“Aida” al Teatro Comunale di Sassari

Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2015
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re VICTOR GARCÌA SIERRA
Amneris SILVIA BELTRAMI
Aida CELLIA COSTEA
Radames DARIO DI VIETRI
Ramfis ABRAMO ROSALEN
Amonasro IVAN INVERARDI
Un Messaggero NESTOR LOSAN
Sacerdotessa SARA ROSSINI
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Sergio Alapont
Maestro del coro Antonio Costa
Regia e scene  Franco Zeffirelli, ripresa da Stefano Trespidi
Disegno luci Lorenzo Caproli
Allestimento dell’Associazione Musicale Suoni del Sud – Foggia
Sassari, 27 novembre 2015     
Dopo la contrastata accoglienza per le prime due opere del cartellone, la stagione lirica organizzata a Sassari dall’Ente Concerti Marialisa de Carolis è proseguita il 7 e 8 novembre con Lo Schiaccianoci di Tchaikovskij; il pubblico non ha proprio apprezzato la novità del balletto con le basi registrate e la rilettura attualizzata di Mario Piazza, contestando anche l’ironica interpretazione “en travesti” di Andrè De La Roche nel ruolo di Fata Confetto. C’era quindi la speranza che Aida, ultimo allestimento teatrale della stagione, soddisfacesse le attese del pubblico del nuovo Teatro Comunale.  In effetti il titolo verdiano è stato allestito in maniera più che dignitosa, ricevendo sicuramente una buona accoglienza.
Le attese, oltre che per la popolarità dell’opera, erano dovute soprattutto alla rarità dell’allestimento sui palcoscenici isolani. In particolare per Sassari, a parte qualche balbettio di fine ‘800, si ricorda l’unico precedente della storica edizione nel 1979 al Teatro Verdi. A questo proposito i lettori perdoneranno il ricordo di chi vi scrive che, studentello del Conservatorio, ebbe il suo battesimo nel mondo dell’opera proprio con quell’Aida, cantando tra i bassi secondi dei sacerdoti. Fu un grande evento per la città che fece registrare il tutto esaurito nelle quattro repliche, prodotto con criteri in pratica opposti a quelli odierni: la messa in scena, quasi fissa e di poche pretese per ragioni di spazio, era arrangiata con costumi e un paio di sfingi areniane, col mestiere del buon Beppe de Tomasi a dirigere il tutto. Invece piuttosto curata la produzione musicale: il cast annoverava come protagonisti tre glorie in piena maturità come Ilva Ligabue, Claudia Parada e il grande Pedro Lavirgen che, beccato il giorno della prima da uno spettatore per un’incrinatura del si bemolle finale in Celeste Aida, uscì furibondo dalla scena e si riscattò poi con una prestazione straordinaria nel resto dell’opera. Il direttore era un autorevole e giovanissimo Roberto Abbado che, ritrovato un paio di anni fa, ricorda ancora con precisione e piacere quell’esperienza da quasi esordiente.
Trentasei anni dopo invece l’allestimento dell’opera ha puntato tutto su un gran nome registico, anzi il Nome per eccellenza delle messe in scena egizie: Franco Zeffirelli, che in questo caso ha però firmato l’Aida meno “zeffirelliana” del suo repertorio. Si tratta infatti del progetto scenico – televisivo per il minuscolo teatrino di Busseto in occasione del centenario verdiano nel 2001. Un’affascinante utopia: depurare Aida di piramidi ed elefanti ficcandola in un palcoscenico sotto i cento metri quadrati per un pubblico di meno di trecento spettatori. L’operazione ebbe un’ampia eco mediatica e ottime riprese televisive che la fecero conoscere al grande pubblico, sfruttando la perfetta compatibilità col piccolo schermo che ne acuiva i dettagli, aggiustava le prospettive e limava nell’audio gli inevitabili compromessi esecutivi. Adattato per palcoscenici standard, l’allestimento in questi anni è stato ripreso varie volte ed è approdato al Teatro Comunale di Sassari suscitando più di un interrogativo. Ha un senso riprendere in una grande struttura moderna una messa in scena per un piccolo e antico teatro all’italiana? È efficace l’Aida intimista progettata dal regista anche in un luogo così differente da quello originario? Come funziona dal punto di vista musicale l’operazione? Le risposte sono varie e complesse. Prima di tutto la più ovvia: un progetto così particolare, e per certi versi provocatorio, “normalizzato” in un teatro moderno è sicuramente godibile ma, inevitabilmente, perde proprio la sua straordinarietà che lo rende così unico e interessante. In secondo luogo va detta una cosa meno ovvia ma comunque evidente: Aida fondamentalmente, eliminata la scena del trionfo (qui risolto genialmente con un’immaginaria sfilata lontana, evocata dai saluti degli astanti ma invisibile agli spettatori) è un’opera intimista e statica. Vi si parla soprattutto di amore, di sentimenti sottili e profondamente umani: la battaglia con l’elemento storico-etnico è uno sfondo fondamentalmente raccontato, simile alla drammaturgia del teatro greco classico, dove l’azione, specialmente se violenta, non è quasi mai rappresentata. Tirate le somme certe cose funzionano e altre meno; l’effetto, per chi conosce l’allestimento originario, dal vivo è per certi versi opposto: una scenografia fatta per dilatare gli spazi di un piccolo teatro finisce per restringere quelli di un grande auditorium. Il risultato è efficace per esempio nella claustrofobica scena finale del sepolcro, ma in linea di massima il ritagliare il piccolo spazio originale nel palcoscenico moderno toglie sicuramente prospettiva e ariosità. In particolare la scena di Amneris con le ancelle nel secondo atto appariva come un affollato teatrino isolato, lontano dalla logica degli altri quadri. L’altro problema è stato il conseguente riempimento dello spazio che ha determinato anche delle conseguenze nell’equilibrio musicale, di cui si parlerà più avanti. Tutte le originali soluzioni per creare logiche di movimento e gesto, su un palcoscenico ampio perdevano senso e forza drammatica, lasciando una generale sensazione di staticità. In ogni caso era ammirevole la scenografia, dalla simbologia curata e tradizionale, con efficaci tagli di luce di Lorenzo Caproli. Anche la regia, ripresa da Stefano Trespidi, è apparsa nel complesso legata alle convenzioni teatrali del melodramma, con alcune finezze di gestualità espressiva composta e contenuta, quasi cinematografica, che non erano però molto apprezzabili negli spazi ampi del Comunale. Emergevano poi, apparentemente per una certa acerbità degli interpreti, alcune incongruenze che davano talvolta rigidità alla recitazione. Un esempio per tutti: il terzetto della scena iniziale tra Radames, Amneris e Aida, fondamentale per la finezza psicologica nel presentare i personaggi, avrebbe richiesto una cura maggiore nel passaggio dal discorso diretto alla riflessione personale e collettiva; è evidente per esempio che Radames non può rispondere ad Amneris e continuare riflettendo tra se e se con lo stesso tono e postura, rivolgendosi sempre a lei. Comunque si tratta di un allestimento storico e interessante: è stata furba ma non del tutto felice la scelta di utilizzarlo nel nuovo teatro. Il direttore Sergio Alapont è riuscito nell’impresa di assemblare abbastanza bene, con pochissime prove a disposizione, un’opera così complessa, anche se non tra le più difficili del repertorio italiano. Scarti, codette e ritardi si sentivano certamente tra buca e palcoscenico nelle scene d’insieme; ma dopo il disastro dell’Elisabetta e le incertezze del Don Giovanni almeno si andava in linea di massima a tempo. La sua concertazione ha badato al sodo: colori contrastati e a tinte forti, agogiche prudenti e poche sfumature. Hanno funzionato bene varie scene collettive mentre si sentiva la necessità di un altro approfondimento nei momenti dall’orchestrazione più raffinata, come l’inizio del terzo atto e, soprattutto, la bellissima scena finale che nel complesso è stata un po’ tirata via, anche per colpa degli interpreti. L’orchestra l’ha assecondato con una buona espressione naturale negli archi e qualche inciampo di prammatica con le famigerate trombe egizie, mentre il colore generale è apparso adeguato e ben calibrato nonostante qualche ottava degli strumentini che poteva essere più curata nell’intonazione. Vigorosi, talvolta anche troppo nella circostanza particolare, gli ottoni, comprensibilmente contenti di suonare un po’ più delle solite due note. Appare francamente ingiustificabile la scelta di tagliare il fugato dei sacerdoti nella scena del trionfo: per risparmiare una ventina di battute? Per evitare una doppia cadenza quasi uguale? È l’unica parte corale dell’opera che Verdi, palesemente soddisfatto per il risultato tecnico, cita ironicamente nelle sue lettere ma, soprattutto, altera l’uso evidente del live motive che il compositore inizia a utilizzare proprio da Aida. L’elemento tematico dei sacerdoti infatti è presente nel preludio iniziale e poi si sentirà alla fine, nella scena del giudizio dove sono protagonisti; il pezzo tagliato è proprio l’unico nel quale il coro intona il tema in questione. Eliminandolo si altera in sostanza l’equilibrio formale dell’idea compositiva. Un vero peccato, anche per l’ottima prestazione del Coro dell’Ente che, preparato coscienziosamente da Antonio Costa, avrebbe ben figurato in una parte ideale per le sue qualità. L’opera si adatta perfettamente all’impostazione del coro che ha sfoggiato un buon colore e una discreta fusione in vari momenti, non disgiunti da un carattere sicuramente aderente alle varie situazioni drammaturgiche. Assai ben realizzata la scena della consacrazione nel primo atto dove la sezione maschile, ottimamente guidata dal direttore, ha ottenuto un colore sul pianissimo veramente eccellente. Sulle sonorità più robuste, specialmente nelle donne, l’omogeneità non è altrettanto buona ma, va detto, soprattutto per la scarsa consistenza dell’organico. Qui sta l’altro problema dell’allestimento scenico ridotto: Il numero dei coristi, cinquantacinque, era chiaramente insufficiente, anche perché l’orchestra non è stata ridotta in proporzione. Qualche numero: per Elisabetta regina d’Inghilterra, opera di apertura di questa stagione, il coro era generosamente composto da quarantacinque elementi; gli uomini erano ventidue, divisi fondamentalmente a tre parti. Basta saper appena leggere una partitura per accorgersi che in Aida gli uomini sono divisi in tre cori, sacerdoti, popolo e prigionieri per un totale fondamentalmente di otto parti reali. È ovvio che, con una media di soli quattro elementi per batteria, i trentadue nella scena del trionfo si trovino facilmente a mal partito con certe sonorità degli ottoni fatte per un numero almeno doppio di coristi, specialmente i tenori, la batteria complessivamente più debole. La prima esecuzione al Cairo fu fatta con un coro di un centinaio di persone, nonostante il Teatro Khediviale fosse ampio poco più della metà dell’auditorium sassarese. La prima alla Scala fu fatta con centoventi coristi ed esiste una lettera di Verdi furibondo che, per la ripresa romana dell’opera, giudica assolutamente insufficienti i cento elementi reclutati dalla produzione. Non è solo un problema di volume: la scrittura di Aida, è noto, s’intreccia strettamente con la coeva Messa da Requiem in cui sono comuni gli autoimprestiti, la concezione sonora, la scrittura, l’orchestrazione e persino le interpreti delle edizioni italiane. Verdi all’epoca studiava appassionatamente la scrittura policorale antica, di cui vediamo chiaramente l’influenza nel Sanctus a doppio coro della Messa e nel grande affresco del trionfo in Aida: i rapporti sonori sono quelli. Chiaro che poi si compensa col solito espediente di far saltabeccare alcuni coristi da una parte all’altra per reggere la sonorità delle entrate, ma l’effetto non ha la necessaria definizione e imponenza. Se poi si aggiunge che stiamo parlando di un coro amatoriale appare particolarmente discutibile la scelta della produzione di non destinare un maggior numero di coristi per l’occasione.
I tre giovani interpreti principali possono in qualche modo essere accumunati in un giudizio unico: buone qualità ma alle prese con personaggi tremendamente fissati nell’immaginario collettivo da figure ormai storiche della tradizione esecutiva. In parole povere hanno mostrato nel complesso una sostanziale acerbità vocale o interpretativa, ma anche la possibilità di una promettente evoluzione professionale. Con sfumature diverse. Cellia Costea, nel ruolo del titolo, mostra una vocalità ampia, brunita, un po’ contraffatta nei centri con alcune vocali; svetta facilmente nell’ottava acuta con le sonorità più importanti ma non riesce a filare bene i suoni nei momenti più lirici e di maggiore abbandono, come il la di O patria mia o il finale ultimo, dove un vibrato sempre più ampio, forse dovuto alla stanchezza, finisce anche per inficiare l’intonazione di alcune note tenute. Acerba anche la recitazione, limitata a poche posture convenzionali e senza le finezze che, specialmente nella prima parte, sarebbe stato lecito aspettarsi. Comunque una prestazione nel complesso più che accettabile, soprattutto per la capacità vocale di tradurre con spontaneità e immediatezza il carattere di una delle parti più complesse, da questo punto di vista, del repertorio verdiano. Anche il Radamès di Dario Di Vietri ha voce bella ed empatica, con uno squillo importante e sicuro negli acuti. Evidente il passaggio tra centri abbastanza aperti e i medio – acuti molto “girati” e coperti, con una tecnica piuttosto essenziale, ma comunque efficace, che garantisce un effetto sicuro ma non consente finezze dinamiche o un controllo preciso delle note di passaggio. Esce indenne dallo scoglio iniziale di Celeste Aida, ma le dinamiche sono approssimative (va detto comunque che nessuno fa quello che c’è scritto…) e il si bemolle finale lo fa prudentemente durare la metà del minimo sindacale, per non parlare della smorzatura che nemmeno tenta. Veramente efficace invece per i suoi mezzi Sacerdote, io resto a te mentre il finale manca del necessario lirismo e dell’espressione fondamentale nella scena in cui l’autore aveva riposto maggior cura. Anche la recitazione non ha grandi finezze ma rispetto ad Aida il suo personaggio, che richiede meno chiaroscuri, finisce per essere più definito e complessivamente meglio realizzato. Praticamente opposto invece il discorso per Silvia Beltrami che nel complesso ruolo di Amneris dimostra di avere già una buona maturità interpretativa ed è l’unica capace di scolpire un personaggio credibile e ricco di sfumature, creando anche momenti di autentica commozione nel finale. Non appaiono adatte invece le caratteristiche vocali, lontane da quelle immaginate da Verdi per il ruolo e comunque nella storia interpretativa dell’opera. Il colore chiaro e i registri medio e grave piuttosto leggeri sembrano appartenere a una vocalità più acuta, al punto che nei vari momenti con la Costea appariva talvolta più scuro il soprano di ruolo rispetto a lei. Inevitabilmente la mancanza di corpo nei tanti momenti drammatici ha un po’ limitato il pathos vocale: in particolare l’invettiva contro i sacerdoti non aveva la necessaria efficacia in uno dei momenti orchestralmente più densi della partitura. Nel complesso comunque il teatro tende a prevalere e, grazie anche a una tecnica vocale corretta, alla fine proprio lei finisce per essere la vera protagonista della serata. Nella parte del gran sacerdote Ramfis, sicuramente meno sfaccettata, Abramo Rosalen risolve benissimo la propria interpretazione sul piano musicale, mostrando una vocalità ampia, scura e tecnicamente a punto in tutta l’estensione. Eccellente anche la timbratura del fa acuto nella scena del tempio e la bellissima frase Nume custode e vindice è apparsa cesellata con espressione elegante e finezza. Ivan Inverardi disegna un Amonasro più trucibaldo che nobile e appare un po’ meno a suo agio in certe forzature rispetto all’ottimo standard cui ci ha abituati in altri ruoli. Comunque appare evidente la sua maturità vocale e interpretativa, specialmente in certi cantabili che mostrano le sue doti migliori; ottima la celebre entrata nella scena del trionfo e apprezzabile anche le varietà di sfumature nel dialogo con Aida del terzo atto. Modesta invece la prova di Victor Garcìa Sierra nella parte del Re: la voce è importante ma piuttosto logora e afflitta da un sostegno evidentemente ballerino. Tra l’altro appare decisamente poco reattivo ritmicamente, finendo spesso in ritardo nelle frasi delle scene d’insieme. Néstor Losan dà il suo apporto più scenico che vocale al ruolo del Messaggero e Sara Rossini fa correttamente il suo dovere nella parte fuori scena della Sacerdotessa. Alla fine applausi generosi per tutti, ma l’autentica ovazione è per la coppia dei bravi ballerini Melania Chionna e Josè Perez: quel che non fece Aida poté Amici… Foto Sebastiano Piras