Ferrara, Teatro Comunale: “L’Italiana in Algeri”

Teatro Comunale “Claudio Abbado”, Stagione d’opera 2016
“L’ITALIANA IN ALGERI
Dramma giocoso per musica in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Mustafà NICOLA ULIVIERI
Elvira
DANIELA CAPPIELLO
Zulma
VALERIA GIRARDELLO
Haly
GIULIO MASTROTOTARO
Lindoro
FRANCISCO BRITO
Isabella
ALISSA KOLOSOVA
Taddeo
LORENZO REGAZZO
Orchestra Città di Ferrara
Coro Iris Ensemble
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del Coro Marina Malavasi
Regia Giuseppe Emiliani
Elementi scenici Emanuele Luzzati
Riallestimento visuale e scenografico Federico Cautero
Proiezioni Marco Godeas
Luci Roberto Gritti
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Teatri e Umanesimo Latino Spa Treviso
Ferrara, 7 febbraio
“Une folie organisée et complète”: stracitata, ma mai utile come in questo caso, la definizione coniata da Stendhal per L’Italiana in Algeri. Spunto prezioso per ben valutare l’allestimento trevigiano del capolavoro rossiniano, che ora giunge al Comunale di Ferrara. Spiace dirlo: qui si ha l’impressione che di organizzato ci sia troppo poco. Regia e direzione dovrebbero oliare il perfetto meccanismo comico rossiniano, infondendo ritmo, leggerezza, giusto peso agli slanci lirici della protagonista e dell’amoroso Lindoro. Non centra il segno la messinscena di Giuseppe Emiliani, che si perde fra gag pronte a trasformare la commedia in farsa, per giunta già molto viste e con più garbo, magari nel vecchio allestimento di Ponnelle (vedi il grande palo che minaccia le terga di Taddeo per tutta l’opera). Quando non sa come movimentare le arie, il regista aggiunge personaggi: ecco allora apparire odalische ventre all’aria e fanciulletti che fanno tanto Flauto magico. A condire il tutto, immancabili e sempre più intollerabili, i balletti dei personaggi ad ogni cabaletta. Né giova l’apporto delle scenografie: in locandina apparirà pure il nome di Emanuele Luzzati, ma la presenza dell’illustratore genovese si risolve nella visione (a sipario chiuso, in corso di sinfonia) del suo celebre corto animato del 1968 ispirato all’Italiana e in modeste videoproiezioni su modestissimi bianchi fondali. Dal canto suo, Francesco Ommassini guida l’Orchestra Città di Ferrara (di suono non sempre elegante) con buone idee musicali, ma tende a slentare i tempi e la monotonia (incredibile a dirsi, in un’opera come questa) è spesso dietro l’angolo. S’intende poco, il direttore, con il primo basso della compagnia, un Nicola Ulivieri di timbro elegante, accento altero e sillabato impeccabile, Mustafà di canto nobile e pieno di dignità, mai grottesco. A differenza di Lorenzo Regazzo, che già interpretò il Bey d’Algeri e che ora impersona Taddeo a suon di gigionerie e caccole di vecchissima scuola. Estroso e capace di strappare più d’una risata al folto pubblico, ma alla lunga stucchevole. Ed è davvero un gran peccato, perché il mezzo vocale è sempre notevolissimo. Più composta è la performance di Alisa Kolosova, Isabella contraltile, “slavamente” brunita nei centri e nei gravi. Puntualissima nella coloratura, ritmicamente solida e dal legato ineccepibile, il suo canto pecca solo di scarsa sensualità. Accanto a lei non sfigura il Lindoro dell’argentino Francisco Brito, aduso alla tenolirità rossiniana, pronto a regalarci pure l’esecuzione della non facile aria “Concedi, amor pietoso” (che a Milano nel 1814 andò a sostituire l’originaria “Oh come il cor di giubilo”, di mano non rossiniana). Soprattutto nelle agilità, l’emissione sembra talvolta non facilissima, ma il timbro è bello, lo squillo c’è e la tessitura è ben padroneggiata. Bel gruppetto, le parti di fianco: è sonoro e ben risolto l’Haly di Giulio Mastrototaro, Valeria Girardello canta bene la parte di Elvira anche se indisposta, più che corretta pare la Zulma di Daniela Cappiello.
Tutt’altro che omogeneo e d’intonazione non sempre sicura l’Iris Ensemble, formazione corale padovana. Note di prassi esecutiva: nei da capo si varia poco o con scarso gusto, le appoggiature le fa solo la primadonna, tagli e taglietti interni alle arie non mancano. Anche da questo elemento si evince insomma che la sana lezione della Rossini-Renaissance sia ancora da digerire. O perlomeno, in certi contesti si corre il rischio di scordarsela troppo in fretta.