Mariella Devia protagonista della “Norma” al Teatro La Fenice di Venezia

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2015-2016
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti. Libretto di Felice Romani dalla tragedia omonima di Alexandre Soumet Musica di Vincenzo Bellini
Pollione  ROBERTO ARONICA
Oroveso  SIMON LIM
Norma  MARIELLA DEVIA
Adalgisa ROXANA CONSTANTINESCU
Clotilde ANNA BORDIGNON
Flavio  ANTONELLO CERON
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Callegari
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia, scene e costumi Kara Walker
Light designer Vilmo Furian
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice, progetto speciale nel 2015 della 56a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
Venezia, 14 settembre 2016

Da sabato 27 agosto 2016 è di nuovo alla Fenice Norma di Vincenzo Bellini nell’allestimento ideato – quanto a regia, scene e costumi – dall’artista americana Kara Walker, con la direzione musicale di Daniele Callegari e Mariella Devia nel ruolo della protagonista. La grande cantante ligure è indiscussa protagonista sulla scena lirica, fin dal suo debutto a Treviso nel lontano 1972, cui ha fatto seguito, l’anno successivo, la vittoria del concorso “Toti dal Monte”, che le ha schiuso le porte dei maggiori teatri italiani ed internazionali, dove si è affermata nel repertorio belcantistico, soprattutto donizettiano e belliniano. Il ruolo di Norma, comunque, lo ha affrontato solo di recente, nel 2013, all’apice di una lunga e luminosa carriera; il che la dice lunga sul suo rigore professionale. La presenza della Devia aggiunge, dunque, un interesse tutto particolare a questo allestimento veneziano di Norma, progetto speciale nel 2015 della 56a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. La Devia ha affrontato il ruolo eponimo del capolavoro belliniano – tra i più impegnativi in ambito belcantistico – brillando dall’inizio alla fine per il modo assolutamente intelligente e controllato con cui ha saputo usare i propri mezzi vocali, l’intensa ma sempre interiorizzata espressività, il fraseggiare analogamente mai enfatico o ridondante, il gesto scenico contenuto ed elegante. Tutto questo – veicolato da una voce ancora incredibilmente ferma, omogenea e pastosa – le ha permesso di intonare con composto vigore, nel primo atto, lo stupendo recitativo “Sediziose voci” e di rendere una splendida interpretazione dell’aria più celebrata dell’opera, “Casta  diva”, offrendo un esempio autorevole del cosiddetto “cantare sul fiato”, anche grazie ad una voce sempre ben appoggiata sul diaframma, e inoltre dimostrandosi sicura e squillante negli acuti. Nella successiva cabaletta, “Ah! bello a me ritorna”,poi, è stata, si può dire, impeccabile nella scansione delle ardue colorature, confermandosi interprete dalla tecnica solidissima unita a grande finezza interpretativa. Tragica nel declamato, nobilmente patetica nei duetti con Adalgisa, terribile – pur  senza nessuna esteriorità d’accento – nell’esprimere i suoi propositi di vendetta contro Pollione (“In mia mano alfin tu sei”), ha dato il meglio di sé nel corso dello stupendo Finale dell’opera, in particolare in “Qual cor tradisti, qual cor perdesti” e “Deh! non volerli vittime”, offrendo un ulteriore mirabile esempio  di belcanto stilisticamente composto ma intimamente espressivo. Le ha corrisposto un’Adalgisa – interpretata da Roxana Constantinescu, mezzosoprano dalla voce fresca e corposa, nonché intrisa di femminea grazia candida ed appassionata, come si è colto, per quanto le compete, nei già citati duetti con la protagonista: bravissime entrambe per varietà di accenti, mezze voci, toni mai eccessivi, oltre che per una dizione impeccabile. Esaltante, a questo proposito, la conclusione della scena terza del secondo atto: “Sì, fino all’ore estreme”. Caldo e, a tratti, esuberante il Pollione di Roberto Aronica, dalla voce potente e timbrata, e nello stesso tempo estesa, senza difficoltà, verso l’acuto, come si è potuto apprezzare in “Meco all’altar di Venere”, nella successiva cabaletta “Me protegge, me difende” e nelle scene d’insieme (in particolare nel finale dell’opera, ove ha gareggiato con la protagonista, quanto a fraseggio ed espressività). Autorevole, quale Oroveso, Simon Lim, che ha saputo modulare il nobile metallo della sua voce regalandoci un Capo dei druidi ieratico e saggio (“Ite sul colle, o druidi” e “Ah! del Tebro al giogo indegno”). Di sicura professionalità la Clotilde di Anna Bordignon e – perdonandogli qualche smodatezza espressiva – anche il Flavio di  Antonello Ceron. Ineccepibile il coro, la cui prestazione è stata notevole, in particolare, nell’inno guerriero, nonostante il ritmo serrato imposto dal direttore. Su tutti ha vegliato, attento e sensibile, il maestro Daniele Callegari, che ha curato ogni sfumatura a livello dinamico ed agogico, trovando una mirabile intesa con i cantanti, guidandoli con gesto sicuro ed esplicito anche nelle cadenze e nelle corone. La sua lettura ha puntato ad un’assoluta coerenza e coesione del discorso musicale, assecondando la concezione del compositore, che, pur nel rispetto della tradizione, intese far percepire i singoli pezzi come se fossero fusi tra loro, per  dar vita ad unità più ampie ed articolate sul piano drammaturgico-musicale; il che  è risultato particolarmente evidente nel Finale ultimo: un lungo climax, al cui culmine il direttore ci ha veramente rapito con un sublime rallentando di rara efficacia espressiva. Straordinari, sotto l’aspetto esecutivo, i brani orchestrali: dalla sinfonia drammaticamente tesa e concitata all’introduzione del secondo atto, dove si è imposto – affettuoso – il violoncello. Quanto agli aspetti visivi e alla concezione registica dello spettacolo, l’allestimento – come si è detto – è quello firmato a suo tempo da Kara Walker, che sposta l’azione dalle Gallie sotto il dominio romano, nel 50 a.C., ad una colonia dell’Africa centrale o occidentale, non molto dissimile dal Gabon o dalla Repubblica del Congo, occupata da una potenza europea, nel tardo Ottocento; un luogo immaginario, popolato da una forte comunità – devota alla religione della natura –, che ha affidato all’Anziano, Oroveso, e alla sacerdotessa, Norma, sua figlia, il compito di liberare quel territorio dal dominio coloniale europeo, rappresentato dal proconsole Pollione e dal suo attendente Flavio. A parte l’attualizzazione a livello politico, che è sempre interessante, la messinscena – in cui dominano il bianco, il nero e il rosso e vari simboli tra cui una grande maschera tribale – appare abbastanza discutibile – come già notammo in una precedente recensione – soprattutto per quanto riguarda i costumi, poco aggraziati, e un’eccessiva staticità delle masse. Lo spettacolo, comunque, ha riscosso un pieno successo, testimoniato dagli scroscianti applausi. Foto Michele Crosera