Milano. Teatro alla Scala. Stagione 2016/17
“FALSTAFF”
Opera in 3 atti con libretto di Arrigo Boito da Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff AMBROGIO MAESTRI
Ford, marito di Alice MASSIMO CAVALLETTI
Fenton FRANCESCO DEMURO
Il dottor Cajus CARLO BOSI
Bardolfo FRANCESCO CASTORO
Pistola GABRIELE SAGONA
Mrs. Alice Ford CARMEN GIANNATTASIO
Nannetta, figlia di Alice GIULIA SEMENZATO
Mrs. Quickly YVONNE NAEF
Mrs. Meg Page ANNALISA STROPPA
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Roland Horvath
Allestimento del Festival di Salisburgo (2013)
Milano, 7 febbraio 2017
L’attuale messinscena del Falstaff di Giuseppe Verdi alla Scala è quella del regista Damiano Michieletto, regista di fama mondiale, geniale ma anche spesso controverso. Questa produzione di Falstaff è andata in scena con grande successo al festival di Salisburgo del 2013. Come fa spesso, Michieletto adopera una lettura a doppio filo. L’ambientazione è il salotto di Casa Verdi, la casa di riposo per anziani musicisti che Verdi ha voluto costruire e da lui considerata “la sua opera più bella”. Ci sono dei collegamenti non privi di logica fra la composizione di Falstaff e la costruzione di Casa Verdi, che giocherebbe a favore di Michieletto. L’ottuagenario Verdi lavorava a tutte e due i progetti contemporaneamente e il soggetto shakespeariano che ha per protagonista Falstaff, un vecchio cavaliere in declino, ne fa una partitura tra il brillante e il malinconico. Il regista veneziano si muove su questo doppio binario. Prima che si alzi il sipario viene proiettato un filmato di Casa Verdi e l’antistante piazza, come appare nella quotidianità. Appena si apre la scena, si sentono dei celebri temi verdiani suonati al pianoforte. Da qui si sdoppia la visione registica: in un salotto della casa di riposo, un anziano baritono, seduto su un divano, ricorda la prima esecuzione del Falstaff. Il personale della casa tenta di svegliare, senza successo, l’uomo. Entra quindi la dimensione del sogno: in un unico contenitore scenico (i costumi moderni per i residenti e personale della casa di riposo si rifanno al tardo ‘800), i personaggi dell’opera si mescolano con quelli diciamo “contemporanei”, in quanto vanno e vengono dalle botole e dalle vetrate in fondo scena. Ma così come i sogni possono essere fluttuanti o interrompersi o essere contaminati, pure la linea narrativa finisce per perdersi, vittima del proprio gioco. L’atmosfera onirica si affievolisce e finisce per fare dimenticare l’impeto spontaneo e l’energia vitale dell’originale. Rimangono solo degli scorci di un’esecuzione del Falstaff. I momenti comici del finale del secondo atto, quando Falstaff è nascosto nella cesta, svaniscono in una scena artificiosa e asettica. Così come nel secondo quadro del terzo atto i vasi di palma del salotto, che dovrebbero rappresentare il bosco di Windsor, in realtà si indeboliscono, anche la poetica fantasia della scena si riduce a una grottesca parodia. In conclusione: una regia che, se pur ispirata da un’idea fresca e interessante, la forza, fa smarrire lo spirito dell’originale.
A dispetto di queste considerazioni registiche, la prestazione di Ambrogio Maestri, nei panni del protagonista, è magistrale. Maestri domina magneticamente la scena sotto ogni aspetto, fisico, vocale e teatrale. Rilassato e spontaneo, ironico e sardonico, dava peso e accento alla parte senza inutili forzature comiche. La sua è una prova di assoluta padronanza e identificazione con il ruolo che tradisce le sue 250 recite fatte fin’ora. Le sue capacità di sfumare, colorire e dare i giusti accenti alla linea vocale, di far intendere, di bisbigliare, di aprire la frase e controllarne la potenza appaiono esemplari. Altrettanto ricca di verve e di bellezza del canto l’Alice di Carmen Giannattasio. L’emissione omogenea e il perfetto senso della frase hanno dato il giusto calore al personaggio. Di fatto, anche le altre voci femminili: Giulia Semenzato (Nannetta), Yvonne Naef (Quickly) e Annalisa Stroppa (Meg) hanno brillato per omogeneità, chiarezza e equilibrio. Vanno sottolineati gli interventi di Giulia Semenzato in “Bocca baciata”‘ e in “Sul fil d’un soffio etesio” resi con scintillante purezza ed eterea finezza. Massimo Cavalletti ha reso altrettanto validamente il personaggio di Ford, senza scivolare in inutili platealità. Il Fenton di Francesco Demuro ha mostrato corpo e solidità vocale senza per questo rinunciare alla dolcezza. È riuscito ad unire una dizione chiara e scandita con un legato morbido e sostenuto. Carlo Bosi ha dipinto un dottor Cajus infuriato, gabbato e indignato al punto giusto. Francesco Castoro e Gabriele Sagona, non hanno affatto sfigurato nel delineare Bardolfo e Pistola. Impeccabile il Coro Scaligero preparato da Bruno Casoni. Le scene di Paolo Fantin erano una replica fedele del salotto di casa Verdi, e i costumi di Carla Teti, le luci di Alessandro Carletti e i video di Roland Horvath sono stati perfettamente funzionali alla visione registica.
La direzione musicale di Zubin Mehta è stata contraddistinta da un tratto intimo e raffinato. Grazie a una scelta dei tempi apparsi piuttosto “comodi”, l’orchestra ha suonato con leggerezza e trasparenza e si è distinta per un’articolazione precisa e chiara. Il fugato finale, ‘Tutto nel mondo è burla’ è stato costruito e presentato con grande stile. Ogni attacco, sia orchestrale che vocale, dopo il risalto dato all’esposizione del tema, rientrava repentino e in pianissimo nel sottile gioco dell’intreccio polifonico, facendo emergere nel contempo ogni singola voce. Infatti tutti gli insiemi e i concertati dell’opera erano assemblati e proposti in modo squisito, onorando questo sommo capolavoro verdiano.