Madrid, Teatro Real: “Parsifal”

Atto II

Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“PARSIFAL”
Azione teatrale scenico-sacra in tre atti, su libretto e musica di Richard Wagner,
basata sul poema epico medioevale Parzival di Wolfram von Eschenbach
Amfortas  DETLEF ROTH
Titurel  ANTE JERKUNIKA
Gurnemanz  FRANZ-JOSEF SELIG
Parsifal  KLAUS FLORIAN VOGT
Klingsor  EVGENY NIKITIN
Kundry  ANJA KAMPE
Due cavalieri del Graal  VICENÇ ESTEVE, DAVID SÁNCHEZ
Quattro scudieri  ANA PUCHE, KAI RÜÜTEL, ALEJANDRO GONZÁLEZ, JORDI CASANOVA
Fanciulle fiore  ILONA KRZYWICKA, KHATOUNA GADELIA, ANA PUCHE, KAI RÜÜTEL, SAMANTHA CRAWFORD, ROSIE ALDRIDGE
Una voce  ROSIE ALDRIDGE
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Semyon Bychkov
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Claus Guth
Scene e costumi Christian Schmidt
Luci Jürgen Hoffmann
Videoproiezioni Andi A. Müller
Coproduzione Zürich Opernhaus e Gran Teatre del Liceu de Barcelona
Madrid, 21 aprile 2016

Parsifal fu per la prima volta rappresentato al Teatro Real di Madrid il 1. gennaio 1914, la data in cui numerosi teatri di tutto il mondo si valsero della scadenza del privilegio bayreuthiano per offrire al loro pubblico l’ultima opera di Wagner. Il direttore incaricato per l’occasione fu José Lassalle, esperto nel repertorio sinfonico ma al suo debutto operistico; gli interpreti furono Carlos Rousselière (Parsifal), Alicia Gusalewicz (Kundry), Domenico Viglione Borghese (Amfortas), Gaudio Mansueto (Gurnemanz), José Torres de Luna (Klingsor). L’esecuzione fu assolutamente integrale, ma ogni cantante cantò nella propria lingua: si alternarono battute in francese del tenore, in tedesco del soprano, in italiano del baritono e in spagnolo dei bassi. All’epoca questa arlecchinata linguistica apparve del tutto normale; oggi invece Parsifal giunge a Madrid in un allestimento assai conosciuto dell’Opera di Zurigo, con un cast di specialisti, per lo più di area germanica, e con un direttore di scaltrita esperienza wagneriana come Semyon Bychkov. Grazie a lui l’intera partitura si squaderna nel segno dell’equilibrio; sonorità, tempi, relazione con le voci e con il coro: nulla eccede mai rispetto a determinati limiti che il direttore si è posto, a cominciare dall’entità del suono, unitario, omogeneo, tendente ai colori scuri più che alla trasparenza, sin dall’ineffabile preludio. Parsifal secondo Bychkov non è un’esperienza mistica e serafica, bensì la sofferta e laboriosa esplorazione di un mondo musicale nuovo; i temi eroici dalle forme consuete (come quelli del protagonista nei primi due atti) sono affrontati con noncurante brio, senza sottolineature celebrative; ben altro spazio è dedicato invece alla trasformazione tragica di tali temi (magistrale, a questo proposito, il modo in cui il direttore porge la dolorosa metamorfosi del tema di Parsifal all’inizio del III atto). La più accurata elaborazione coloristica è nella scena della seduzione del II atto, in cui arpe magnifiche evocano perfettamente la ricchezza ammaliatrice del giardino di Klingsor. Anche nei numerosi spazi extratematici, però, ossia nei momenti di raccordo tra scene diverse, il lavoro direttoriale è sempre molto incisivo. L’Orquesta Titular del Teatro Real segue il più possibile i disegni e le richieste di Bychkov, rivelandosi molto preparata, soprattutto nella sezione dei corni (il cui suono d’insieme costituisce il colore dominante dell’esecuzione).
Nella compagnia cantante si registrano molte differenze qualitative, ma complessivamente la prova è di livello assai buono: Klaus Florian Vogt è un Parsifal sicuro di sé, molto abile a presentarsi come ingenuo ragazzone, a partire dal fraseggio. Pur non avendo molti armonici a disposizione della propria voce, Vogt è un grande cantante: quando nel II atto ascolta per la prima volta il suo nome dalla bocca di Kundry, modifica l’emissione rendendola più suadente e commossa al ricordo materno (con opportuna sottolineatura di due elementi tipici della mitologia wagneriana). Il momento vocalmente più felice dell’opera è nel finale II, quando l’emissione angelicata del tenore ha modo di dispiegarsi a seguito della propria salvezza; del resto la stessa emissione imperturbabilmente pura (da Lohengrin, più che da Parsifal) costituisce anche il limite di Vogt, perché si mantiene anche in quei passaggi che richiederebbero piglio più drammatico. Ma la voce maschile più interessante di tutte (e anche la più applaudita) è certamente quella di Franz-Josef Selig come Gurnemanz: omogenea, espressiva, dotata di una personalità vocale immediatamente riconoscibile, tende ad aprire leggermente i suoni acuti, forse anche per sostenere la massiccia orchestra di Bychkov; qualche oscillazione nelle messe di voce non inficia il granitico registro basso, né la brillantezza di quello centrale. In più di un momento l’Amfortas di Detlef Roth è invece in difficoltà: la voce è affaticata, l’emissione stentata, anche più di quanto si convenga a un personaggio molto sofferente. Se il Titurel di Ante Jerkunica è perfetto (un basso profondo dall’emissione nitida e solida), il Klingsor di Evgeny Nikitin è abbastanza deludente: la voce troppo chiara, l’inflessione un poco nasale, e soprattutto l’intonazione è difettosa. Molto buoni i due cavalieri del Graal Vicenç Esteve e David Sánchez, apprezzabili per la correttezza i quattro scudieri.
Anja Kampe è una Kundry decisamente soddisfacente: la voce è ferma e omogenea, priva di smagliature; tende a marcare molto le note gravi, ma sempre in modo espressivo; nel II atto sfoggia anche un buon vibrato. Al contrario, il gruppo delle fanciulle fiore è piuttosto approssimativo: tutta la scena della seduzione è improntata su un atteggiamento aggressivo e grossolano, che si riverbera sullo stile di canto: generalmente molto puntuto, tendente al grido. Del resto, il coro femminile – a differenza di quello maschile – fornisce una prova molto discutibile, soprattutto negli interventi fuori scena, perché gli attacchi sono imprecisi, il suono disomogeneo e strillato, gli acuti per lo più calanti. Forse tra le voci femminili e il podio direttoriale è mancato un collegamento più stabile, perché il Coro del Teatro Real presente in scena, sempre istruito da Andrés Máspero, è invece impeccabile nel canto e nei movimenti.
Del complicato allestimento del 2011 di Klaus Guth ha già reso conto ai lettori di «GBopera» Massimiliano Maurizi nel marzo 2013; il pubblico di Madrid non ha dimostrato nei confronti dello spettacolo l’entusiasmo di quello di Zurigo, come si apprende dalla compiuta recensione di Maurizi. Certamente, anche a Madrid è un apprezzabile successo, ma prima di tutto per il direttore d’orchestra, i cantanti e l’empatia generale di tutti gli interpreti. Una società bene organizzata ma profondamente ammalata è alla ricerca del suo guaritore; alla fine si trova di fronte a un dittatore in divisa militare. Questa, in sintesi brutale, potrebbe essere l’idea di base su cui Claus Guth ha elaborato la propria regia del Parsifal; non si tratta di una novità, anzi è uno spettacolo che tra Germania, Spagna e altri paesi ha già viaggiato molto, è ben collaudato e sperimentato. Eppure, nel complesso, non convince. Raccontarlo nel dettaglio sarebbe un’operazione lunghissima, e stancherebbe più del solito i lettori. Siccome lo spettatore è di fronte all’ennesimo frutto del Regie-Theater applicato all’opera tardo-romantica, sarà bene fissare alcuni elementi fondamentali di questo tipo di spettacolo: 1) il regista costruisce meticolosamente una storia parallela ma non sovrapponibile a quella prevista dal compositore; 2) i punti in comune tra le due vicende – sotto forma di elementi narrativi o di semplici oggetti (il cigno ucciso, il Graal, la lancia) – più che rendere coerente la nuova storia, la rendono incongrua e assurda; 3) la scena teatrale è in continuo movimento rotatorio, anche quando la drammaturgia richiederebbe l’immobilità indispensabile a lasciare spazio e tempo esclusivamente alla musica; 4) come molto spesso accade nel Regie-Theater, l’idea e la struttura applicate all’inizio dell’opera si mantengono fisse anche nelle altre parti (un po’ per economia, un po’ per protervia del regista). Ma non è affatto garantito che la medesima idea re-interpretativa si possa felicemente applicare a parti anche molto diverse; tutti i secondi atti wagneriani, per esempio, costituiscono l’antitesi (in termini hegeliani) rispetto a quanto posto nel I atto. Se spazi e strutture restano sempre gli stessi si annulla quella dialettica interna ai tre atti che è il meccanismo fondamentale del divenire di Wagner. Ma questo sarebbe il meno; il fatto è che Guth, con l’aiuto dei suoi collaboratori (in particolare del costumista Christian Schmidt, che firma anche le scene), ha inteso demistificare tutti i simboli mitici del libretto, e al tempo stesso determinare una coerenza tutta politica della vicenda. Parsifal racconterebbe dunque la scissione tra due fratelli, Amfortas e Klingsor, per causa di un padre non imparziale; al termine dell’opera i due – Amfortas sanato dalla piaga e Klingsor redivivo – si riavvicinano (la riconciliazione non è esplicita), mentre Parsifal s’impadronisce del potere instaurando una dittatura militare. Appare evidente come ai simboli religiosi siano stati sostituti altri, di natura famigliare o politica, ma senza che i primi scompaiano del tutto. La scena rappresenta infatti un sanatorio, un lazzeretto di mutilati e reduci di guerra, bisognosi di un guaritore, più che di un redentore; però nelle camere di questo ospedale c’è il Graal, conservato dentro una grande teca, e compare il cigno morto, ucciso da Parsifal. Titurel non è affatto rinserrato in una tomba; al contrario, sale con fatica le scale, bussa alla porta della camera in cui Amfortas custodisce il Graal, entra con la forza e s’impossessa della coppa fatidica. Allorché si celebra il rito nella sala principale del sanatorio, di fronte al gruppo dei degenti è un tavolinetto con grammofono a tromba; qui sarà riposto il Graal, ma finché si evoca l’ascolto della musica vengono in mente alcune scene cinematografiche con il grammofono protagonista, da Fitzcarraldo a E la nave va; del resto, per spingersi ai primordi del cinema tedesco, Titurel è abbigliato e gesticola esattamente come il dottor Caligari di Robert Wiene. Altri invece sono abbigliati in modo ridicolo: se Amfortas nel I atto è in accappatoio bianco (per recarsi al bagno …), Klingsor si presenta invece in vestaglia (ma sotto indossa un frac senza cravatta …). Lo spettatore è insomma subissato di elementi sovrabbondanti, la cui mescolanza produce una grande confusione. Per tutto questo suona allusiva, ferocemente ironica, la domanda di Gurnemanz a Parsifal nel finale I: “Ti sei reso conto di quello che hai visto?” L’eroe non sa rispondere, ma la maggior parte del pubblico madrileno nell’entracte si mostra ancora più perplessa di lui.
Anche se incessantemente mossa in una direzione o in un’altra, la struttura tripartita che ruota su se stessa e suddivide le scene è estremamente rigida: i locali del sanatorio, con l’aggiunta di un tappeto d’erba posticcia, si trasformano nel giardino di Klingsor o in luogo devastato dall’abbandono, come nel finale. Non si comprende, però, perché nel III atto i malati si siano trasformati in un gruppo di alienati mentali, in preda a manie e allucinazioni; la follia come degenerazione della malattia è infatti altro tema rispetto a quello proposto nel I atto. Un fatto, almeno, è chiaro: nella lettura di Guth il personaggio principale non è Parsifal, ma Gurnemanz; vestito da prete, sempre intento a sferzare il personale e a prendere appunti in un suo libriccino, egli appare prima come direttore sanitario dell’ospedale, ma nel III atto si rivela come maître à penser della restaurazione dell’ordine: è lui a guidare i movimenti di Parsifal, a fargli rivestire una divisa militare e a farlo affacciare sulla folla di cavalieri del Graal vestiti a lutto, con la mano destra tesa e alzata in segno di saluto e acclamazione del capo. La prefigurazione dell’avvento del nazismo determina dunque l’interpretazione del mito della redenzione come mistificazione politica voluta da un regime totalitario (o meglio, dal suo ideatore Gurnemanz). Che dire, però, del riavvicinamento finale tra Klingsor e Amfortas, soli nella saletta attigua a quella del comizio politico di Parsifal? Si tratta forse di un messaggio di fratellanza universale, segno che la redenzione può essere, almeno in parte, un’aspirazione onesta e buona?   Foto Teatro Real © Javier del Real