Opera di Firenze: “Rigoletto”

Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2015/16
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova  IVAN MAGRÌ
Rigoletto  VLADIMIR STOYANOV
Gilda  JULIA NOVIKOVA
Sparafucile  GIORGIO GIUSEPPINI
Maddalena  ANNA MALAVASI
Giovanna  CHIARA FRACASSO
Il Conte di Monterone  KONSTANTIN GORNY
Il Cavaliere Marullo  ITALO PROFERISCE
Matteo Borsa  LUCA CASALIN
Il Conte di Ceprano  NICOLÒ CERIANI
La Contessa di Ceprano  SABRINA TESTA
Un usciere  VITO LUCIANO ROBERTI
Un paggio  IRENE FAVRO
Un clown  GIULIANO DEL TAGLIA
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore  Zubin Mehta
Maestro del Coro  Lorenzo Fratini
Regia  Henning Brockhaus 
Scene  Ezio Toffolutti
Costumi  Patricia Toffolutti
Luci  Sergio Rossi
Movimenti coreografici e assistente regista  Valentina Escobar
Allestimento del Teatro Regio di Parma
Firenze, 4 dicembre 2015
È finita fra le contestazioni una recita tutto sommato ordinaria di uno dei massimi capolavori della storia dell’opera, il Rigoletto di Giuseppe Verdi.  Le prime avvisaglie si erano avute quando, subito dopo la fine dell’opera, erano stati accolti, anziché con i soliti applausi di circostanza, con sonori dissensi i mimi e i figuranti, colpevoli solo di aver seguito le indicazioni del regista, Henning Brockhaus, alla cui apparizione si è scatenato il putiferio persino nella solitamente compassata platea, dove, ad esempio, nella file dietro alla mia un gruppo di azzimate signore avanti negli anni, fino a quel momento compite e contegnose, hanno dato prova di insolito vigore e capienza polmonare scattando in piedi e producendosi in lunghi muggiti e imprecazioni, invitando il malcapitato regista a “vergognarsi”.   Intendiamoci, non si è trattato di un allestimento particolarmente felice, ma a Firenze sono passati indenni spettacoli ben più indegni.  Non era neanche una nuova produzione: nata al Teatro Regio di Parma nel 2001, era anche allora stata accolta in malo modo dal quel pubblico notoriamente difficile e conservatore.  A difesa del Teatro dell’Opera di Firenze sta il fatto che si tratta di una scelta di ripiego e dell’ultim’ora, dal momento che il regista designato, William Friedkin, ha dato forfait poche settimane or sono, e in fin dei conti la primavera scorsa il pubblico fiorentino aveva dimostrato grande entusiasmo per un altro allestimento di Brockhaus, la celebre “Traviata degli specchi”.   Ma se quest’ultima era in fin dei conti una messinscena tradizionalissima che stupiva con effetti speciali semplici ma di sicuro effetto e corroborata da costumi opulenti, questo Rigoletto ha spiazzato ancora una volta il pubblico a causa di un’astrazione fisico-temporale invasa, anzi oppressa da un costante assiepamento di comparse, per lo più ballerine in abiti succinti, che circondano, fastidiose come le mosche, i protagonisti nei momenti meno opportuni e più intimi con movenze da femme fatale vagamente zombeggianti.  L’idea di Brockhaus era quella validissima di mostrare la distanza fra i due mondi di Rigoletto, il personaggio pubblico, ossia il buffone alla corte, e quello privato che ruota intorno alla figlia, e mettere in luce quanto tale tentativo di mantenere questa separazione si riveli alla fine crudelmente inutile.  I due mondi concepiti dallo scenografo Ezio Toffolutti e dalla costumista Patricia Toffolutti sono divisi da un sipario rosso (ed è il rosso nelle sue più livide tinte che predomina) abbassato a circa mezzo metro dal suolo, sotto cui rotolano i personaggi per entrare ed uscire dalle diverse realtà; Rigoletto viene seguito da un pagliaccio di piccola taglia che lo aiuta a vestirsi e a spogliarsi per indossare gli abiti consoni al mondo in cui deve entrare.  Gilda viene mostrata in una stanza, anzi una cella a mezz’aria: unico personaggio puro e innocente della storia, è la sola a vestire di bianco, anche se alla sua primissima apparizione la cogliamo nell’atto di provare un cappello e un paio di scarpe scarlatte, segno che la contaminazione ha già avuto inizio. Probabilmente è il terzo atto quello ad aver maggiormente contrariato il pubblico: il letto a baldacchino su cui nel secondo atto si consumava la deflorazione di Gilda riappariva rovesciato e sghembo, angusta piattaforma che rappresentava l’abitazione di Sparafucile, e che rendeva alquanto artificioso e freddo il culmine drammaturgico dell’opera, la morte di Gilda fra la furia della tempesta.  Per dovere di cronaca alcune contestazioni sono state rivolte anche nei confronti di Ivan Magrì, un Duca di Mantova dal bel timbro lirico e dotato di un registro acuto svettante (ivi compresa la puntatura al re bemolle insieme al soprano alla fine del duetto del primo atto), ma che scadeva in un falsetto vero e proprio ogni volta che tentava di cantare piano e di smorzare il suono, e qui potrei addurre numerosissimi esempi, fra cui forse quelli più vistosi, in quanto più esposti, sono stati il sol bemolle alla fine del cantabile (“non invidiò per te”) e varie altre note in zona media acuta del duetto con Gilda, quali le note finali della cadenza, grazie al cielo eseguita per intero.  L’impressione è quella di un tenore con doti naturali apprezzabilissime non completamente sorrette da una tecnica di fonazione sufficientemente scaltra da permettergli di sopportare la scabrosa tessitura di questo ruolo (basta l’attacco dell’adagio, il terribile sol bemolle di “parmi”, per averne un’idea).  Julia Novikova, già voluta – illustre sconosciuta – da Zubin Mehta accanto a Placido Domingo e a Vittorio Grigolo nel film di Marco Bellocchio prodotto da Andrea Andermann girato a Mantova nel 2010, continua, ora come allora, a suscitare perplessità.  Il timbro, grigiastro e grifagno, non è di quelli comunemente associati al ruolo della sventurata eroina, che, ricordiamolo, nonostante sia spesso considerata un’oca giuliva tanto stupida da sacrificarsi per un farabutto, è in realtà l’unico personaggio a compiere un percorso psicologico, evolutivo o involutivo che sia.  L’assenza di un suono puro e cristallino si fa indubbiamente più sentire nel primo atto, quando Gilda è ancora una ragazzina ignara della cattiveria umana.  Questioni timbriche a parte, la Novikova non è neanche eccelsa vocalista, anzi, acuti poco girati, schiacciati o gridacchati non mancano, come ad esempio il mi bemolle di tradizione che sigilla il duetto del secondo atto.  In compenso riesce a trillare bene, e la parte di Gilda è costellata di tali ornamenti solitamente ignorati, incluso quello lungo sul mi naturale al termine di “Caro nome”, e quelli brevissimi all’interno dell’aria (crome di “tuo sarà”).  La Novikova comunque, con tutti i limiti di cui sopra, è riuscita a comunicare la traiettoria psicologica del personaggio, e ha chiuso con un duetto della morte particolarmente sentito e commovente, assistita e stimolata e da un Rigoletto altrettanto coinvolgente a livello emotivo, Vladimir Stoyanov, baritono bulgaro anch’egli vocalmente tutt’altro che immacolato.  Non è tanto il timbro molto chiaro a rappresentate il limite maggiore, quanto la tendenza a crescere d’intonazione ogni qual volta l’atmosfera si faccia più rovente e lo porti a spingere, e anche in questo caso potrei portare decine di esempi.  È un vero peccato, poiché il materiale vocale è di tutto rispetto e l’estensione ragguardevole: tutte le puntature di tradizione sono state eseguite, anche se come tantissimi altri colleghi di corda tende ad attaccare l’acuto correttamente e poi ad aprirlo, a “sbracare” come suol dirsi.  Qualità insolita per un baritono, è capace di eseguire i trilli, come quelli sarcastici e beffardi (e tale qualità hanno spessissimo i trilli baritonali di Verdi) di “qual vi piglia or delirio a tutte l’ore…”  Ottimo come al solito Giorgio Giuseppini: pur essendo un basso cantante piuttosto che un basso profondo il ruolo di Sparafucile, non presenta per lui alcun tipo di problema, forte di una vocalità morbidamente emessa e omogenea in tutta la gamma, che oltre tutto gli permette di raffigurare un sicario per nulla caricaturale.  Anna Malavasi ha il timbro caldo e ricco in zona centrale adatto al ruolo di Maddalena, per non parlare del perfetto physique du rôle, esibito in tutta la sua prorompenza a malapena contenuta in una sottoveste verde con tanto di bustino.  Tonitruante come si deve, nonostante qualche ingolatura di troppo, la voce del Monterone di Konstantin Gorny; Chiara Fracasso (Giovanna) ha un bel timbro contraltile in zona medio grave, ma basta un mi naturale (“e magnanimo sembra”) per metterla in difficoltà.  Luca Casalin, uno dei migliori “comprimari” di oggi, è ancora una volta sprecato in un ruolo come quello di Borsa, così come Italo Proferisce (Marullo) che ho in passato apprezzato in parti da protagonista come il Figaro mozartiano.  Nulla da eccepire sui coniugi Ceprano (Nicolò Ceriani e Sabrina Testa) e l’Usciere di Vito Luciano Roberti, mentre alquanto debole è stato il Paggio di Irene Favro.  Dopo aver ancora una volta osservato l’eccellenza del Coro, rimane la direzione di Zubin Mehta, improntata ad una lentezza, ad un ponderosità già notate nella Traviata della primavera scorsa, e che hanno messo in difficoltà i tre cantanti principali, costretti a riprese di fiato inopportune e ad alzare il volume più di quanto i rispettivi mezzi vocali permettessero.  Dava il tono un preludio che sembrava una marcia funebre cui si assiste con distacco, senza partecipazione emotiva, in cui il climax dei violini alla ventunesima battuta non esprimevano lo strazio del protagonista; ci sono stati diversi momenti perfettamente riusciti, quali il duetto fra Rigoletto e Sparafucile o l’introduzione al terzo atto, ma in generale la sensazione era quella di avere di fronte un direttore non troppo disposto a sacrificare il volume e l’opulenza orchestrale in favore di una discorsività narrativa.  Il pubblico fiorentino è parso pensarla in maniera diversa, dato che ha festeggiato, anzi osannato ancora una volta il “loro” direttore d’orchestra, amatissimo come nessun altro, e quasi sempre (repertorio tedesco docet) con giusta ragione.