Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2016: “Francesca da Rimini” di Mercadante

Martina Franca, Palazzo Ducale, 2 agosto 2016
“FRANCESCA DA RIMINI”
Dramma per musica, libretto di Felice Romani
Musica di Saverio Mercadante
Prima rappresentazione assoluta. Edizione critica a cura di Elisabetta Pasquini
Francesca LEONOR BONILLA
Paolo AYA WAKIZONO
Lanciotto  MERT SÜNGÜ
Guido  ANTONIO DI MATTEO
Isaura  LARISA MARTINEZ
Guelfo  IVAN AYON RIVAS
Orchestra Internazionale d’Italia
Coro della filarmonica di stato “Transilvania” di Cluj-Napoca
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Cornel Groza
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Disegno luci Vincenzo Raponi
Coreografie Gheorghe Iancu
Martina Franca, 31 luglio 2016   
Per la prima volta il Festival della Valle d’Itria ha allestito un’opera mai andata in scena al tempo in cui fu composta: la Francesca da Rimini che Saverio Mercadante scrisse su libretto di Felice Romani ebbe infatti la cattiva sorte di non venire rappresentata al Teatro del Prìncipe di Madrid nel carnevale 1831, probabilmente per via di una cabala ordita dalla primadonna Adelaide Tosi, ex amante del compositore decisa a screditarlo. Anche il successivo tentativo di proporre la Francesca alla Scala di Milano fallì a causa di una diva, Giuditta Pasta, che non vide di buon occhio la disposizione dei pezzi chiusi nella partitura mercadantiana, a suo dire irrispettosa delle convenienze teatrali che avrebbero dovuto lasciar primeggiare la primadonna Francesca rispetto al ruolo en travesti di Paolo (affidato alla rivale Giulia Grisi). Capricci di soprani hanno così impedito alla storia del melodramma di annoverare un vero gioiello, oggi restituito al vivo ascolto grazie all’ottimo lavoro musicologico di Elisabetta Pasquini, curatrice dell’edizione critica basata sull’autografo che si conserva presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. La stesura di Francesca da Rimini (ultimi mesi del 1830) fu contemporanea a quelle di Sonnambula e di Anna Bolena, ma rispetto a Bellini e Donizetti, Mercadante parve contrarre un debito maggiore con l’eredità stilistica rossiniana. I diciassette numeri che compongono la partitura seguono infatti in modo ferreo lo standard compositivo in quattro sezioni (tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo, stretta) che Rossini codificò e che i suoi epigoni elessero a modello stereotipato (tanto che nel 1859 il critico verdiano Abramo Basevi lo definirà “solita forma”). Con melodrammi quali Il giuramento (1837) e Il bravo (1839), sarà lo stesso Mercadante a voler rompere tali griglie morfologiche, in linea con quanto fece Donizetti prima e Verdi poi. La Francesca tuttavia appartiene a una stagione ancora ibrida tra l’ultimo Rossini e il primo Verdi, contrassegnata da un artigianato operistico all’insegna della serialità formale e dell’esibizione belcantistica. Di questo aspetto Pier Luigi Pizzi, qui nelle vesti di regista, scenografo e costumista, è parso essere ben consapevole tanto che ha scelto di collocare intorno all’orchestra una passerella da sfilata di moda sulla quale la primadonna, l’en travesti e il tenore hanno dato sfoggio della loro bravura nei cantabili e nelle cabalette, avvicinandosi al pubblico in modo accattivante (ma che per i giovani interpreti poteva risultare inibente e comunque insidioso avendo alle spalle il direttore). Il rischio che, dopo tre ore e mezza di spettacolo, questo meccanismo scenico potesse saturare l’interesse dell’ascoltatore, è stato evitato grazie all’affascinante movimento degli enormi drappeggi neri affissi alle quinte e dei morbidi tessuti dei costumi (bianchi e neri per coristi, danzatori e personaggi comprimari, amaranto per Francesca, zaffiro per Paolo, ambra  per Lanciotto, malva per Guido) continuamente mossi dal vento, allusivo a quella “bufera infernal che mai non resta” di dantesca memoria, cifra visiva dell’immaginario legato alla storia di Paolo e Francesca (complici le incisioni di Gustave Doré del 1861). La suggestione di una scena lasciata completamente vuota e buia, ha indotto il pubblico a credere che l’ondeggiare dei veli seguisse le dinamiche affettive del dramma inscenato restituendone l’intima tensione. A completare l’intensità emozionale della raffinatissima regia di Pizzi ha concorso la coreografia di Gheorghe Iancu che ha arricchito i pezzi corali e reso memorabile il momento topico della lettura del libro “galeotto” grazie a una controscena dove i danzatori Letizia Giuliani e Francesco Marzola impersonavano Lancillotto e Ginevra, ma al tempo stesso Paolo e Francesca, plumbei e spettrali, già proiettati nel vortice infernale. La gestualità dei corpi e la plasticità delle stoffe mosse dal vento, da sole hanno dunque dato corpo teatrale a una drammaturgia in verità assai statica (Romani non creò l’opportuna tensione per il finale secondo che replicava la situazione di chiusura del primo atto), la cui ragion d’essere risiedeva nel fornire agli artisti “di cartello” ingaggiati a Madrid nella stagione 1830-31 (Adelaide Tosi, Concepciòn Liedò, Ignazio Pasini, Luigi Maggiorotti) le occasioni per esibire la propria perizia canora. Il giovane e ottimo cast ha saputo raccogliere il lascito di quegli interpreti per i quali Mercadante immaginò le sue note. Leonor Bonilla ha una splendida voce, filati deliziosi, timbro cristallino negli acuti (che col tempo diventerà ancor più rotondo) e scioltezza nelle agilità, ottima dizione, intensità attoriale (e competenza nella danza: la scena I.10 la vede infatti alle prese con passi coreografici complessi). Memorabili le sue arie sostenute dall’arpa (scena I.4) e dal corno inglese (scena II.3) concertanti. Aya Wakizono, mezzosoprano giapponese dal colore vocale preziosissimo, affronta con maturità vocale e attoriale la difficile parte en travesti di Paolo, insidiosa per le colorature acute e per la tessitura che insiste sulle zone centrali e di passaggio. Straordinaria la prova del tenore turco Mert Süngü che si trovava ad interpretare una parte ambigua, da un lato il tenore di grazia rossiniano (quando non mozartiano), dall’altro il tenore lirico drammatico dell’operismo romantico. Lodevole la sua attenzione alle nuances nei piano e alle brevi messe di voce, come pure il suo coraggio nell’affrontare di sbalzo i sovracuti. La parte di Lanciotto era il perno attorno al quale ruotava il congegno drammatico ideato da Romani e Süngü la interpreta senza alcun calo di tensione e con ottima presenza scenica. Molto buono anche il basso Antonio di Matteo che ha ben saputo caratterizzare il personaggio di Guido, non gratificato di un’aria ma decisivo nei brani a più voci per conferire il tono di gravità solenne e l’aura sacrale connessa al ruolo di padre. Per le parti di fianco va notata la bella voce tenorile di Ivan Ayon Rivas affiancato dalla più che dignitosa Isaura di Larisa Martinez. Ottima la preparazione del coro, notevole specialmente per la brillantezza dei tenori, curata da Cornel Groza. Impeccabile la direzione di Fabio Luisi alla guida di una quanto mai nutrita Orchestra Internazionale d’Italia. Nella sua partitura madrilena Mercadante diede in più occasioni prova di essere un orchestratore sapiente (a tratti accademico) e oltre alle arie con strumenti concertanti disseminò la Francesca di passaggi imitativi e di contrappunti timbrici in tutto simili a quelli belliniani. Luisi è stato capace di evidenziare tali preziosismi senza mai perdere il contatto con il palcoscenico: precisissimo nel dare ogni attacco a cantanti e coristi, ha mantenuto una tensione nelle dinamiche e una coerenza nel fraseggio davvero invidiabili. Non ha stupito che a lui siano andati gli applausi più calorosi del folto pubblico martinese, estasiato per questa prima rappresentazione assoluta che ancora una volta conferma quanto inadeguata sia la distinzione tra operisti “maggiori” e “minori” che certa storia del melodramma continua ad imporre. Foto Conserva