“Lucrezia Borgia” a Bilbao

Bilbao, ABAO (Asociación Bilbaína Amigos de la Ópera) – Temporada 2016-2017
“LUCREZIA BORGIA”
Melodramma in un prologo e due atti di Felice Romani, tratto da Lucrèce Borgia di Victor Hugo
Musica Gaetano Donizetti
Donna Lucrezia Borgia  ELENA MOSUC
Gennaro  CELSO ALBELO
Don Alfonso d’Este  MARKO MIMICA
Maffio Orsini  TERESA IERVOLINO
Rustighello  MIKELDI ATXALANDABASO
Don Apostolo Gazella  JOSÉ MANUEL DÍAZ
Ascanio Petrucci  ZOLTAN NAGY
Oloferno Vitellozzo  MANUEL DE DIEGO
Gubetta Belverana  FERNANDO LATORRE
Astolfo, Coppiere  GERMAN OLVERA
Jeppo Liverotto  JESÚS ÁLVAREZ
Un servitore  SERGIO LÓPEZ DE DAVALILLO
Voce interna  JAVIER CAMPO
Euskadiko Orkestra Sinfonikoa
Coro de Ópera de Bilbao
Direttore José Miguel Pérez Sierra
Maestro del Coro Boris Dujin
Direttore della banda interna Itziar Barredo
Regia Francesco Bellotto
Scene Angelo Sala
Costumi Cristina Aceti
Luci Fabio Rossi
Coreografia Martín Ruis
Coproduzione con Teatro Regio di Torino, Teatro Donizetti di Bergamo, Nuovo Teatro Verdi di Sassari
Bilbao, 31 ottobre 2016

bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-2«Profittiamo degli anni fiorenti: / il piacer li fa correr più lenti». Maschere e costumi, bautte e guanti, spade e cappe; ma anche coppe e pugnali e liquori e veleni: feste notturne e agguati, brindisi e morte si avvicendano all’interno della Lucrezia Borgia con cui la Asociación Bilbaína Amigos de la Ópera (ABAO) ha inteso inaugurare la stagione 2016-2017 all’interno del fiammante Auditorium Euskalduna di Bilbao. Oltre alla scelta felicissima del titolo, la ABAO si è affidata a una compagnia vocale di prestigio e a un allestimento molto ben collaudato del 2010, curato da Francesco Bellotto. Per la partitura si è scelta la versione milanese del 1840, con l’impervio finale sopracuto della protagonista, ma anche con l’aria del tenore «T’amo qual s’ama un angelo», scritta per Ivanov e fortunosamente ritrovata da Richard Bonynge all’interno della Morgan Library di New York.
José Miguel Pérez Sierra è un giovane direttore madrileno dagli illustri trascorsi italiani: collaborando e studiando con Gabriele Ferro, Gianluigi Gelmetti, Alberto Zedda, ha saputo interiorizzare le giuste dinamiche del melodramma del primo Ottocento. Il risultato si apprezza in una conduzione che valorizza i molteplici colori e gli intarsi ritmici donizettiani; forse è anche troppo umile, Pérez Sierra, nel concedere ai suoi cantanti – in particolare al soprano e al tenore – tempi piuttosto rilassati e “comodi”; d’altra parte, i due in questione cantano così bene che sembrerebbe un peccato agire diversamente. In realtà l’intera compagnia vocale riserva solo sorprese positive. bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-7Elena Mosuc si conferma infatti come uno dei soprani più interessanti e versatili oggi in carriera: oltre all’utilizzo di una buona tecnica è capace di prodezze virtuosistiche come trilli e filature e ama marcare gli accenti portanti di ogni frase, segno di uno studio accurato del fraseggio. Meno smaglianti alcuni sopracuti, al cui cimento peraltro non si sottrae, come quelli che concludono il prologo e tutta quanta l’opera. Anche di Celso Albelo non si può che parlare positivamente, soprattutto per la bellezza della voce coniugata a una correttezza tecnica e a un porgere davvero encomiabili (a volte enfatizza un poco l’omaggio di stile espressivo a un grande modello del ruolo di Gennaro, anch’egli di origini canarie; ma non ce ne sarebbe affatto bisogno). Marko Mimica, recentemente ascoltato nella Donna del lago pesarese, è un Alfonso d’Este dalla voce molto bella e dal timbro carismatico; risolvendo i lievi difetti di quadratura cui talvolta va incontro diventerà un bass-baritone di primo piano. Altra giovane cantante di grande valore è Teresa Iervolino, impegnata nella parte di Maffio Orsini: forse il pregio principale di tale voce contraltile è la nitida conservazione di un carattere femminile omogeneo nel registro e in tutta la linea di canto. Questo non implica che, accanto alla freschezza, non restino alcune piccole sprezzature da correggere, per esempio nella capacità di alleggerire certe emissioni; tuttavia, baldanza e brillantezza bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-6fanno del celebre brindisi del II atto («Il segreto per esser felici») un momento godibilissimo e indimenticabile. Molto preparati anche tutti i comprimari, tra cui è doveroso segnalare almeno il Rustighello di Mikeldi Atxalandabaso (tenore bilbaino) e l’Astolfo di Germán Olivera (baritono messicano), impegnati in un interessante duetto nel cuore del I atto; autorevole e convincente, nella parte della spia in incognito Gubetta Belverana, anche Fernando Latorre (basso-baritono bilbaino). Menzione speciale del Coro dell’Opera di Bilbao e del suo maestro Boris Dujin per l’ottima preparazione e l’impeccabile prestazione. Il successo è grandissimo per tutti gli interpreti, che il pubblico invita più volte e raccogliere applausi alla ribalta; nel generale entusiasmo, Albelo è senza dubbio il più festeggiato.
Può risultare molto difficile stringere la coerenza drammatica in un’opera quasi interamente centrata sulla terribilità di un nome che evoca misfatti e trame assassine, quando poi sulla scena la protagonista appare più nelle vesti di una vittima infelice che di una morbosa intrigante, più madre sfortunata che non diabolica avvelenatrice. Ma la regia di Francesco Bellotto è un magnifico esempio di come il rispetto e l’accentuazione di quel che il libretto prescrive, unitamente all’attenzione per il procedere musicale, non solo sortiscano le soluzioni migliori, ma addirittura trasformino le possibili criticità drammaturgiche in punti di forza. Del resto Bellotto non è soltanto un regista: prima di tutto è uno studioso di Donizetti e della sua produzione, come sa bene chiunque frequenti il festival bergamasco, che ha diretto per anni, trasformandolo in una delle stagioni italiane più interessanti e meglio collegate alla ricerca bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-5musicologica internazionale. Nell’allestimento, ripreso da capo per l’occasione, ogni componente è funzionale e coerente: dalla scenografia praticabile di Angelo Sala alle luci radenti e fredde di Fabio Rossi; i costumi di Cristina Aceti sono curati nel dettaglio senza essere inutilmente sfarzosi, e soprattutto evitano di cadere nella dicotomia troppo marcata tra abito ordinario da una parte e costume carnevalesco dall’altra; al contrario, si dovrebbe parlare della cifra del travestimento, che connota per esempio tutta la scena finale con gli scherani di Lucrezia in veste cardinalizia. Il rosso, dunque, è il colore dominante e sanguigno che suggella la conclusione; ma prima si susseguono tinte più ambigue, come il giallo e soprattutto il viola di alcuni mantelli, in linea con le luci sul fondale, a sfumare diverse temperature drammatiche per i diversi episodi della vicenda.
Per argomentare la precisione della regia vera e propria di Bellotto sarà sufficiente soffermarsi su di un paio d’esempi: nel finale del prologo Romani offre a Donizetti una scena concitata, di grande effetto poiché culminante con l’esecrazione del nome della Borgia. L’abilità musicale del compositore consiste nel variare in musica ritmi e cadenze di un testo che in poesia è esclusivamente formato di decasillabi, piani o tronchi, integri o spezzati nel bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-4dialogo tra i molti personaggi. Cinque di essi (nell’ordine: Orsini, Vitellozzo, Liverotto, Petrucci, Gazella) rivelano alla donna il proprio nome o la propria identità famigliare per mezzo di un distico; e lo fanno per scoprire, al culmine della climax, anche quello dell’interlocutrice all’ingenuo Gennaro. Lo spettatore ha di fronte una scena di agnizione multipla, finalizzata all’esecrazione della protagonista, e tutto si svolge fra sbigottimento e ira, i sentimenti che tipicamente si alternano in occasione del riconoscimento di un’identità nefasta, sin dai tempi della tragedia greca. Ma tutto si consuma con il procedere cadenzato e apparentemente monotono del decasillabo: si badi, un metro risorgimentale, struttura ritmica di tanti cori, da Manzoni a Verdi («S’ode a destra uno squillo di tromba», «Soffermati sull’arida sponda», «Va’ pensiero sull’ali dorate», «O Signor che dal tetto natío», «Si ridesti il Leon di Castiglia», etc.) e caro allo stesso Romani («Guerra, guerra! Le galliche selve», soltanto per citare Norma). I ritmi danzanti di barcarola con cui si apre la Lucrezia Borgia sono a questo punto come strozzati dai decasillabi, con cui si giunge allo svelamento della protagonista: «Ella è donna che infame si rese, / che l’orrore sarà di ogni etade». Bellotto esalta la vitalità del concertato finale del prologo con un gesto enfatico e appropriato: mano a mano che si presentano alla Borgia, i personaggi in maschera si tolgono la bautta e la gettano al suolo di fronte a Lucrezia con scherno e indignazione. La maschera cade a terra pesante come una scure, o meglio come l’accento martellante dei versi che scandiscono tutta la scena: «traditrice, venefica, impura» è il decasillabo che da solo definisce l’ideale negatività della donna. Grazie a quel gesto il pubblico comprende che tutta l’opera non è altro che la vicenda di un progressivo ‘togliersi la maschera’, di un disvelamento che opprime bilbao-31-x-2016-lucrezia-borgia-3l’innocenza di Gennaro fino a ucciderlo. E dunque: elaborare la regia teatrale a partire da libretto e partitura non significa affatto essere pedanti (come vorrebbero purtroppo far credere alcuni registi alla moda); Bellotto infonde anche molta ironia nel suo allestimento, come quando fa volteggiare i gruppi contrapposti degli scherani di Alfonso e di Lucrezia nel I atto, attorno ai caratteri di Rustighello e Astolfo, più comici che tragici. Apparentemente un’incongruenza, si tratta in realtà di un punto di forza nella drammaturgia, corrispondente a un’osservazione dello stesso Romani, che sullo stile della sua riduzione scrisse nell’Avvertimento: «Alla difficoltà del soggetto si aggiunga quella dello stile che, a mio credere, io doveva adoperare: stile di cui non ho modelli, almeno ch’io sappia; che tien l’indole della prosa in un lavoro in versi: che vuolsi adattare all’angustia del dialogo, alla tinta dei tempi, alla natura dell’azione, ai caratteri che la svolgono, più comici la maggior parte, che tragici; stile insomma conveniente in un’opera ove il poeta deve nascondersi, e lasciar parlare ai personaggi il loro proprio linguaggio». Per l’appunto, il regista lascia che i personaggi parlino il loro linguaggio teatrale, improntato a un eccessivo vitalismo; e, come sempre, quest’ultimo si spegne nel monito funereo dei sicari: «La gioia de’ profani / è un fumo passegger».   Foto Moreno Esquibel © ABAO-OLBE