Pisa, Teatro Verdi: “Il convitato di pietra”

Teatro Verdi – Stagione Lirica 2015/2016
Ciclo “Una gigantesca follia” – Dongiovanni Festival
“IL CONVITATO DI PIETRA”
Farsa o operetta in due atti.  Libretto attribuito a Gaetano Barbieri
Musica di Giovanni Pacini 
Edizione critica a cura di Jeremy Commons e Daniele Ferrari
Prima rappresentazione italiana assoluta in tempi moderni
Don Giovanni  MASSIMILIANO SILVESTRI
Donn’Anna  SANDRA BUONGRAZIO
Zerlina  GIULIA DE BLASIS
Masetto  DANIELE CUSARI
Duca Ottavio  ROBERTO CRESCA
Il Commendatore  SINAN YAN
Ficcanaso  CARLO TORRIANI
Orchestra Arché
Coro Laboratorio Lirico San Nicola
Direttore Daniele Ferrari
Maestro del coro  Stefano Barandoni
Regia  Lorenzo Maria Mucci
Coordinamento scenografico  Giacomo Callari, Enrico Spizzichino
Disegno luci  Michele Della Mea
Coproduzione del Teatro di Pisa e del Teatro del Giglio di Lucca
Pisa, 21 novembre 2015 
Per quanto fosse nato solo quattro anni dopo Rossini, Giovanni Pacini (1796) non fu del Pesarese diretto competitore, in quanto la sua fama conobbe il picco quando ormai Rossini aveva abbandonato il campo italiano; anzi, Pacini trasse enorme beneficio dall’esilio rossiniano, poiché Barbaja, alla ricerca di qualcuno che potesse sostituirlo, scommesse tutto o quasi sul talento del giovane emergente, cui offerse un contratto per nove anni in tutto simile a quello con cui aveva attratto Rossini nel 1815.  Ciò catapultò Pacini per alcuni anni, non più di tre o quattro in verità, ai vertici del mondo lirico italiano; conobbe il momento di massima gloria a metà degli anni ’20 grazie ad opere che riscossero un successo enorme come Alessandro nelle Indie (1824) e soprattutto, l’anno successivo, L’ultimo giorno di Pompei, entrambe scritte per il San Carlo di Napoli.  Bellini non aveva ancora debuttato,  Mercadante, dopo i successi di Elisa e Claudio (Milano,1821) e Caritea, regina di Spagna (Venezia, 1826) si era auto-esiliato per alcuni anni in Spagna, e Donizetti stava ancora scontando quella specie di purgatorio in cui venne relegato per tutti gli anni ’20, fra fiaschi e moderati successi in attesa della definitiva affermazione all’inizio del decennio successivo.  In questo panorama era naturale che Pacini venisse visto da molti, Barbaja incluso, come il vero erede di Rossini.  Ed invece Il pirata prima, e Anna Bolena poi cambiarono le carte in tavole, e Pacini, incassata una tripletta di sonori fiaschi nel 1833, iniziò a sentirsi superato; dopo un’altra umiliazione con Carlo di Borgogna nel 1835, il compositore si ritirò dalle scene per cinque anni, a leccarsi le ferite e a rimuginare su che cosa fosse andato storto e come poter rimediare.  Carli Ballola riassume in poche parole questo problema: anche Pacini sostanzialmente “dovette fare i conti con quella crisi che esplose all’interno del sistema morfologico e drammatico che Rossini aveva codificato e che era giunto al pieno della saturazione stilistica”; e del resto in un simile disagio si era ritrovato anche Mercadante prima della sua nota “riforma”.  Pacini ritornò nel 1839 con Furio Camillo e soprattutto l’anno dopo con Saffo, da sempre ritenuto il suo capolavoro, e riacquistò il favore del pubblico ma, nonostante componesse negli anni seguenti altre opere di squisita fattura come Medea e Maria d’Inghilterra, c’era ormai Verdi che bussava alle porte: Pacini continuò a scrivere fino all’anno della sua morte (1867), incassando anche alcuni discreti successi ma venendo sempre più considerato una specie di dinosauro vivente.  Ho ritenuto di dover in poche frasi riassumere l’attività di Pacini per poter inserire in un contesto storico Il convitato di pietra, appena andato in scena al Teatro Verdi di Pisa.  Come scrive il compositore stesso nelle sue memorie, pubblicate due anni prima della sua morte e ricche di candide confessioni in cui dimostra di esser stato sempre a conoscenza dei suoi pregi ma anche dei suoi limiti, Il convitato di pietra non fu frutto di commissione alcuna: si tratta infatti di una farsa, o meglio operetta come la definisce l’autore, composta per esser rappresentata in famiglia, nella casa viareggina della sorella Claudia.  Pacini era infatti nato a per puro caso Catania da una famiglia toscana (di Popiglio) di cantanti lirici fra cui il più celebre era stato il padre Luigi, che dopo una breve carriera come tenore, era passato con successo alla corda di basso buffo, creando fra l’altro il ruolo di Don Geronio nel Turco in Italia di Rossini.  A lui venne assegnato il ruolo di Ficcanaso (così veniva in genere ribattezzato Leporello nelle esecuzioni italiane dell’opera di Mozart), mentre al fratello Francesco (cantante dilettante e politico di professione) quello del protagonista; la cognata, contralto, vestì i panni di di Donna Anna e la sorella quelli della primadonna Zerlina, personaggio che incorpora  anche quello di Donna Elvira, facendone una contadinotta ben più sveglia e calcolatrice dell’omonima mozartiana.  Masetto venne interpretato da un nobiluomo del posto,  e Don Ottavio da un giovane allievo di Pacini.  Il libretto, attribuito a Gaetano Barbieri, è fortemente ispirato a quello dapontiano, con intere frasi riportate per intero o quasi.  Manca il finaletto morale, che del resto all’epoca veniva già espunto dall’opera mozartiana, facendola romanticamente terminare con la terribile scena della morte del protagonista. L’orchestrazione è cameristica, con archi, un paio di flauti e un ottavino, ma la scrittura vocale, soprattutto per Don Giovanni e Zerlina, è da autentici virtuosi: a quanto pare persino cantanti non professionisti all’epoca potevano emulare i vari David e Rubini.  Quando venne presentata per la prima volta in epoca moderna al XX Rossini Festival in Bad Wildbad nel 2008, il consenso generale fu che si trattasse di un’operina senza tante pretese fortemente indebitata a Rossini e ai momenti meno ispirati di Bellini e Donizetti.  Nessuno inneggerà al capolavoro ritrovato; è un’opera stracolma degli stilemi del tempo e mi è effettivamente parso di riconoscere nel finale atto primo alcune cellule melodiche del celeberrimo unisono dei Capuleti e i Montecchi.  Ma si tratta di un’opera godibilissima, con alcuni pezzi di squisita fattura, come il quintetto, e il lungo duetto di Zerlina e Masetto. I due brani più ardui dell’opera, la “Serenata” di Don Giovanni e “Sento brillarmi in core” di Zerlina, posizionata subito prima della scena finale, sono autoimprestiti, il primo dei quali risalente addirittura al 1815.  Per finire, Il convitato di pietra, è esempio rarissimo di lavoro musicale italiano in cui i recitativi sono sostituiti da parlati.  Si è ampiamente intuito da questa pur sommaria descrizione che la vera difficoltà di quest’opera risiede nel trovare un tenore quanto meno adeguato.  Il ruolo di Don Giovanni richiede un tenore contraltino che oltre a veleggiare leggiadramente fra acuti e sovracuti per la maggior parte dell’opera e cantare a fior di labbra nella “Serenata”, sia in grado di martellare con potenza e disperazione sugli infiniti la naturali e si bemolle acuti nella scena del trascinamento agli inferi.  Massimiliano Silvestri, spiace dirlo, non si è dimostrato all’altezza della situazione: è doveroso riconoscergli la lodevole intenzione di emettere il registro acuto in un filologico falsettone, ma davvero troppi sono stati i suoni sgradevoli e fievoli, ragion per cui preferirei non eviscerare la sua prova in minuziosi dettagli; bisogna però sottolineare che, chiamato a sostituire un collega con non largo anticipo, ha avuto poco tempo per preparare un ruolo tanto impegnativo. Avevo già intuito le doti di Giulia De Blasis (Zerlina) due settimane fa nell’assai meno onerosa parte di Maturina nel Don Giovanni di Gazzaniga; qui alle prese con un ruolo da vera virtuosa, ha messo in luce nel registro centrale un timbro ben più caldo di quello delle solite soubrettine ed un registro grave ben udibile; le agilità sono discretamente sgranate, accettabili i trilli e gli acuti piuttosto buoni anche se alcuni avrebbero beneficiato di maggior morbidezza e rotondità.  Le escursioni verso l’alto sono davvero tante e scomode: solo nel rondò del secondo atto (che Mariella Devia incluse in almeno un concerto più di vent’anni fa) ci sono due serie di cinque do consecutivi, oltre ad altri isolati qua e là sempre all’interno dello stesso pezzo chiuso.  Ci troviamo di fronte quindi a un giovane soprano che, dotata per altro di aspetto molto gradevole e di spontaneità scenica, una volta limate alcune imperfezioni di non poco conto, parrebbe possedere tutte le carte in regola per proseguire nella difficile scalata verso la cima.  Davvero buona anche la prova di Carlo Torriani, che con timbro vibrante e rotondo ha fatto ricorso a tutto l’armamentario del basso buffo inclusi sillabati nitidi e intonati; quella di Ficcanaso è una parte dalla tessitura significativamente più alta del comune buffo, e Torriani l’ha sostenuta senza cedimenti.  Sandra Buongrazio (Donna Anna) ha una voce da vero contralto, dal timbro ambrato e caldo, anche se non ha inquadrato perfettamente la sua bella aria “Care sponde, che pietose”, esibendo alcuni sbandi d’intonazione.  Roberto Cresca (Duca Ottavio) e Daniele Cusari (Masetto) hanno parzialmente riscattato una vocalità non proprio rifinita il primo con una bella presenza e portamento aristocratico, e il secondo con una vis comica di prim’ordine.  Le poche frasi riservate al Commendatore sono bastate a suscitare il mio interesse per la voce di Sinan Yan, che pare essere un autentico basso dall’emissione morbida e granitica al contempo, ben proiettata, mascherata ed estesa; sarebbe interessante ascoltarlo in qualcosa di più impegnativo.  Encomiabile il seppur limitato contributo del Coro Laboratorio Lirico San Nicola diretto da Stefano Barandoni, così come garanzia di eccellenza è l’Orchestra Arché, alla cui guida era Daniele Ferrari, che nel 2008 ha diretto quest’opera in prima esecuzione moderna (e pubblica, dato che nel 1832 si era data solo “in famiglia”) dopo averne curato l’edizione critica con Jeremy Commons, presentandola adesso in prima italiana.  Rispetto all’incisione tratta da quelle recite tedesche, l’esecuzione pisana è parsa ancora più brillante, spumeggiante, percorsa da un ritmo irrefrenabile, ma anche patetica, come all’inizio dell’aria di Donna Anna, leggerissima come nella “Serenata”, e cupa e misteriosa come nella suggestiva introduzione orchestrale alla scena dell’incontro fra Don Giovanni e la statua del Commendatore, dominata da un minaccioso continuo dei contrabbassi. Lorenzo Maria Mucci ha curato un allestimento che, quantunque molto piacevole, liscio e scorrevole, ha saputo meno dei due precedenti far uso ottimale dei pochi mezzi a disposizione: l’elemento predominante erano proiezioni in bianco e nero sul fondo della scena, di solito primi piani di oggetti o più spesso dei personaggi, filmati in precedenza, che ne esprimevano i vari stati d’animo. Si conclude così il ciclo “dongiovannesco”, un’avventura credo senza precedenti in Italia, che come ho detto altre volte ha coinvolto musica, prosa, balletto e il mondo accademico con tanto di conferenze volte ad affrontare ogni piega di uno dei più grandi e longevi miti della cultura occidentale.  Il Teatro Verdi di Pisa ha perfettamente capito che per ritagliarsi uno spazio ben definito e suscitare interesse nel mondo culturale, oltre a presentare i soliti titoli di cassetta, è necessario investire anche in opere sconosciute, che magari sono uscite dal repertorio per motivi che nulla hanno a che fare con il loro intrinseco valore.  Ma l’attesa non sarà lunga: a breve si ricomincia con un altro über-mito, quello faustiano.Photo credit: Massimo D’Amato