Madrid, Teatro Real: “Written on skin” di George Benjamin

Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“WRITTEN ON SKIN”
Opera in tre parti su libretto di Martin Crimp
Musica George Benjamin
The Protector CHRISTOPHER PURVES
Agnes BARBARA HANNIGAN
The Boy / First Angel TIM MEAD
Marie / Second Angel VICTORIA SIMMONDS
John / Third Angel ROBERT MURRAY
Mahler Chamber Orchestra
Direttore George Benjamin
Movimenti scenici Benjamin Davies
Opera commissionata da Festival de Aix-en-Provence, De Nederlandse Opera Amsterdam, Théâtre du Capitole de Toulouse, Royal Opera House London, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Madrid, 17 marzo 2016

«Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita». Il riassunto che precede la narrazione di Decameron IV 9 è la miglior forma di introduzione alla cronaca di Written on skin, la recente opera di George Benjamin, rappresentata per la prima volta a Aix en Provence il 7 luglio 2012, che ora il Teatro Real di Madrid propone in forma semiscenica con una compagnia artistica di alto prestigio, la Mahler Chamber Orchestra e la direzione dello stesso compositore. Se l’accoglienza trionfale riservata alla prima madrilena e ai suoi interpreti può essere indizio dell’attualità e della “presa” sul pubblico dell’opera contemporanea, allora il melodramma come genere artistico-comunicativo appare più che mai vitale e salutifero – anche in forma semiscenica – purché sorretto da una forte coerenza interna, nel linguaggio e nell’intento espressivo. “Ma Written on skin è un capolavoro?”, potrebbe domandarsi il lettore che ancora non conosce l’opera; e la risposta è senz’altro positiva, se per capolavoro s’intende un prodotto culturale e artistico esemplare, che sintetizza in forma organica anche più esigenze della società contemporanea. Il pubblico italiano non ha finora avuto molte occasioni per conoscere la musica di Benjamin (si può ricordare la rassegna dedicatagli dal festival MI.TO. nel 2013), ma si deve precisare subito che il compositore londinese nato nel 1960, allievo a Parigi di Olivier Messiaen e Yvonne Loriod, non è in primo luogo un operista: il suo debutto nel teatro musicale risale al 2006 (On the Little Hill, su libretto proprio e in collaborazione con Crimp), e soltanto sei anni più tardi sarebbe tornato al melodramma, appunto con Written on skin. Esistono filoni leggendari che nella storia dell’opera sono risultati feracissimi: quello del razó anonimo del secolo XIII Guillem de Cabestany – Le coeur mangé, rifluisce attraverso la Vida di Cabestany e il suo poema Los dous cossire, il Decameron di Boccaccio, il Roman du Castelain de Coucy et de la Dame de Fayel, fino ai castigati libretti di Gabriella di Vergy (1816, per musica di Carafa; 1826 per Donizetti; 1828 per Mercadante; 1883 per Saint-Saëns), in cui ovviamente la scena della cardiofagia scompare del tutto, sostituita da duelli in punta di regola cavalleresca o confronti verbali tipicamente melodrammatici. Crimp recupera invece tutta la crudezza del racconto medioevale, riservandole la III parte del suo libretto, ed elabora un antefatto originale, di ambientazione onirica, a cavallo tra un medioevo molto feudale e l’incombere di una modernità distruttrice della natura.
Il trattamento di orchestra e voci pensato da Benjamin è decisamente tradizionale; in particolare la parte di Boy, controtenore, racchiude melismi, vocalizzi, colorature che si riferiscono a stili di belcanto differenti, ma sempre riconoscibili. Nelle arcate strumentali degli intermezzi l’orchestra esegue numerose figurazioni in cui si alternano ampi pedali degli ottoni e pizzicati degli archi, mentre nei momenti di dialogo si riduce a un’enunciazione cameristica; passacaglie e saltarelli medioevali sono trasfigurati da pesanti sequenze di fiati e stridore di sonagli (negli interludi, specie della I parte, l’ombra di un altro Benjamin – Britten – è sempre in felice agguato). Il discorso musicale si configura come la deframmentazione di una fanfara mahleriana, perché si percepiscono scaglie di strutture (neppure frammenti) che si susseguono disperatamente; molto riconoscibile l’ispirazione di Mahler quando la catastrofe si approssima alla consumazione (preludio alla III parte). Sulle voci Benjamin lavora invece per contrasti; l’effetto meglio riuscito è infatti l’opposizione tra l’azione diabolica di Boy e la sua voce angelicata, pacata, emblema dell’innocenza e della sincerità. Occorre invece una precisazione di carattere “evolutivo” per Agnes, perché la sua allure vocale si trasforma progressivamente da quella di remissiva e infelice sposa a quella di un mostro assetato di sangue (finale della II parte).
L’opera, al di là delle ricerche estetiche, veicola soprattutto un messaggio etico (e questo può forse costituire un limite moralistico), riferito ai due protagonisti umani; Boy è infatti una creatura ineffabile, forse un demone travestito da angelo, o forse un angelo che cede a impulsi diabolici per essere ucciso dall’uomo. I personaggi umani però attirano di più l’attenzione, perché Protector è un prototipo capitalistico, convinto di poter dominare e acquistare tutto (commissiona a Boy la confezione di un enciclopedico e sfarzoso manoscritto pergamenaceo e miniato che esalti la sua esistenza), mentre Agnes è la donna sottomessa e insoddisfatta della propria condizione. Boy vede nel futuro, predice che il bosco è destinato a scomparire, ricoperto dal cemento e dall’asfalto, mentre Protector e Agnes vogliono sapere del presente, entrambi ossessionati da una verità incapaci di celare. Se al ragazzo è riservato il trattamento vocale più complesso, egli non è però il personaggio più difficile da indagare. Più arduo infatti definire le ossessioni e le paranoie del Protector, l’uomo che perpetra la vendetta dell’adulterio e che assiste al suicidio della sposa. A differenza delle narrazioni medioevali, nel libretto di Crimp è il protagonista di una tragedia che egli stesso innesca con la smania di possedere, di controllare, di comandare.
Tim Mead è un vocalista tecnicamente molto preparato, del tutto credibile e convincente in ogni scena della sua interpretazione (anche perché il compositore deve aver plasmato la parte sulla base delle sue specifiche caratteristiche vocali). Bellissimi tutti i duetti tra Agnes e Boy, a partire da quello della I parte, grazie alla delicatezza con cui Benjamin tratta le voci; mentre i due cantano l’accompagnamento orchestrale si riduce fino a diventare esilissimo, o addirittura sparire. Barbara Hannigan, il soprano, ha voce fresca e duttile, capace di affrontare adeguatamente anche le inflessioni parlate, al pari del baritono Christopher Purves. Uno dei numeri d’insieme più avvincenti è il terzetto con cui si apre la II parte, con Protector e i suoi parenti: per la prima volta emerge il tema della pagina segreta del libro manoscritto, quella sempre umida di un inchiostro che non asciuga mai. Si apprezzano dunque anche le voci dei comprimari, Robert Murray e Victoria Simmonds, ugualmente efficaci ed espressive. Le tre parti si susseguono senza intervallo, per una durata totale di un’ora e mezza; alla chiusa dei primi due atti il pubblico scatta con decisione in un applauso sobrio e unanime; ma è alla fine che l’ovazione si scatena, e cresce sempre più per rendere omaggio e ammirazione al compositore.
La frustrazione della donna e l’impotenza sessuale dell’uomo sono trattate con estrema delicatezza dai termini musicali di Benjamin: prima con pudore, quasi paura, fino all’esplosione del conflitto e all’indicazione del bosco quale luogo in cui sta racchiusa la verità. Ma la scena più drammatica di tutta l’opera è la lettura della pagina segreta del manoscritto: se per illustrare il paradiso Boy ha realizzato miniature in cui compaiono i familiari del Protector, i suoi poderi e tutti i suoi beni, la pagina dell’inferno è interamente colmata dalla scrittura. Ma Agnes non sa leggere, e si sente ingannata dalla scelta di Boy; per questo induce il marito a leggerle il contenuto della pagina, che altro non è se non il resoconto del tradimento, l’esaltazione della lussuria e del piacere carnale. Musicalmente questa scena non offre elementi eclatanti, ma in termini teatrali è di impatto fortissimo, dovuto alle straordinarie doti dei due interpreti principali. Il libretto di Crimp si rivela – qui più che mai – ispirato dalla poetica medioevale, che riprende e al tempo stesso capovolge: la donna che obbliga il marito a leggerle la cronaca dell’amore adulterino, e a indicarle il segno scritto della parola amore, quella che avrebbe voluto vedere adeguatamente illustrata da una miniatura, è il rovesciamento della scena in cui Paolo e Francesca leggono insieme una storia di passione, che provoca la loro e le dà forma. In entrambi i casi la lettura del testo – o se si preferisce la scrittura letteraria – determina la scoperta di una verità che la sola comunicazione verbale fa più fatica a veicolare; questo principio cardine della cultura occidentale spiega ancora meglio il titolo dell’opera (l’anfibologia di che cosa è scritto sulla pelle) e il perché le poetiche postmoderne, dai romanzi commerciali al melodramma, siano oggi così tanto affascinate da storie di manoscritti e codici medioevali. Se in Dante la parola amor è l’ossessiva ripetizione della passione che beatifica e condanna, in Benjamin la donna spasima per vederla scritta nella pergamena, ossia nella pelle animale, per trattenere con lo sguardo la presenza concreta di quanto simboleggia la sua delizia, il suo tormento, la sua estasi. A quella della lettura segue a poca distanza la scena della cardiofagia (e il rimando al sogno iniziale della Vita nuova pare ancora obbligato), tutta punteggiata di rintocchi percussivi e morbosamente insistente sulla bontà del manicaretto fatto cucinare dal Protector: il cuore di Boy. Le sonorità diafane della Glassarmonik suggellano il finale, in cui la voce di Boy, ora primo Angelo, commenta l’ultima miniatura del libro, in cui si vede una donna che precipita dall’alto d’una torre. Sul motivo della perdizione umana («human disaster») in cui consiste l’esistenza stessa, l’orchestra sigla gli ultimi accordi, assertivi e decisi come una sentenza di condanna.   Foto Javier del Real