Opéra national de Paris, “Moses und Aron”

Opéra national de Paris, Stagione 2015-2016
“MOSES UND ARON”
Opera in due atti (1954)
Musica e libretto di Arnold Schönberg
Moses THOMAS JOHANNES MAYER
Aron JOHN GRAHAM-HALL
Una fanciulla JULIE DAVIES
Donna malata CATHERINE WYN-ROGERS
Un giovane NICKY SPENCE
Il giovane nudo MICHAEL PFLUMM
Un uomo CHAE WOOK LIM
Un altro uomo, Ephraim CHRISTOPHER PURVES
Un sacerdote RALF LUKAS
Orchestra e Coro dell’Opéra de Paris
Direttore Philippe Jordan
Maestro del Coro José Luis Basso
Regia, Scene, Costumi e Luci Romeo Castellucci
Coreografie Cindy Van Acker
Parigi, 3 Novembre 2015

La stagione operistica dell’Opéra de Paris si è aperta quest’anno con il Moses und Aron di Arnold Schoenberg, capolavoro incompiuto del ‘900, regia affidata al nostrano Romeo Castellucci, purtroppo di più chiara fama in Francia che in Italia (l’anno scorso il Festival d’Automne gli ha dedicato la retrospettiva). Un esempio attualissimo di quando l’opera parla al mondo contemporaneo, portando alla ribalta temi universali, proprio nella capitale squarciata dagli attentati di gennaio 2015. Quello che regala Castellucci è un lavoro di portata epica e, chi segue l’artista, può facilmente ricondurne alcuni tasselli a precedenti spettacoli, forse i passaggi obbligatori per giungere a questo trionfo scenico di eccezionale profondità tematica. Del recente Go Down Moses, ad esempio, non ritroviamo solo i temi ma anche alcuni espedienti tecnici come il velatino che separa il proscenio da resto del palco fin dal primo atto. Lo stesso velo che nel Moses ci separava dalla caverna dei primitivi, culla della prima necessità di rappresentazione grafica, all’Opéra Bastille offusca e mitiga l’altrimenti accecante bianco di uno sconfinato deserto. E’ in questa cornice che avviene l’esodo del popolo ebraico verso la terra promessa narrato nel II e IV libro della Bibbia. Un registratore a bobine che scende dall’alto dà il via alla narrazione, Mosè parla cantando grazie all’arguzia dello Spechgesang sperimentato da Schomberg insieme alla dodecafonia, espediente che vivifica l’inadeguatezza e l’indugio del protagonista di fronte ad un incarico gravoso e a priori irrisolvibile. Thomas Johannes Mayer è un interprete oppresso da un dissidio che lo accompagna senza risoluzione, è la guida del popolo ebraico in esodo, è l’uomo contemporaneo, è l’anima dello Schoemberg che ci racconta la letteratura. Come trasmettere al suo popolo l’esistenza di un unico Dio “invisibile, incommensurabile, infinito,eterno, onnipresente, potente”? Mosè possiede solo l’idea, la legge del pensiero. Dio concede al fratello Aronne, un John Graham Hall convincente sia in vocalità che nei movimenti, la facoltà di spiegare a parole, di essere la bocca attraverso cui la parlerà la voce della verità. Il linguaggio, mezzo con cui mitiga l’incredulità del popolo, è però destinato ad essere solo un canale di impoverimento dell’idea divina.
Proiettate a ritmo crescente sul fondale saturato sono infatti le parole, prima quelle chiave del libro dell’esodo (fratello, terra orizzonte, popolo, fiamma, deserto) poi concitati ambiti lessicali che affollano la nostra contemporaneità ad un ritmo sempre più ossessivo. Il troppo che diventa aridità di stimoli nel deserto mediatico della nostra quotidianità, schiavitù invisibile in cui tutti siamo caduti. Il popolo compare avvolto da una nebbia densa in tute e mantelli bianchi, alla parola sacrificio, le tuniche si aprono come squarci e per un attimo il fondale è rosso, un istante che sembra un’allucinazione per poi tornare al vuoto avvolgente del deserto.
I tre miracoli annunciati dal bastone che Aronne usa per incitare il popolo a seguirlo sembrano una consuetudine tecnologica dei nostri giorni. E’ all’interno di un cilindro trasparente che l’acqua del Nilo diventa magicamente sangue di un nero inchiostro. Il miracolo si compie in una livella del futuro o anche in un megatubo refrigerante da laboratorio, grazie all’azione meccanica di due tecnici in tute bianche anticontaminazione. Il finale del primo atto è uno sconvolgimento della scena in cui sembra aprirsi una cornice come varco, anime nude si muovono in un richiamo all’iconografia barocca, immediatamente risucchiate dallo spazio, salvo una. Una donna nuda dai lunghi capelli scivola dalla cornice e viene inglobata al centro della scena. Si alza il velatino e si preparano le scene per l’atto successivo in un count down che dura 40 secondi, come i giorni trascorsi da Mosè sul monte Sinai. L’interludio è una danza di forme che si incastrano coreografata plasticamente da Cindy van Hacker, mentre avanza il malcontento del popolo che rivendica i propri idoli, un coro impeccabile diretto da Josè Luis Basso. Intanto sul retro il vitello d’oro, che all’inizio si era palesato a Mosè come in un presagio, è libero. E’ un toro in carne ed ossa che passeggia scortato da due figure ammaestratrici; genererebbe qualche perplessità animalista anche ai non ostinati se la potenza comunicativa di quell’immagine non avesse ridotto tutti gli spettatori in uno stato ipnotico.
Ancora bianco è il colore del fondale, degli abiti, della purezza che contrasta col sangue, che per Castellucci è inchiostro nero da imbrattare sul corpo in un rito iniziatico. Degli invalidi danzano palesando la loro infermità solo al momento degli inchini, il sacrificio è un suicidio nella piscina rettangolare al centro del palco da cui si entra immacolati e si esce inverniciati. L’omaggio agli idoli è un profluvio di liquido nero che si propaga di personaggio in personaggio senza risparmiare alcuno, in un marasma orgiastico estremamente ordinato. Vediamo il monte Sinai innevato sullo sfondo dietro cui si dissolve il popolo, delle figure scalano la montagna mentre Mosè torna sconfitto, rovescia l’oro colato dalle corna del toro e realizza l’incomunicabilità di un messaggio che il popolo non può figurarsi, costretto dalla necessità del tangibile e della rappresentazione. La sua indignazione è interdetta dalle parole di Aronne, anche le tavole della legge non sono altro che l’ennesima forma per rappresentare l’intangibile. Cadono dei teli a ricoprire la montagna e ne disegnano la sagoma, si ritorna al punto zero di un deserto sotto il cielo stellato, il vuoto che è l’unica risposta possibile e l’unico luogo di rivelazione. “Niente è stato fondato, tutto è vano, confuso, restiamo nel deserto aspettando un altro segnale che ci dia l’impulso per prendere un nuovo cammino. Il deserto è il simbolo naturale del linguaggio che imprigiona” spiega Castellucci nel libretto di sala, ma non ci sarebbe neanche bisogno di spiegare perché tutto è racchiuso nell’insoluta conclusione disperata: Mosè fa capolino dal velo che di nuovo riveste il palco e in ginocchio intona le ultime battute: “O Worth, du Worth…”. L’epilogo è una standing ovation per tutti gli artisti, in particolare per il direttore d’orchestra Philippe Jordan; una guida precisa che disegna attraverso l’orchestra dell’Opéra de Paris una narrazione universale, drammatica e tormentata, la cui rivelazione è favorita dalla singolarità del mezzo dodecafonico. Ph. Bernd Uhlig