Opera di Firenze: “Elias”

Opera di Firenze – Concerti sinfonici 2015/2016
“ELIAS”
Oratorio in due parti per soli, coro e orchestra, op. 70, su testi tratti dall’Antico Testamento (1° e 2° Re)
Musica di Felix Mendelssohn-Bartholdy
Soprano GENIA KÜHMEIER
Contralto SARA MINGARDO
Tenore RAINER TROST
Basso PETER MATTEI
n. 28 Terzetto
Alto: NADIA STURLESE
n. 35 Quartetto con coro
Soprano I: SARINA RAUSA, Soprano II: GIULIA TAMARRI
Alto I: NADIA STURLESE, Alto II: ELENA CALVINI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Firenze, 9 aprile 2016

Il successo immediato di Elias (1846) era pressoché inevitabile se si considera la confluenza di elementi centrali alle qualità che costituiscono l’essenza dell’arte mendelssohniana: la venerazione quasi religiosa che il pubblico inglese dell’epoca vittoriana provava verso di lui (e che fu poi causa non insignificante del deprezzamento che il compositore conobbe più o meno dopo la prima guerra mondiale), le sue doti liriche e drammatiche, la sua devozione al genio bachiano e i propri ideali di musica religiosa, che si sposavano appieno con quelli dell’Inghilterra ottocentesca. La fluidità mozartiana che normalmente caratterizzava il processo compositivo di Mendelssohn finì per cedere, durante la creazione di Elias, a costanti, massicce revisioni dei materiali musicali, intento com’era a cercare di intuire, di individuare le varie possibilità offerte dai testi biblici. Dopo quasi dieci anni di collaborazione intermittente con il librettista Julius Schubring, un pastore protestante suo amico d’infanzia autore del testo di Paulus che cercò per tutti quegli anni di imbrigliare l’impostazione drammatica, quasi operistica che il compositore desiderava imprimere al nuovo oratorio, Mendelssohn riuscì a liberarsi da questa impasse grazie ad una commissione nel 1845 da parte del prestigioso Birmingham Festival in Inghilterra, che gli dette nuovo impeto e lo spronò a completare l’oratorio entro i limiti di tempi indicati nel contratto, ovvero l’agosto dell’anno successivo. Ed infatti la prima assoluta del 26 agosto 1846 fu un successo indescrivibile, epocale, con un organico orchestrale e corale di oltre quattrocento componenti.  I ruoli sopranili erano stati composti per la voce della leggendaria Jenny Lind, con cui ebbe una relazione non solo professionale, da cui però rimase deluse allorché la diva declinò l’invito preferendo debuttare in terra d’Albione in un’opera lirica, come si confaceva ad una primadonna del suo calibro. La sostituta gli chiese di abbassare di un tono la celebre aria “Höre, Israel”, ma il compositore si rifiutò dicendole che se non voleva cantarla così l’avrebbe affidata ad un altro personaggio. L’oratorio, composto su testo tedesco, venne ovviamente eseguito in inglese con il titolo Elijah, ed è uno dei rari casi in cui la traduzione ha virtualmente la stessa dignità artistica dell’originale, in quanto Mendelssohn, che conosceva bene la lingua inglese, collaborò strettamente con il traduttore su ogni singola battuta per assicurarsi che la prosodia risultasse fluida e naturale. Da quel momento in poi Elijah diventò uno degli oratori in lingua inglese più popolari, secondo solo in termini di frequenza di esecuzione al Messiah di Händel nei paesi anglosassoni. Mendelssohn non riuscì a godersi a lungo questo enorme successo, poiché morì l’anno successivo, neanche trentanovenne, e soprattutto non ebbe modo di assistere al trionfo e successiva rapidissima diffusione del suo capolavoro nel mondo germanico, in quanto la prima di Elias in tedesco ebbe luogo a Lipsia in occasione di quello che avrebbe dovuto esser il suo trentanovesimo compleanno, il 3 febbraio 1848.  Jenny Lind alla fine cantò l’oratorio scritto per lei solo nel dicembre del 1848. In una breve ma cruciale introduzione drammatica Mendelssohn già getta le basi e dà il tono al resto dell’oratorio: il profeta Elia predice la siccità che colpirà il popolo di Israele. Più tardi le grida terrorizzate degli adoratori di Baal vengono accolti con silenzi gelidi e taglienti, che esprimono il loro sbigottimento in maniera sbalorditivamente naturalistica, con la musica che si arresta bruscamente come una ghigliottina. L’enorme maestria con cui Mendelsson impiega il coro facendolo aderire perfettamente al testo si evidenzia di nuovo in “Dank sei, dir Gott” che conclude la prima parte, in cui la piaga della siccità scompare fra impetuosi arpeggi degli archi, mentre le accese, cinetiche sonorità degli ottoni e del coro suggerisce la salvezza ed il trionfo spirituale del popolo. Le analogie operistiche che si possono trarre da Elias si estendono anche a Mozart. Il terzetto per voci femminili “Hebe deine Augen” rimanda agli interventi delle tre Dame nel “Die Zauberflöte”, e l’aria più famosa dell’oratorio, “Es ist genug!” è dominata da una gravitas barocca, rafforzata dal ritmo di sarabanda dalle cupe ombreggiature orchestrali che sorregge la scorata supplica del profeta. Se nelle numerose fughe e corali a quattro parti Mendelssohn di nuovo riconosce il debito nei confronti di Bach, la facilità melodica è in mostra in numerose arie, e per esempio anche un brano corale come “Siehe, der Hüter Israels schläft noch schlummert nicht” in fondo non è altro che un lied scritto per coro. Elias in pratica è la composizione in cui Mendelssohn rivela a fondo gli elementi – inossidabile fede religiosa, affinità con i suoi illustri predecessori e un forte senso del teatro – che rimasero al centro della sua relativamente breve ma prodigiosa carriera. Già da questa introduzione si intuisce quanto sia difficile il compito del direttore d’orchestra che si avvicina a questo gigantesco bassorilievo epico-drammatico. La direzione di Daniele Gatti può solo definirsi praticamente perfetta, con un controllo assoluto della partitura, individuando senza esitazioni i momenti in cui l’orchestra deve rarefarsi e divenire diafana e quelli in cui è necessario imprimerle scosse telluriche. Rimangono nella memoria dettagli come ad esempio l’enfasi concessa ai contrabbassi durante l’aria di Elia “Ist nich des Hern Wort wie ein Feuer” o l’irresistibile sognante dolcezza degli oboi e dei clarinetti in “Ja, es sollen”. È chiaro che questa è una partitura che sente come una seconda pelle, e a cui si avvicina soprattutto con l’intento di mostrarne la teatralità, di estrarne l’opera lirica che Mendelssohn dopo due tentativi falliti nella primissima gioventù non ebbe modo mai di scrivere anche se al teatro pensò per tutta la carriera e soprattutto poco prima della morte iniziando un’opera per Jenny Lind, Lorelei. Insieme al maestro Lorenzo Fratini, Gatti riesce a comunicare i due volti del coro, conferendo un suono aspro, viperino al popolo di Baal e uno raggiante ed estatico a quello di Israele: anche quando questi si scaglia contro i sacerdoti di Baal invocandone la morte violenta, il suono è diverso da quello con cui la parte avversa esprime gli stessi estremi sentimenti di ferocia: grande, enorme prova del Coro del Maggio Musicale Fiorentino. Encomiabile, con una sola eccezione, il quartetto dei solisti. Il tenore Rainer Trost, pur colpendo talora per alcuni bei pianissimi (ad esempio lo scomodo fa diesis che inizia il recitativo immediatamente successivo all’aria di Elia “Es ist genug!”), ha per lo più messo in mostra uno strumento opaco ed appannato. Sara Mingardo non avrà più il volume di un tempo ma la voce è sempre vellutata, morbida, e la musicalità dell’artista era posta in evidenza dai diversi colori con cui affrontava i vari ruoli, dall’ambrata soavità dell’angelo agli accenti sprezzanti e autoritari di uno dei più più bistrattati personaggi dell’Antico Testamento, la regina Gezabele. Il soprano Genia Kühmeier non le è stata da meno, con toni quasi sarcastici nell’esprimere la rabbia della donna cui sta morendo il figlio, alla corposa limpidità con cui dominava i concertati. Ottima la resa della grande aria “Höre, Israel”, accorata nella prima parte in si minore e gioiosa nell’insolito passaggio in si maggiore, il tutto contraddistinto da un bel legato e dalla facile salita ai la diesis acuti. Di Peter Mattei nel ruolo del titolo non può dirsi che bene, anzi benissimo. Il timbro è bellissimo, d’un velluto di rara qualità, la fonazione è levigata, omogenea, impostatissima, squillante nei centri e negli acuti. La tessitura da basso baritono, con l’insistente martellare nel registro acuto (si perde il conto di quanti mi naturali acuti s’incontrino), gli calza a pennello.  Altri cantanti, bassi autentici o d’estrazione wagneriana, avranno forse comunicato l’ira di Elia con più rabbiosa veemenza, ma di rado con tale controllo dell’emissione, ed in ogni caso anche il suo era un profeta con cui non si scherza, arrivando ad esprimere la furia e lo sdegno con un’incredibile varietà d’accenti.  Ancor più a proprio agio pareva nei momenti di abbandono, e qui posso affermare di non aver mai sentito dal vivo un’esecuzione così commovente di “Es ist genug!”, tanto da rendermi quasi simpatico un personaggio che con tutte le sue esortazioni a stragi di massa non è poi così amabile. Gli altri ruoli minori erano ben eseguiti dai soprani Sarina Rausa e Giulia Tamarri, e dai contralti Nadia Sturlese e Elena Calvini.  Molto bravi anche in tre bambini (uno dei quali avrà avuto non più di cinque anni) i cui nomi non appaiono nel programma, alle prese con alcune frasi di non facile intonazione.  Riassumendo in un’unica frase: una delle serate più soddisfacenti offerte dall’Opera di Firenze nelle recenti stagioni. Foto di Simone Donati, Terra Project-Contrasto