Alberto Zedda è noto a tutti gli appassionati come direttore d’orchestra e come musicologo. È un’autorità assoluta in campo rossiniano, curatore di edizioni critiche di diverse opere di Rossini, animatore e, per quasi trent’anni, direttore artistico del ROF; affianca la sua attività sul podio con l’impegno didattico presso l’Accademia, che, come orgogliosamente racconta, forma tre quarti dei cantanti rossiniani in giro per il mondo. Proprio lui e i suoi allievi dell’Accademia Rossiniana, con l’orchestra del Conservatorio, hanno festeggiato a Pesaro la doppia ricorrenza dei 200 anni del Barbiere di Siviglia e del compleanno di Rossini lo scorso 29 febbraio con una rappresentazione in forma di concerto del noto capolavoro, in versione rigorosamente integrale, secondo l’edizione critica dello stesso Zedda. Nell’occasione ho avuto modo di fare una chiacchierata con il Maestro sulla sua attività passata e presente e, in particolare sul rapporto con Rossini, che ha così fortemente caratterizzato il suo lavoro.
Tra gli anni ’70 e gli anni ’90 c’è stato un piccolo gruppo di cantanti rossiniani di livello straordinario, ormai entrati nella leggenda, penso in particolare agli americani Horne, Blake, Merritt, Ramey. Secondo lei come sta oggi il canto rossiniano, come sono le nuove leve?
Per essere franco, devo dire che secondo me cantano meglio delle vecchie generazioni. Oggi abbiamo imparato un linguaggio, abbiamo imparato a rispettare un autore, ci siamo abituati a vedere il Belcanto, e in particolare Rossini, che del Belcanto è la punta più alta, non più in un’ottica di eccezionalità; ormai l’abbiamo assimilato come un linguaggio, non dico alla portata di tutti, ma alla portata di buoni cantanti che siano anche buoni musicisti. Mi spiego: le voci straordinarie sono sempre poche; noi abbiamo avuto la fortuna, nei primi anni del Festival, di far coincidere gli specialisti rossiniani, quei pochi che si dedicavano al canto rossiniano con proprietà, con qualità di voce straordinarie; ad esempio Chris Merritt, che aveva una voce fuori dal comune, o Samuel Ramey. Di voci simili io oggi non ne sento in giro, voci come quelle di Merritt, di Ramey o di Marilyn Horne. Ma non solo a Pesaro: non ci sono a New York, non ci sono a Londra… io giro abbastanza il mondo e sempre con le orecchie aperte, soprattutto per chi canta il mio repertorio e devo dire che queste voci straordinarie non ci sono più; perlomeno non ci sono adesso; questo non vuol dire che domani non possano tornare, anzi le stiamo aspettando. Io però le dico che molti dei cantanti di oggi, i giovani, hanno una facilità ad affrontare questo repertorio che una volta era assolutamente rara.
Quindi lei trova che si sia stata una complessiva crescita degli interpreti del repertorio rossiniano?
Sicuramente. Intanto è progredita la cultura musicale, poi è progredito il gusto del Belcanto, questo canto aristocratico che evita l’eccesso, il grido. L’educazione vocale è sicuramente migliorata perché è migliorata in genere la cultura, musicale e non. La Rosina che ha sentito l’altra sera è una laureanda in medicina, e credo che una delle ragioni per cui ultimamente si sta dedicando un po’ meno allo studio del canto è proprio perché sta facendo gli ultimi esami di medicina. Tanto per fare un esempio. Oggi è molto più facile trovare gente che canta bene Rossini; mentre una volta si contavano sulla punta delle dita i cantanti che potevano affrontare un ruolo rossiniano correttamente, oggi sono legioni; tra due settimane devo fare le audizioni per l’Accademia di quest’estate: ci sono trecento domande! Spero, tra questi, di poterne selezionare venti come è stato sempre negli ultimi due o tre anni. Ebbene, una volta, una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Questo significa che il panorama del canto è progredito a un punto tale che un repertorio difficile come quello del Belcanto non conta più decine di possibili interpreti, ma centinaia. La voce media di oggi canta altrettanto bene o, se mi permette, meglio del grande cantante di allora, il quale aveva il vantaggio della voce straordinaria, ma qualitativamente non cantava meglio di questi di oggi! Oggi il livello vocale si è molto alzato. Se mi domanda se abbiamo l’eccezionalità di quegli anni lì, devo dirle di no, purtroppo. Perché non era questione di bravura o di artisticità, ma era proprio merito della natura. Mi dica quante voci come quella di Del Monaco o della signora Callas abbiamo oggi. Non è solo un problema nostro. Chi sono i grandi tenori di oggi? Nominiamo Kaufmann, continuiamo a nominare Domingo, che peraltro ormai è passato alla categoria dei baritoni e forse passerà a quella dei bassi e sarà sempre grandissimo e sarà sempre un miracolo della natura, ma poi chi altro abbiamo?
Tra i migliori al momento attivi non dovremmo citare un assiduo del Festival, Juan Diego Florez?
Certo! E di questa cosa sono molto orgoglioso perché fino a trent’anni fa un tenore rossiniano mai sarebbe arrivato ad occupare i primi posti della classifica mondiale; una volta ci volevano i Pavarotti. Il gusto vocale si è evoluto in maniera tale che un tenore belcantista è considerato oggi uno dei due o tre più grandi del mondo. Che meraviglia! Io non mi sento di rimpiangere i tempi passati, perché, è vero, non ho più quelle tre o quattro punte straordinarie, ma in compenso ho una legione di cantanti buoni, – non sufficienti, buoni! – che possono rendere le partiture con molta proprietà, con una tecnica adeguata, e soprattutto con il gusto belcantistico, cioè quello di animare un ‘segno’ che aspetta dall’interprete la luce, il significato, l’emozione. Oggi hanno imparato a fare questo. Non è poco, mi pare! Se devo fare cento spettacoli di Rossini nel mondo, non sono quattro voci che me li risolvono, ma sono le quattrocento che oggi cantano bene Rossini. E devo dire che la soddisfazione è che nei cartelloni di mezzo mondo, per quanto riguarda le opere di Rossini, tre quarti dei cantanti che sono scritturati vengono da Pesaro, vengono dalla nostra esperienza, vengono dalla nostra Accademia, vengono dal nostro Festival.
Volevo farle un’altra domanda: quella che viene chiamata Rossini Renaissance, della quale lei è stato un protagonista…
Sì, la ringrazio, con l’aiuto del caso e della fortuna, non ci sono stati meriti particolari!
… è un’avventura che per lei è cominciata cinquant’anni fa, più o meno.
Qualcosa in più, esattamente sessanta, perché il primo Barbiere di Siviglia nel ’56 poneva già il problema filologico, ovvero la discordanza tra un testo, una partitura precisa e una tradizione che l’aveva completamente falsata e disattesa. Poi da quell’esecuzione è nata l’edizione critica, e tutto lo sviluppo successivo. Però i prodromi della Renaissance rossiniana affondano le radici in tempi ancora più lontani: ad esempio la signora Callas cantò un Barbiere di Siviglia, del quale si parla poco – si nomina sempre la famosa Armida – perché allora tutti dissero che non era adatto a lei e che rappresentava una piccola interruzione nella grandezza della Callas; oggi vediamo che, al contrario, è stata grande anche nel Barbiere di Siviglia perché ha anticipato di cinquant’anni il nostro modo di vedere quest’opera, che è un modo più serio, più mozartiano, un modo più classico e più rispettoso dei valori musicali a dispetto dei valori farseschi o comici che qualcuno sosteneva di trovare in quella partitura e che io francamente non trovo.
Ne trovo semmai di giocosi, ma non farseschi, come non ne trovo nel Don Giovanni o nelle Nozze di Figaro; nelle Nozze di Figaro ci sono gli stessi personaggi del Barbiere: lei cosa direbbe se la gente si mettesse a ridere alle vicende del Conte e di Susanna? Le pare che il Barbiere abbia una musica molto meno nobile e aristocratica di quella delle Nozze di Figaro? Io ho una grande opinione del ‘mio’ Rossini e quando sento la gente che si sganascia dalle risate perché in palcoscenico ci sono dei buffoni che fanno delle cose strane, avverto che c’è qualcosa che non va; la risata non è segno di divertimento, è una reazione meccanica. Io voglio che la gente si diverta, torni a casa felice, che senta la positività, l’ottimismo, l’energia della musica di Rossini, ma la risata mi offende. Io ovviamente non pretendo di aver ragione, faccio la mia campagna, a volte la vinco e a volte la perdo.
Altre tappe che lei considera importanti di questa riscoperta novecentesca di Rossini? Tornando al Barbiere della Callas, quella era già una lettura moderna; ma poi ci sono state altre operazioni, ad esempio L’Assedio di Corinto alla Scala, [diretto da Thomas Schippers nel 1969, con Marilyn Horne] che era discutibile, perché fondeva il Maometto secondo e Le Siege, era musicologicamente un po’ spurio, ma dal punto di vista pratico, ovvero di porre al centro dell’attenzione il Rossini serio, fu già una grossa conquista, perché furono spettacoli che per la prima volta fecero entusiasmare il pubblico. Poi fondamentali sono stati gli spettacoli di Claudio Abbado alla Scala. E’ vero che Abbado ha lavorato in stretto contatto con me, con la Fondazione Rossini, con i criteri dell’edizione critica, però poi bisogna interpretare! Le edizioni critiche le abbiamo dirette un po’ tutti, ma non tutti abbiamo avuto la risposta eccezionale che ha ottenuto Claudio Abbado: in quel caso si è unita la straordinarietà del direttore alla straordinarietà della partitura. Un altro grande evento è stato il Guglielmo Tell di Muti a Firenze, il primo Guglielmo Tell integrale. Forse i cantanti non erano ancora nell’orbita della nostra mentalità attuale rossiniana, ma fu una scoperta sensazionale, soprattutto della logica di Rossini, che è un grande compositore anche dal punto di vista formale, non solamente nei contenuti musicali. La Rossini Renaissance è stata fatta da molte cose; certamente l’aspetto principale è stato il poter finalmente conoscere queste partiture e poterle ascoltare non solo in circostanze straordinarie, come eventi eccezionali.
Senta Maestro, secondo lei a che punto siamo di questo percorso iniziato sessant’anni fa? Delle trentanove opere che abbiamo fatto qui a Pesaro ce ne sono molte che ancora il pubblico non conosce. Ad esempio Matilde di Shabran è un capolavoro meraviglioso, a Pesaro ha avuto dei successi clamorosi, ma non ha girato, in giro per il mondo non si fa; il Maometto secondo è un’opera straordinaria, è stata fatta a Roma, a Venezia, ma in giro per il mondo non va; l’Ermione che è un’opera del futuro, un’opera visionaria, un’opera estrema ha cominciato a girare l’anno scorso perché l’ho fatta io con un certo successo a La Coruña e ora quest’anno mi chiedono tre Ermione che dovrò dirigere a Lione, a Parigi e a Mosca, ma finora Ermione non era uscita da Pesaro!
La battaglia è vinta per metà. Siamo ancora molto lontani da far sì che Rossini occupi nel repertorio dei teatri lirici il posto che gli spetta; per giustizia nei confronti di Rossini, ma ancora di più per noi, per tutto il pubblico che ancora non conosce il patrimonio di ottimismo, non sa con quale leggerezza potrebbe affrontare certi momenti bui dell’esistenza con l’aiuto della musica di Rossini. Pensiamo al Viaggio a Reims, un’opera teoricamente ineseguibile: diciotto personaggi, totale assenza di una trama sensata, solo un’invenzione della fantasia senza niente di vero. Sta avendo un successo strepitoso in tutto il mondo e questo è molto consolante; ma si tratta sempre del Rossini comico, anzi diciamo giocoso – comico è una parola che uso poco per Rossini.
E il repertorio rossiniano ‘serio’? Trova che sia ancora troppo poco popolare?
Per il Rossini serio, che per me è il più importante, il più geniale e il più profondo, c’è ancora tanto da fare. Pensiamo alla Semiramide, che è un’opera che secondo me non ha paragoni di bellezza, tolto forse il Don Giovanni o le Nozze. Oggi si fa un po’ di più rispetto a cinquant’anni fa, ma mica molto di più; eppure è un’opera che dovrebbe avere la frequenza, che so, di un Falstaff. Ce n’è ancora da fare di strada; si comincia a parlare di Rossini non più come il re dell’opera comica, dell’opera buffa, come si faceva pochi anni fa, cantando e recitando di conseguenza, però sradicare certe tradizioni è ancora difficile.
Ha visto i nostri ragazzi? Per il Barbiere in forma di concerto abbiamo fatto cinque o sei giorni di prove; ognuno aveva studiato la parte per conto suo, principalmente sui dischi delle varie edizioni celebri, quindi ha portato qui le stesse ‘caccole’ [si chiama ‘caccola’ in gergo teatrale l’espediente vocale o gestuale di dubbio gusto usato per caricare una battuta; equivale più o meno a ‘gigionata’] che si facevano cinquant’anni fa; in cinque giorni ho provato a toglierne un po’, ma ci voleva ben altro lavoro! Sono rimasto commosso per lo sforzo che ci hanno messo, certamente non è il Barbiere che sogniamo, ma considerando che sono i ragazzi dell’ultima Accademia, direi che il livello al quale sono arrivati in queste condizioni è decisamente straordinario. Ovviamente non c’è mai limite al miglioramento!
L’ho sentita a volta parlare del valore filosofico di Rossini, come motivo della sua presa sul pubblico e della sua attualità, vuole spiegare cosa intende?
Noi occidentali siamo abituati ad una educazione morale ormai radicata, che fissa i valori spirituali in modo da escludere il piacere materiale e che fa una divisione netta tra buoni e cattivi. Rossini è molto più elastico nel suo giudizio morale, la sua visione è così distaccata che, anche quando racconta dei fatti dove agiscono poteri cattivissimi, ci fa capire che appartengono alla natura, alla realtà della vita, come l’incendio che distrugge la foresta o lo tsunami che uccide tante persone; non per questo la natura diventa assassina o colpevole; continuano ad esserci le albe, i tramonti, le cose meravigliose della vita e allo stesso tempo quelle negative o tragiche. Come si fa ad accettare tutto questo? Perché c’è la mediazione estetica. Quando Giobbe chiede al Padreterno perché i buoni non vengono premiati e i cattivi puniti, il Padreterno non gli dà una risposta etica, ma una risposta estetica, invitandolo a contemplare le meraviglie del mondo e Giobbe accetta. Io prendo il discorso della Sacra Bibbia per portarlo in campo musicale e applicarlo a Rossini. Rossini fa capire che si può partire anche da una situazione estetica di piacevolezza, com’è nella sua musica, che è sempre così positiva e poi fare delle affermazioni terribili e farcele accettare non su una base razionale, ma proprio con una risposta estetica al problema etico. Rossini in questo è veramente consolatorio e per questo motivo penso che se si conoscesse un po’ di più Rossini, se si eseguisse un po’ di più la sua musica ci sarebbe un po’ meno pessimismo in giro, un po’ meno tristezza, meno malinconia.