Teatro del Giglio di Lucca. “Festival: I giorni di Puccini”
“Omaggio a Giacomo Puccini”
Soprano Daniela Dessì
Archi all’Opera (ensemble del Teatro Felice di Genova)
Trascrizioni dalle grandi arie pucciniane per quintetto d’archi
Musiche di Giacomo Puccini
Lucca, 8 dicembre 2015
Uno degli eventi di maggior richiamo del Festival “Lucca: I giorni di Puccini”, apertosi alcune settimane fa con un nuovo allestimento di Madama Butterfly e destinato a chiudersi in gennaio con un concerto di José Carreras, è stato un recital piuttosto particolare che vedeva protagonista Daniela Dessì accompagnata da “Archi all’Opera”, un ensemble di tre violinisti (Pier Domenico Sommati, Marco Ferrari, Giuseppe Francese), un violoncellista (Giulio Glavina)e un contrabbassista (Elio Veniali), professori dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova. Il programma, completamente incentrato sulla musica di Puccini, e trascritto per quest’organico, era il seguente:
La rondine : Preludio (atto III) – Archi all’Opera; «Sole e Amore»; «Morire?»; Foglio d’album – Archi all’Opera; «Terra e mare»;«Sogno d’or»; Edgar: Preludio (atto III) – Archi all’Opera; «Canto d’Anime»; Gianni Schicchi:“O mio babbino caro”; Suor Angelica: Intermezzo – Archi all’Opera; La Bohème: “Donde lieta uscì”; Manon Lescaut: Intermezzo – Archi all’Opera; Turandot: “Tu che di gel sei cinta”; Le Villi: La tregenda – Archi all’Opera; Tosca: “Vissi d’arte, vissi d’amore”.
In generale la trascrizione per cinque archi (curata dal contrabbassista Veniali), grazie anche all’indubbia maestri dei musicisti, si è rivelata più che soddisfacente, e funzionava soprattutto nella musica scritta per orchestra. L’unico brano non proprio convincente era “Canto d’Anime”, in cui il tentativo di imitare l’insistito martellare del pianoforte risultava un po’ goffo. Daniela Dessì: che cosa si può dire di nuovo di una cantante che calca ormai le scene da quasi trentacinque anni, e che è riuscita a rimanere al vertice per così tanto tempo? Alcune scelte di repertorio soprattutto nell’ultimo decennio sono state quantomeno azzardate, ma il fatto che non abbiamo lasciato ferite insanabili nella sua organizzazione vocale è ulteriore prova della bontà del suo metodo di canto. La Dessì è infatti una delle ultime depositarie di una tecnica vocale tutta fondata sul canto sul fiato; la voce, bellissima di natura in un registro centrale opulente e sensuale, fuoriesce galleggiando, morbida, amplificata da una messa “in maschera” da manuale, facendo sembrare il timbro da puro soprano lirico ben più ampio di quanto non sia in realtà. Lo strumento della Dessì non ha mai amato brusche e repentine ascese verso gli acuti, che hanno sempre palesato, anche nella prima parte della carriera, alcune screziature metalliche, che i suoi ammiratori hanno comunque imparato ad amare o quanto meno accettare in quanto parte integrante della sua vocalità. Il mio primo incontro personale con l’arte di Daniela Dessì risale al 1982 in occasione di un Barbiere di Siviglia in cui il giovanissimo soprano cantava il ruolo di Berta; da allora, dopo almeno un decennio passato ad educare il gusto e raffinare la tecnica in Mozart e l’opera barocca e settecentesca, il soprano genovese ha ampliato il repertorio (giungendo a più di settanta titoli), interpretando quasi tutti i maggiori ruoli sopranili. Un ruolo di rilievo hanno avuto le eroine pucciniane, portate tutte in scena ad eccezione di Anna nelle Villi, Fidelia (o perché no, Tigrana) in Edgar, e soprattutto Magda, che avrebbe calzato la sua voce come un guanto di velluto. Tosca è probabilmente l’opera che ha più frequentemente interpretato negli ultimi anni, facendone un punto di riferimento. La prima parte del concerto lucchese era dedicata alle romanze da camera, genere musicale non molto amato da Puccini, ed il perché lo dice lui stesso: “Non ho mai scritto un Lied o una romanza. Ho bisogno della grande finestra del palcoscenico, è lì che mi sento a mio agio. Quando viaggio non posso vedere un panorama o ascoltare una parola senza pensare ad una possibile situazione drammatica”. In realtà un certo numero di liriche da camera lo scrisse, per lo più scritte o per amici, o su commissione: “Canto d’Anime” venne composta per la nascita del grammofono. Alcune, come è ben noto, furono riciclate nelle opere teatrali: “Sole e amore” (1888) fu ripresa per la fine del terzo atto di Bohème, “Sogno d’or”, (1912) venne usata per il famoso Brindisi della Rondine, ed anche “Morire?”, composizione melanconica scritta in piena prima guerra mondiale (1917) finì nella seconda versione di quest’ultima opera. Non presentano particolari scogli vocali in termine di estensione e tessitura, ma, ricche di pianissimi e mezzevoci, sono state dalla Dessì finemente cesellate da par suo. L’atmosfera si è naturalmente riscaldata nella seconda parte con la presenza delle celeberrime arie d’opera. Già in “O mio babbino caro” il soprano ha dato prova di conoscere perfettamente l’arte tutta italiana, e ormai in via d’estinzione, del portamento, eseguito in maniera quasi impercettibile, ma innegabilmente presente quel tanto per legare le note con gusto senza quella sensazione di brusco scalino che si avverte in tantissimi cantanti di oggi. Sempre in questa stessa aria ha fatto sfoggio di fiati molto lunghi, legando frasi che spesso vengono spezzate, mentre la stessa magia non è riuscita per esempio in “Tu, che di gel sei cinta” a causa di uno stacco di tempo troppo lento. “Vissi d’arte”, da tempo “rifugio impenetrabile e sicuro” della Dessì, lungi dall’essere un mero sfoggio vocale da gran diva, aveva la semplice accoratezza di una preghiera, ed il terribile intervallo finale Si bemolle-La bemolle-Sol naturale era eseguito senza cesure. Non vorrei che questa recensione si trasformasse in un acritico panegirico degno dei più ciechi e irrazionali adoratori di un cantante; pur essendo ormai ben chiaro che provo grande ammirazione per quest’artista, non posso nascondere la mia perplessità di fronte ad alcune scelte di repertorio di questi ultimi anni, ma sono anche convinto che nei giusti ruoli Daniela Dessì abbia ancora moltissimo da dire. Foto Lorenzo Breschi