Venezia, Teatro Malibran: “Il medico dei pazzi” di Giorgio Battistelli

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2015-2016
“IL MEDICO DEI PAZZI”
Azione musicale napoletana
Libretto e musica Giorgio Battistelli liberamente adattato dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta
Rosina DAMIANA MIZZI
Bettina/Carmela ARIANNA DONADELLI
Concetta LORIANA CASTELLANO
Amalia MILENA STORTI
Ciccillo SERGIO VITALE
Michelino GIUSEPPE TALAMO
Errico MAURIZIO PACE
Felice MARCO FILIPPO ROMANO
Luigi MATTEO FERRARA
Raffaele FILIPPO FONTANA
Carlo CLEMENTE ANTONIO DALIOTTI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia e Scene Francesco Saponaro
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Cesare Accetta
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Prima rappresentazione italiana
Venezia, 23 ottobre 2016    
Il genere dell’opera, considerato con sufficienza dalle avanguardie più radicali del Novecento, ha conosciuto – come si legge nel programma di sala –  una rinascita a partire dagli anni Novanta, grazie anche ad alcuni compositori italiani, che  vi si sono cimentati ottenendo grande successo, a dire il vero, più all’estero che in Italia. È il caso di Giorgio Battistelli, di cui è nota la predilezione per il teatro musicale, testimoniato dalle sue numerose opere concepite per la scena, che affrontano i più disparati temi, attinti a diverse fonti, tra cui un’importanza particolare hanno  quelle rappresentate da film: da Teorema di Pasolini a Prova d’orchestra di Fellini, a Miracolo a Milano di De Sica, a Divorzio all’italiana di Germi, capostipite – quest’ultimo – della commedia all’italiana, che irride a certe anacronistiche convenzioni sociali, vigenti in un’immobile, assolata Sicilia. Un'”azione napoletana” è invece Il medico dei pazzi secondo la definizione riportata sul libretto, che Battistelli stesso ha liberamente tratto dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta (1908), ultimo lavoro del commediografo napoletano, prima di lasciare le scene. Alla base dell’opera – che ha avuto la sua prima a Nancy nel 2014, la stessa città in cui era apparso Divorzio all’italiana qualche anno prima – vi è comunque anche la fortunata trasposizione cinematografica della commedia di Scarpetta, realizzata nel secondo dopoguerra da Mario Mattoli, con Totò nel ruolo di Felice Sciosciammocca, il benestante sindaco di Roccasecca, e Carlo Giuffrè in quello del prodigo nipote Ciccillo, che fa la bella vita a Napoli, anziché dedicarsi agli studi di medicina. Anche nel lavoro di Battistelli il Merdione viene presentato da un’angolazione estraniata ed ironica, pur attribuendo al tema della follia una valenza che va ben oltre quei limiti geografici. Nel libretto la vicenda appare semplificata, riducendo al minimo le battute dialettali ed eliminando alcuni personaggi, per concentrarsi sul nucleo essenziale del perfetto meccanismo teatrale creato da Scarpetta, che è poi quello di una “commedia degli equivoci”.
Sul versante musicale, la scrittura di Battistelli è modellata sul ritmo serrato della vicenda e della parola: vocalmente si traduce in un continuo declamato, che segue il ritmo del parlato, modellato, a sua volta, su quello dell’antica Commedia dell’Arte. Si coglie, inoltre, un legame molto stretto tra la recitazione e l’azione scenica, da una parte, e la  loro resa musicale, dall’altra, anche attraverso una raffinata orchestrazione, attenta ad ogni minimo dettaglio. Fondamentale la funzione del coro, che, in apertura dell’opera, fa la parodia dei napoletani al bar con la concitazione ossessiva delle ordinazioni, e in generale rappresenta la “voce di Napoli”, il sottofondo ambientale – dal chiacchiericcio alle esclamazioni in vernacolo –, che accompagna le azioni dei personaggi. Aspetto intrigante della partitura: le citazioni dall’Otello, La Traviata e L’Africana, inserite, rispettivamente, per Raffaele, attore dilettante, che deve debuttare nei panni del Moro nella tragedia di Shakespeare; per Michelino, amico di Ciccillo, che è costretto a fingersi un tenore impazzito per l’opera incentrata su Violetta, e per Errico, maestro di musica, che avrebbe dovuto dirigere l’opera di Meyerbeer alla Scala, se non fosse stato cacciato dagli orchestrali.
L’impostazione registica di Francesco Saponaro – napoletano verace, mentre Battistelli è nato ad Albano Laziale in provincia di Roma – si basa sull’idea di considerare la vicenda, in linea con le scelte dello stesso compositore, valida ben aldilà del contesto napoletano, se non altro perché Napoli è stata ed è ancora – nella sua vera essenza – una grande capitale della cultura, riconosciuta in tutto il mondo. Nella vicenda stessa si coglie il contrasto tra il mondo rurale con la sua mentalità sempliciotta, incarnata da Sciosciammocca (il cognome significa: “uno che respira a bocca aperta”) e la vita frenetica della metropoli con il suo modo più disincantato di vedere le cose: per questo l’ambientazione scelta è quella del periodo del boom economico – tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – quando il conflitto città-campagna si fa più stridente. Inoltre determinante è stata l’influenza di due capolavori del cinema di quel medesimo periodo, entrambi legati a Eduardo De Filippo, figlio naturale di Scarpetta – L’oro di Napoli e Ieri oggi e domani –, in cui il capoluogo campano è in qualche modo protagonista, in un fase di cambiamenti e contraddizioni, come lo era nella messinscena del Medico dei Pazzi, del 1959, ad opera dello stesso Eduardo, che ambientò la commedia in quel medesimo anno. E l’effige di Eduardo si vede sullo sfondo della scena fissa, cui contrastano le fotografie della nuova Napoli dei palazzinari, frutto di quella speculazione edilizia, che Francesco Rosi denuncia, da grande regista impegnato qual era, in Mani sulla città. Particolare cura ha profuso il regista nel mettere in valore le doti attoriali dei cantanti, che in effetti hanno saputo mantenere il ritmo sempre vivace imposto all’azione scenica, mostrandosi a loro agio quanto a gestualità e recitazione.
Venendo alla direzione e alla concertazione, il maestro Anzillotta ha affrontato la partitura con un approccio molto analitico, facendo apprezzare appieno la raffinatezza dell’orchestrazione, basata su un’ampia tavolozza di colori, oltre alla caratterizzazione di ogni personaggio. Di valore il Cast, che – come accennato – si è ben comportato sia nel canto che nel gesto scenico, con un’efficace espressività, che – nell’uno e nell’altro caso – non è mai sconfinata nella macchietta. Così i baritoni: Marco Filippo Romano (l’ingenuo Felice); Sergio Vitale (l’ineffabile Ciccillo); Matteo Ferrara, quale Luigi, giornalista e scrittore di novelle; Filippo Fontana, nei panni di Raffaele; e Clemente Antonio Daliotti, in quelli di Carlo, direttore della Pensione Stella, nonché fratello di Raffaele. Analogamente validi i tenori – Giuseppe Talamo (Michelino, amico di Ciccillo) e Maurizio Pace (Errico) –, i soprani – Damiana Mizzi (Rosina, figlia di Amalia, scambiata per pazza da Felice, che finge di acconsentire a sposarla) e Arianna Donadelli (Bettina, cameriera del caffè, e Carmela, cameriera della pensione) –, infine i mezzosoprani: Loriana Castellano nei panni di Concetta, moglie di Felice, e Milena Storti in quelli di Amalia, madre di Rosina, anch’ella scambiata per pazza da Felice. Molto espressivo il coro. Successo pieno e caloroso per tutti.