Madrid, Auditorio Nacional de Música
Fundación Ibermúsica – Temporada XLVII
Gustav Mahler Jugendorchester
Baritono Christian Gerhaher
Direttore Daniel Harding
Alban Berg: Altemberg-Lieder op. 4
Franz Schubert: «Sei mir gegrüßt, o Sonne» e «Der Jäger ruhte hingegossen» da Alfonso und Estrella
Anton Bruckner: Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore WAB 105
Madrid, 21 marzo 2017
A Madrid non avevano ancora mai suonato insieme, la Gustav Mahler Jugendorchester e Daniel Harding; l’occasione è impreziosita dalla presenza di Christian Gerhaher, che nella prima parte canta Lieder di Berg e due arie di Schubert. Il pezzo forte del concerto, però, viene dalla seconda parte, con la Quinta sinfonia di Bruckner. Un programma che reca l’impronta stilistica di Claudio Abbado, fondatore dell’orchestra a Vienna nel 1986, mentore di Harding e grande frequentatore dell’opera bruckneriana, specialmente nei festival di Lucerna degli ultimi anni. Gerhaher è oggi il liederista imbattibile: mezze voci e chiaroscuri sono gli elementi più affascinanti dell’apporto vocale, ma quelli più profondi derivano dall’interpretazione della parola poetica. Nei brevissimi Altemberg-Lieder Berg inserisce punti critici, come acuti al limite del registro superiore di un baritono, che Gerhaher affronta alla stregua non di virtuosismi, ma di sfide dell’espressività, ricorrendo anche al falsetto, purché l’imprevedibilità giochi a favore dell’espressione radicale. Ogni attacco è incantevole nelle due arie da Alfonso und Estrella, una duplice meraviglia anche sul piano strumentale.
Il concerto è tutto trionfalmente celebrato dal pubblico di Madrid, ma la cronaca della seconda parte merita una piccola riflessione introduttiva. Nella pratica e nell’esperienza sinfonica di oggi, infatti, Mahler e Bruckner rappresentano senza dubbio i due autori più complessi e più frequentati sul piano internazionale. Più di qualunque altro autore, essi incarnano nella loro musica l’espressione del mondo e al tempo stesso la crisi di linguaggio che collega l’Otto- e il Novecento. È abbastanza avvilente per l’uomo postmoderno accettare che gli autori del repertorio sinfonico considerati corifei di un linguaggio universale, e dunque più proposti quali classici della modernità, siano due compositori di sinfonie, morti rispettivamente nel 1911 e nel 1896. Mahler fu buon presago della propria precocità, diventando celebre la sua frase “il mio tempo verrà”; profezia che oggi si può intendere compiutamente anche in termini tecnico-esecutivi. Bruckner, apparentemente più semplice di Mahler nelle strutture linguistiche e nei codici utilizzati, resta ancora oggi in buona misura un enigma. Se la musica mahleriana è un discorso circolare e totalizzante, universale nella scelta dei contenuti e imprevedibile nell’adozione delle forme, la sinfonia bruckneriana è invece un organismo più convenzionale, specialmente nel rispetto delle strutture tardo-romantiche, spesso prevedibile, sempre riconoscibile. Eppure il linguaggio del secondo continua a costituire un codice misterioso, per lo più insondabile, soprattutto se comparato a quello del primo, complesso ma eloquente. Il filtro dell’interpretazione mistico-religiosa che sovente si applica all’ascolto di Bruckner appare più come tentativo di reperire un senso strutturato che non una proposta esegetica complessivamente valida. Per questo motivo ogni esecuzione bruckneriana, assai più di quelle di Mahler, costituisce una sfida notevole per il direttore d’orchestra. Nella maggior parte dei casi egli si limita alla concertazione e all’enunciazione tecnicamente perfetta della partitura – che già è sforzo notevole – conseguente a scelte “equilibrate” in sonorità, ritmi, tempi, accenti. Ma un’autentica interpretazione sarebbe altra cosa. A ogni concerto bruckneriano torna sempre in mente la provocatoria (e certamente malvagia) battuta di Sergiu Celibidache, il quale si domandava negli anni Ottanta se la première di molte sinfonie di Bruckner avesse mai avuto luogo.
Harding, anche perché proviene dalla scuola abbadiana, conosce molto bene questo repertorio, e la sua concezione stilistica nell’affrontare la Quinta è chiara sin dall’inizio: sonorità grandiose degli ottoni, pause dilatate al massimo, leggerezza e rapidità nelle frasi dei fiati. Il contrasto tra la ieraticità e istantaneità nell’enunciazione delle diverse famiglie strumentali produce un effetto espressionista di origine furtwängleriana, mentre sembra più personale il notevole contrasto interno di tempi diversi (sebbene a lungo andare provochi un effetto un po’ schizofrenico). La bellezza del suono della Jugendorchester è fuori discussione: il timbro caldo degli archi, avvolgente e compatto, instaura un dialogo con le diafane consistenze di flauto, oboe, clarinetto, interrotto soltanto dai violenti colpi del timpano. In effetti il Bruckner di Harding è costruito su di un’impostazione dialettica forte e crudele, rispecchiando uno scontro incessante di elementi differenti e irriducibili, che è poi l’esistenza stessa. Il direttore fa apprezzare la complessa stratificazione di motivi e costrutti contrappuntistici in ogni blocco o sezione, accentuando sino alla fine lo schema dialettico adottato all’inizio: l’ostentato scontro di forte e mellifluo lascia spazio, nella stretta conclusiva, al predominare delle trombe, mentre il timpano romba sempre più come un maglio ciclopico. L’effetto è molto efficace e suggella un’esecuzione di grandissimo pregio. La variazione volumetrica, tuttavia, non è che un principio formale della sinfonia bruckneriana: quello sostanziale capace di rivelare il senso ultimo giace ancora nel profondo, forse inattingibile.