uno Sharpless convincente e partecipe, sinceramente preoccupato delle sorti della giapponesina; il timbro, benché tutto sommato abbastanza ordinario, è tuttavia gradevole e l’emissione corretta, morbida e ricca di armonici.  Lorena Scarlata ha raffigurato una Suzuki giovane e fresca di timbro e di aspetto, ma la tessitura grave l’ha messa a disagio, ed intere frasi importanti, come nel terzetto “e volete che chieda ad una madre” sono andate perdute.  Molto buono il Goro di Tiziano Barontini, dal timbro ben più “importante” ed autorevole dei tenori che in genere interpretano questo ruolo.  Corretto Antonio Pannunzio nel doppio ruolo del Principe Yamadori e Yakusidé, così come la Kate Pinkerton di Alessandra Meozzi, mentre John Paul Huckle (lo zio Bonzo) è entrato in scena con un vistoso incidente di percorso sul fa naturale acuto di “Abbominazione”!  Completavano il cast Riccardo Fassi (il Commissario imperiale), Aurora Brancaccio (la madre), Federica Nardi (la zia), Rosalba Mancini (la cugina) e la piccola Arianna Pensa nel ruolo muto di “Dolore”.  Sempre segno di garanzia sono il Coro e l’Orchestra della Toscana, il primo sotto la guida da Mauro Fabbri, la seconda di Valerio Galli, direttore che benché giovane, ha già affrontato questa partitura in numerose occasione, molte delle quali da me recensite sempre positivamente, per cui, considerando che la sua visione dell’opera non sembra esser cambiata molto, non posso che riassumere ciò che avevo scritto in passato: Galli ottiene dall’orchestra suoni di un’ampia gamma di colori e di pesi specifici, ed usa i contrasti dinamici a scopo narrativo.  A partire dall’introduzione iniziale con quei fugati nervosi, quasi originati e percorsi da scariche elettriche, ha offerto ancora una volta una lettura certamente serrata, soprattutto nel primo atto, con attacchi ben precisi e lucidi, ma soprattutto carica di passione, di partecipazione emotiva nei confronti della sua sventurata eroina, e come ho già avuto modo di osservare, il calore con cui la avvolge è sempre percorso da una tensione minacciosa e incessante, calore che almeno nel suo caso ha avuto la meglio sul calmo gelo che regnava in palcoscenico. E dato il calore (o la sua assenza) nella varie gradazioni è stato il tema della recensione, posso concludere dicendo che piuttosto freddino (o tiepido, a seconda dei punti di vista) si è dimostrato anche il pubblico, almeno durante la rappresentazione, riscaldandosi soltanto alle chiamate soprattutto nei confronti di direttore e protagonista. Photo credit Lorenzo Breschi