Teatro Donizetti di Bergamo, Fondazione Donizetti 2016 – Stagione dedicata a Gianandrea Gavazzeni
“ROSMONDA D’INGHILTERRA”
Melodramma serio in due atti di Felice Romani
Musica Gaetano Donizetti
Rosmonda JESSICA PRATT
Leonora EVA MEI
Enrico DARIO SCHMUNCK
Clifford NICOLA ULIVIERI
Arturo RAFFAELLA LUPINACCI
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Fabio Tartari
Regia Paola Rota
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Massimo Cantini Parrini
Nuova produzione e allestimento della Fondazione Donizetti
Bergamo, 27 novembre 2016
Un vecchio padre, ovviamente vedovo, ossessionato dall’onore della figlia, sedotta da un potente (e come non pensare ai verdiani Giacomo, Miller e Rigoletto?); un re che, sotto falsa identità, custodisce una fanciulla in una torre isolata; la fanciulla medesima, divisa tra amore e vergogna; una regina tradita e bramosa di vendicarsi; l’affacciarsi esplicito di un contrasto tra politica e affetti, come confessa Enrico Plantageneto al fedele Clifford: «m’avvinse / ragion di stato. Mi discioglie adesso / ragione del cuore». E poi la morte ingloriosa della protagonista, brutalmente accoltellata nel finale per mano della regina stessa, Eleonora d’Aquitania: tutto questo è nella Rosmonda d’Inghilterra, melodramma sulla truce vicenda inglese del XII secolo ben congegnato nella struttura da Felice Romani, prima per Carlo Coccia (1829) poi per Gaetano Donizetti (1834); in particolare il I atto inanella una serie di scene dalla crescente tensione, in cui i personaggi si aggiungono gli uni agli altri fino al parossistico concertato finale («Nunzia è tal calma orribile / che la tempesta è presso» sussurra il coro, già anticipando il «S’appressan gl’istanti / d’un’ira fatale» del futuro Nabucco). Ma più che altro, come accade nella coeva Lucrezia Borgia, anche qui il librettista gioca sullo svelamento di un’identità imbarazzante: il vecchio padre scopre così dopo un lungo duetto con il sovrano che la scandalosa amante del re altri non è che sua figlia.
Donizetti si dedicò alla composizione in un periodo particolarmente fitto di lavoro, subito dopo Lucrezia, offrendo Rosmonda a Firenze il 26 febbraio 1834; l’esito fu abbastanza deludente, nonostante la presenza di Fanny Tacchinardi Persiani e Gilbert Duprez come protagonisti – che l’anno successivo avrebbero dato vita alla coppia di Lucia ed Edgardo – e una partitura ricca di musica molto interessante. Per questo motivo la Fondazione Donizetti ha fatto benissimo a riprendere il titolo e a curare un nuovo allestimento scenico, oltre alla versione in forma di concerto già presentata a Firenze, città natale dell’opera. Sebastiano Rolli, un direttore esperto nel repertorio donizettiano, svolge un lavoro di concertazione molto corretto, forse enfatizzando un po’ troppo le componenti militaresche della partitura (nella sinfonia e nel cruento finale); senza dubbio sa valorizzare tutti i talenti della Orchestra Donizetti Opera, una compagine molto professionale e preparata. Jessica Pratt anima – e non solo vocalmente – la protagonista, il cui personaggio a dire il vero non è molto ben caratterizzato sul piano drammaturgico, soprattutto nel I atto; ma il soprano sa presentarlo come carattere forte e determinato al sacrificio, ossia con un profilo adeguato alla scrittura vocale molto ardua voluta da Donizetti. La prestazione della Pratt è senz’altro molto buona, attenta agli aspetti virtuosistici e alle nuances richieste (il modello di Lucia è infatti alle porte) sebbene le puntature acute e sopracute siano sovente arrischiate nel timbro e nella tenuta. Eva Mei è perfetta nel ruolo antagonistico e crudele di Leonora; peccato che per tutto il I atto un’indisposizione grave la obblighi a cantare immobile ai lati della scena e in ombra, sostituita sul palco da un mimo. Nel II atto il miglioramento delle condizioni le permette di cantare e recitare senza impedimenti, con grande soddisfazione di tutto il pubblico: la voce ferma e autorevole corrobora l’approfondimento espressivo dell’ambiguo e sanguinario personaggio. Molto buona anche la prova di Raffaella Lupinacci nel ruolo mezzosopranile en travesti del paggio Arturo: il suo canto fuori scena e poi il duetto con il soprano nel corso del I atto sono uno dei momenti più belli di tutta la recita. Nicola Ulivieri, nato come basso rossiniano, ha ormai esteso il proprio repertorio ad altri autori, e si rivela adeguatissimo a sostenere la parte di Clifford, con la giusta disposizione vocale e la necessaria, enfatica espressività. L’elemento più debole della compagnia è purtroppo il tenore, Dario Schmunck, che non è certo caratterizzato da una personalità vocale capace di imporsi, né per il timbro né per virtù di belcantista; al contrario, pur con una tecnica apprezzabile, la linea di canto è frammentata, gli acuti instabili e le messe di voce prive di tenuta; l’esigente pubblico internazionale di Bergamo, comunque, fa bene a pazientare nel corso del I atto, perché nel successivo la situazione migliora un poco.
L’allestimento scenico e la regia, unitamente ai costumi, dipendono da un progetto basato sull’attenta lettura del libretto e delle sue fonti, di cui recuperano elementi meteorologici e naturalistici. Più che sulle scene, sostituite da piccole quinte mobili che dilatano e rinserrano lo spazio attorno ai personaggi, come per stritolarli, Nicolas Bovey ha insistito sulle luci e sul contrasto di colori e oscurità. La regia di Paola Rota pone in risalto quello che forse è l’elemento unificante dei vari caratteri: la sostanziale debolezza, che si traduce di volta in volta in infantile volontà di possesso, ricorso all’autoritarismo e alla violenza. Gli unici personaggi fautori dell’equilibrio parrebbero essere quelli del coro, che però indossa costumi e parrucche neri – di Massimo Cantini Parrini – alquanto surreali; perfettamente funzionali, e molto curati, gli abiti dei personaggi principali. Il pubblico dimostra di gradire tutto lo spettacolo, tributando lunghi applausi a ogni interprete e al direttore; è soprattutto palpabile la gioia di avere assistito alla rinascita di un’opera che arricchisce il catalogo del Donizetti “inglese”, oltre a Maria Stuarda, Anna Bolena, Roberto Devereux, Lucia di Lammermoor et caeterae. Resta una perplessità sul finale: dal momento che direttore, regista e direzione artistica intendevano rappresentare la versione originale del 1834, e non quella approntata dallo stesso Donizetti per le riprese del ’37-’38 (che poi non si realizzarono), è stata espunta la cabaletta di Leonora dopo la morte di Rosmonda; ma siccome il restauro d’autore sull’autografo originale ha cancellato la musica che accompagnava l’ultima battuta della regina («Sono alfine vendicata… / trema, Enrico! Io regno ancor») alla fine si è deciso di non eseguire nulla, facendo spegnere l’opera in modo assolutamente anomalo. Sul piano filologico è inaccettabile presentare un finale mutilo, solo perché non è più disponibile quello originale, quando però sopravvive la correzione d’autore. Non è forse un principio cardine della filologia moderna pubblicare l’ultima versione licenziata dall’autore? Un anonimo giornalista francese, presente alla prima esecuzione fiorentina, scrisse un giudizio burlesco per affermare che la Rosmonda fosse «in effetto la più mediocre fra le opere di quel ferace maestro», inventando la storia di un sequestro di Donizetti da parte di briganti di Monterossi che «lo costrinsero, con trombone al petto, a comporre un’opera nella loro caverna ed a scriverla per intero prima che spuntasse il sole» (l’aneddoto si legge in Tutti i libretti di Donizetti, a c. di E. Saracino, Milano 1993, p. 744). È una delle attestazioni più antiche del luogo comune sulla prolificità di Donizetti, abbinata a poca cura nella scrittura orchestrale e vocale; l’ascolto della Rosmonda, ossia di un’opera mai più ripresa dopo il 1845, demolisce una volta per tutte questo pregiudiziale luogo comune. Foto Gianfranco Rota / Fondazione Donizetti