Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’opera 2016/2017
“IL TURCO IN ITALIA”
Dramma buffo in due atti di Felice Romani da Caterino Mazzolà
Musica di Gioachino Rossini
Selim SIMONE ALBERGHINI
Donna Fiorilla HASMIK TOROSYAN
Don Geronio NICOLA ALAIMO
Don Narciso MAXIM MIRONOV
Prosdocimo poeta ALFONSO ANTONIOZZI
Zaida AYA WAKIZONO
Albazar ALESSANDRO LUCIANO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Christopher Franklin
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia e scene Davide Livermore
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Nicolas Bovey
Produzione del Rossini Opera Festival
Bologna, 14 marzo 2017
Trama infarcita di metateatro, libretto contorto, incedere di numeri chiusi che (ci piaccia o no) non ha la fluidità sbalorditiva di Cenerentola o Barbiere: tutti motivi per cui mettere in scena Il Turco in Italia è matassa intricata. Che Davide Livermore districò a Pesaro nel 2016 calando un asso: riplasmare l’immaginario di Fellini sulle strutture drammaturgiche dell’opera rossiniana. Perché nell’onirico felliniano tutto è concesso e il materiale abbonda per ammorbidire quelle che al pubblico odierno suonano come incongruenze o fiacchezze. Chi è appassionato del regista riminese gode a scovare le citazioni: il Poeta è calco fedele del Mastroianni di 8 ½, artista in crisi d’ispirazione, che ammansisce le donne del suo immaginario femminile (Saraghina inclusa) a suon di frusta e plasma la trama a furia di copioni battuti e ribattuti a macchina. Neanche a dirlo, Selim ha le sembianze dello sceicco bianco di albertosordiana memoria. Procace come l’Anitona Ekberg di Boccacio ‘70, Fiorilla occhieggia da un cartellone pubblicitario con tanto di scritta “Bevete più latte”. E poi cardinali e macchinisti, Don Geronio si perde in una nebbia da Amarcord, Don Narciso è un pretino che vuole libertà e cela sotto il talare il vestito del Turco ammaliatore. Passerella finale dei personaggi con clownesco coro (la sempre onesta compagine vocale del Comunale) ancora una volta da 8 ½. E quando Fiorilla infarcisce “Squallida veste, e bruna” di improprie variazioni quasi fosse scena di follia e redenzione di languide eroine del Belcanto, chiara e gustosa è l’ironia sull’opera italiana. Per una volta insomma un Turco senza tempi morti, a dispetto d’un Christopher Franklin che in buca ben tornisce certi particolari ma è perlopiù chiassosetto e pesantuccio – e l’Orchestra del Comunale, onesta nei legni, mostra qualche cedimento negli ottoni. Cast efficiente come quasi sempre nelle odierne messinscene rossiniane: ad Hasmik Torosyan non difettano estensione controllo e agilità ed è assai compita, ma è bambolona di poca carnosità, poco terrena e molto cantante. Più generico che in altre occasioni pare il Selim di Simone Alberghini, che però ha sempre bella pasta di suono e ben risuona nella sala del Bibiena. Maxim Mironov si riconferma tenore di grazia numero uno e non basta qualche fuggitivo nasaleggiamento per inficiare la sua performance tutta acuti centrati e timbro chiarissimo. Nicola Alaimo stupisce sempre, tanto è bravo nel piegare una voce robustissima, torrenziale, al perfido sillabato rossiniano (col risultato che il suo Geronio non è macchietta ma ha statura quasi tragica). Il battere in perenne acuto della parte di Prosdocimo non si confà granché ad Alfonso Antoniozzi: si salva con la consueta, grandissima disinvoltura scenica. Affidata a cantanti già adusi alle prime parti la coppia dei comprimari: Alessandro Luciano è onesto Albazar ma di registri non troppo omogenei (e ci scodella pure l’aria di sorbetto) e Aya Wakizono è brunita Zaida con qualche gutturalità di troppo. Produzione dedicata ad Alberto Zedda che doveva dirigerla. Anche a lui dobbiamo il meraviglioso sogno della Rossini Renaissance: utopia realizzata, che rifulge più che mai in questo allestimento ed è adombrata (lo apprendo in corso di recensione) dalla scelta dolorosa del Comunale bolognese di non partecipare più al Rossini Opera Festival. Foto Rocco Casaluci