Madrid, Teatro Real: “Der Kaiser von Atlantis” di Viktor Ullmann

Der Kaiser von Atlantis

Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“DER KAISER VON ATLANTIS”
Opera in un atto su libretto di Peter Kien
Musica di Viktor Ullmann
Narratrice  BLANCA PORTILLO
L’imperatore Overall  ALEJANDRO MARCO-BUHRMESTER
L’altoparlante  MARTIN WINKLER
La Morte  TORBEN JÜRGENS
Arlecchino  ROGER PADULLÉS
Un soldato  ALBERT CASALS
Bubikopf  SONIA DE MUNCK
Il tambur maggiore  ANA IBARRA
Danzatrici  CRISTINA ARIAS, CARMEN ANGULO
Orquesta Titular del Teatro Real de Madrid
Direttore Pedro Halffter
Regia Gustavo Tambascio
Scene Ricardo Sánchez Cuerda
Costumi Jesús Ruiz
Luci Felipe Ramos
Coreografia Nuria Castejón
Prima esecuzione assoluta della revisione per grande orchestra di Pedro Halffter (2015)
Nuova coproduzione Teatro Real de Madrid, Teatro de la Maestranza de Sevilla, Palau de les Arts Reina Sofía de Valencia
Madrid, 18 giugno 2016

In una scena di Der müde Tod (1921) di Fritz Lang l’incavato e lugubre protagonista prende teneramente tra le sue mani le mani della ragazza di cui è appena morto il promesso sposo, spiegandole quanto sia nauseato del suo compito: è la Morte stessa a essere “stanca” del suo ruolo orribile eppure invincibile. Questa straordinaria pellicola ha recentemente costituito il momento più suggestivo del XVIII “Festival de Cine alemán” di Madrid (7-12 giugno 2016). Pochi giorni dopo il Teatro Real della stessa città propone un piccolo gioiello musicale dalla storia travagliata, di un compositore tanto cólto quanto sfortunato e oppresso dalla brutalità nazista: Viktor Ullmann. Anche nel suo Kaiser von Atlantis agisce la Morte, che si sente umiliata dagli stermini e dalle continue guerre del mondo contemporaneo; il suo intervento è incessantemente richiesto, senza però che questo le procuri soddisfazione. Arlecchino esprime la propria sofferenza per un’esistenza priva di amore e di dolcezza, poiché la sua maschera è l’emblema dell’uomo deriso e sofferente, ma la Morte replica che la sua attuale condizione è ancora più sordida. Essa ricorda ad Arlecchino di quando operava a fianco di Attila o di quando accompagnava Annibale con i suoi elefanti alla conquista dell’Italia; quelli sì, erano tempi in cui la morte in guerra aveva una sua spiegazione morale, e soprattutto era caratterizzata dalla dignità della convinzione e dell’eroismo. Ora invece tutto è assurdo, dipende soltanto dalla follia sterminatrice di pochi uomini, come il dittatore Overall, che ha appena dichiarato la guerra totale, contro tutti i regni e gli stati del mondo; non solo la vita ha perso ogni attrattiva e ogni pregio (come lamenta Arlecchino), ma anche la morte non conta più nulla e non gode più di alcun rispetto. Il personaggio che ne è figura decide quindi di interrompere il suo lavoro, e di abbandonare gli uomini a una vita eterna e decadente. Le conseguenze sono inaspettate per Overall: i condannati alla pena capitale sono giustiziati, ma non muoiono; gli eserciti si scontrano e si feriscono, ma nessuno riesce a ottenere vittime di cui vantarsi; su ordine dei generali i soldati sui campi di battaglia non lottano più per la vita, ma per morire … Privo dell’arma che terrorizza i popoli e li induce alla sottomissione, cioè la paura di morire, l’imperatore assiste al venir meno del suo potere e al fallimento della guerra totale; è costretto a interloquire con la Morte, chiedendole di riprendere il suo compito. La Morte, con molta modestia, dice che il suo vero lavoro è come quello di un giardiniere, che dalle aiuole strappa le erbacce o raccoglie i petali avvizziti. È disposta a ritornare in azione solo se Overall accetterà di essere la prima vittima del nuovo corso; e l’imperatore, dopo una certa riluttanza, acconsente, anche perché si rende conto della superiorità del suo interlocutore. Un quartetto vocale, nel finale, intona un nuovo comandamento, che risuona come supplica disperata nel 1943: “Non usare invano il nome della Morte, né adesso né mai”. Per introdurre alla partitura, la cui esecuzione si esaurisce in meno di un’ora, il direttore d’orchestra Pedro Halffter ha arricchito il programma con altri tre brani di Ullmann risalenti al 1944, in funzione di prologo: Canto di amore e morte del soldato di cornetta Christoph Rilke per narratore e orchestra (su testo di Reiner Maria Rilke), l’Adagio in memoriam Anne Frank e una piccola ouverture per L’imperatore di Atlantide basata sui movimenti della sonata per pianoforte n. 7. Tutte queste partiture, come quella dell’opera, sono state ristrumentate per orchestra dallo stesso Halffter. Il Canto è una sorta di melologo o mélodrame, in cui si rivela molto interessante la resa musicale del testo di Rilke; se non ci fosse l’intera orchestra, ricorderebbe Enoch Arden di Strauss. Molto brava ed efficace Blanca Portillo, l’attrice che recita e interpreta l’intero racconto. La musica è inevitabilmente illustrativa e sempre un po’ arcaizzante, come la cornice secentesca richiede. Certamente, un ottimo trait d’union tra le due parti dello spettacolo è l’aleggiare della Morte, in quanto personaggio che fisicamente incombe sulla scena, con lo stesso costume del Kaiser che seguirà. Lo stile musicale di Ullmann è molto diverso tra i brani del prologo e l’opera vera e propria: prima si apprezza quell’eclettismo della musica austro-tedesca degli Anni Trenta/Quaranta, in cui molto influiscono Zemlinsky e Schreker; Mahler può far capolino talvolta, ma su di uno sfondo abbastanza lontano; piuttosto, un altro nome dovrebbe essere tenuto presente, che invece sempre si dimentica, annichilito com’è dall’opera paterna: quel Siegfried Wagner che seppe incarnare molto bene la decadenza del dramma musicale tedesco dopo il Gesamtkunstwerk di babbo Richard. In memoriam Anne Frank finisce inevitabilmente per essere il ponte più didascalico rispetto all’opera; ma va molto bene così, perché dà modo allo spettatore di trascorrere dagli immensi e oscuri boschi rilkiani all’ingannevole e apparente luce della fortezza di Theresienstadt. Un gruppo di artisti ebrei è intento al proprio lavoro; chi suona un violino, chi dipinge, chi studia; improvvisamente devono raccogliere tutti i loro ammennicoli e andarsene; partono lentamente, con mestizia, evidentemente diretti al ghetto. Il tableau vivant riprende quando il gruppo giunge presso una nuova sede di lavoro, lontana da casa, ma a prima vista non troppo ostile: siamo già a Theresienstadt, e qui appunto inizia Der Kaiser von Atlantis. Nessuna voce, a parte quella dell’Altoparlante, il bravissimo basso-baritono austriaco Martin Winkler, risulta troppo graffiante o sguaiata, come ci aspetterebbe dal tono del libretto di Peter Kien; al contrario, sia il baritono svizzero Alejandro Marco-Buhrmester (l’Imperatore Overall) sia il tenore catalano Roger Padullés (Arlecchino) sia il basso tedesco Torben Jürgens (la Morte) cantano con un’impostazione decisamente lirica, rispettando quella scrittura pacata e priva di gratuita drammaticità che è la cifra vocale di Ullmann. Il soprano madrileno Sonia De Munck (Bubikopf) è invece l’elemento più debole della compagnia, perché l’emissione è sempre forzata e tendente al grido. La predilezione per uno stile cantabile, che molto spesso strizza l’occhio al cabaret berlinese, non significa che Ullmann non metta alla prova l’estensione e la tecnica dei suoi interpreti maschili, i quali tutti – prima o poi – devono emettere note molto basse nella clausola dei loro interventi; ma il compositore ha anche cura di evitare la corrispondenza con un supporto strumentale marcato, in modo che la voce sia più facilmente libera di imporsi. Più che agli strumenti della parodia, del resto, il linguaggio musicale di Ullmann ama ricorrere all’eclettismo, anche per fedeltà a una tradizione di studi composita che aveva in Schönberg e Zemlinsky (fu allievo di entrambi) i suoi traguardi. Risuona però raffinatissimo il verso del cromatismo wagneriano nella scena in cui l’imperatore Overall estrae dal suolo una spada che gli si offre e dichiara di voler ridurre la Morte alla sua volontà. Lo stesso imperatore è un personaggio enigmatico e affascinante; non solo non riesce ad atterrire, ma non è neppure grottesco come ci si attenderebbe; anzi, è forse il solo a saper riflettere insieme alla Morte sull’eterna vocazione umana alla guerra e all’autodistruzione; per questo nel finale si toglie la lunga uniforme militare in pelle e il ridicolo copricapo, per restare inerme di fronte alla morte (quella fisiologica) cui ha deciso di andare incontro. L’allestimento diretto da Gustavo Tambascio è perfetto: semplice e funzionale nella scenografia a due piani (realizzata da Ricardo Sánchez Cuerda), sgargiante nei costumi surreali (di Jesús Ruiz), anche un poco decorativo nelle coreografie (di Nuria Castejón), ma soprattutto accurato nella recitazione dei vari personaggi. Gli elementi allegorici si spiegano nel corso della scena finale, quando la Morte, sempre più spossata dalla stanchezza e dal disinganno, si accovaccia a fianco di una grande ruota dentata che funziona da orologio, simbolo del tempo e del calendario di distruzione. Su un ritmo cabarettistico che potrebbe essere di Kurt Weill il quartetto finale depreca l’abuso della morte; ed è suprema ironia tragica, perché sullo sfondo appare un nuovo scenario, non più Theresienstadt, bensì le camere a gas di Auschwitz e Treblinka, ora gremite dagli artisti ebrei.   Foto Teatro Real © Javier del Real