Venezia, Teatro La Fenice: “Attila”

Venezia, Teatro La Fenice – Stagione, lirica e balletto, 2016-2017
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti
Libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave, dalla tragedia “Attila, König der Hunnen” di Zacharias Werner
Musica di Giuseppe Verdi
Attila ROBERTO TAGLIAVINI
Ezio JULIAN KIM
Odabella VITTORIA YEO
Foresto STEFAN POP
Uldino ANTONELLO CERON
Leone MATTIA DENTI
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Daniele Abbado
Scene e light designer Gianni Carluccio
Costumi Gianni Carluccio e Daniela Cernigliaro
Movimenti coreografici Simona Bucci
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione
con Teatro Comunale di Bologna e Teatro Massimo di Palermo
Venezia, 15 dicembre 2016
Dopo dodici anni è sbarcato nuovamente in laguna l’Attila di Verdi, secondo titolo della Stagione lirica 2016-2017 del Teatro La Fenice; un titolo che, analogamente all’opera inaugurale, Aquagranda, si collega alla storia di Venezia e al suo delicato equilibrio idro-geologico, inserendosi nella tematica caratterizzante questo inizio di stagione: se la nuova opera di Filippo Perocco  rievoca i giorni tristi della disastrosa alluvione del 1966, fino al sollievo seguente allo scampato pericolo e alla ripresa della vita nella Città dei Dogi, nel prologo dell’Attila si assiste all’arrivo  dei cittadini di Aquileia, scampati alle orde del terribile Unno, sulle sponde di Rio-Alto, tra le “lagune adriatiche”, riproponendo la mitica palingenesi di Venezia, in base ad una tradizione oggi, peraltro, smentita dagli studiosi.
Questo nuovo allestimento – coprodotto dalla Fondazione Teatro La Fenice insieme al Teatro Comunale di Bologna e al Teatro Massimo di Palermo e recante la firma per la regia di Daniele Abbado, per le scene e le luci di Gianni Carluccio che, insieme a Daniela Cernigliaro, ha disegnato anche i costumi, e per i movimenti coreografici di Simona Bucci – testimonia del rinnovato interesse per il giovanile lavoro verdiano, legato a Venezia e al suo massimo teatro anche per un altro aspetto, avendo visto la luce proprio alla Fenice il 17 marzo 1846: seconda delle cinque opere composte per la città lagunare e nona nel catalogo operistico generale del Bussetano. Si tratta di un lavoro, come si è detto, giovanile, che risale all’ultima fase degli “anni di galera”, già prefigurando il Verdi della “trilogia popolare”, per la capacità di scavare nell’animo dei personaggi, in particolare del protagonista, che per certi versi – pur rimanendo l’oppressore delle italiche genti, in linea con la visione risorgimentale – viene riscattato rispetto al cliché del barbaro spietato e sanguinario, facendogli assumere uno spessore psicologico più complesso, che contempla anche sentimenti di giustizia e atteggiamenti di generosità, e con ciò rendendolo più grande rispetto ad altri personaggi: come Ezio, che entra in scena mettendo in atto un tentativo di corruzione politica, Foresto, che è in fondo un debole, ossessionato dalla gelosia, e Odabella, che è una figura ambigua, probabilmente innamorata di Attila ma incapace di amarlo.
Questa è almeno la lettura del regista, che non nasconde una visione demistificante dell’epopea risorgimentale, in conseguenza del fatto che, nella trasposizione operata da Verdi-Solera-Piave, i “patrioti” sono personaggi alquanto discutibili. La vicenda viene, peraltro, attualizzata, per cui l’esercito di Attila è composto da popolazioni dell’Est a noi contemporanee, i Romani sono dei militari internazionali del nostro tempo, mentre la decadenza di Roma diventa l’attuale decadenza dell’intero Occidente: un modo per portare in scena la contemporaneità, pur senza fare riferimenti troppo espliciti. Essenziali sono apparse le scene, che suggeriscono l’interno di una grande nave, che fa da cornice alle varie situazioni, conferendo alla vicenda il senso di un viaggio. Dall’alto del palcoscenico pendono delle fumi, che terminano con un cappio – a cui finisce appeso per i polsi lo stesso Attila – simbolo di un potere oppressivo che colpisce anche se stesso. Suggestive le luci. Nulla di particolarmente nuovo, ma tutto abbastanza efficace. Eccessivamente numerose, invece, le interruzioni dovute ai cambi di scena, che spezzano la coesione drammaturgica.
Dal punto di vista musicale, la direzione di Riccardo Frizza tende ad evocare – grazie ad un diffuso vigore e a tempi ben marcati nella loro concitazione – il clima risorgimentale, tipico del Verdi giovane, dando nel contempo adeguato risalto al  le novità e alle raffinatezze già presenti in questa partitura: come le due arie di Odabella, “Santo di patrio indefinito amor” – tra le più impegnative ed estese, oltre che sviluppate dal punto di vista formale – e “Oh! nel fuggente nuvolo” – dalla scrittura strumentale insolitamente raffinata –, e due scene in cui primeggia Attila – il sogno e il successivo incontro con Leone – caratterizzate da forza espressiva e austera dignità –, per non parlare di varie pagine che non nascondono un certa vocazione descrittivo-evocativa come l’uragano a Rio-Alto (sull’esempio di Le désert di Félicien David).
Di alto livello il Cast. Roberto Tagliavini, con voce ben timbrata, per quanto di potenza non del tutto adeguata,  e una linea di canto dal nobile accento, è riuscito a conferire al protagonista quell’umanità con cui Verdi ha intenso caratterizzarlo e che risulta evidente nelle scene già citate come in quella in cui, ad Odabella, sua promessa sposa, che lo trafigge, rivolge qualcosa di analogo alla sconsolata esclamazione di Cesare a Bruto. Appassionata e combattiva l’Odabella di Vittoria Yeo, che ha  affrontato con timbro omogeneo e fraseggio scolpito le asperità del suo ruolo – di tessitura estesissima e ricco di agilità – assecondando in buona parte la volontà del compositore, che lo scrisse per un soprano “di forza”, confidando nei “polmoni d’acciaio” di Sofia Loewe, interprete nella prima assoluta. Non sempre convincente il Foresto di Stefan Pop, un tenore che ha rivelato una certa facilità negli acuti, per quanto in questa zona la sua voce si assottigli assumendo un timbro un po’ troppo aperto. Davvero autorevole è apparso Julian Kim – già apprezzato dal pubblico veneziano – nella parte di Ezio, sfoggiando una voce ferma e gradevolmente brunita, insieme a un buon fraseggio. Adeguata ai loro ruoli la professionalità di Mattia Denti (Leone) e Antonello Ceron (Uldino). Grande la prestazione del Coro della Fenice, istruito magistralmente da Claudio Marino Moretti. Successo pieno e applausi convinti.