Genova, Teatro Carlo Felice: “Maria Stuarda”

Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione lirica 2016/17
“MARIA STUARDA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Giuseppe Bardari, dalla tragedia “Mary Stuart” di Friedrich Schiller.
Musica di Gaetano Donizetti
Maria Stuarda, regina di Scozia ELENA MOSUC
Elisabetta I, regina d’Inghilterra SILVIA TRO SANTAFÉ
Roberto, conte Leicester CELSO ALBELO
Giorgio Talbot ANDREA CONCETTI
Lord Guglielmo Cecil, gran tesoriere STEFANO ANTONUCCI
Anna Kennedy, nutrice di Maria ALESSANDRA PALOMBA
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Andriy Yurkevych
Maestro del coro Franco Sebastiani
Regia Alfonso Antoniozzi
Scene Monica Manganelli
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Luciano Novelli
Nuovo allestimento in coproduzione col Teatro Regio di Parma
Genova, 21 maggio 2017
Dopo il “Roberto Devereux”, al Carlo Felice è la volta di “Maria Stuarda”, in attesa di chiudere il cerchio con l’“Anna Bolena” della prossima stagione lirica, già sperimentata al Teatro Regio di Parma. Siamo quindi giunti alla seconda delle tre nuove produzioni ed ancora una volta, per il regista Alfonso Antoniozzi, tutto è finzione. Sembra il backstage ed invece i due camerini preposti al trucco delle protagoniste sono lì, sul palco, mentre alcuni tecnici predispongono la scena e le due regine hanno appena il tempo di darsi un abbraccio d’incoraggiamento, prima di entrare in azione. Un contro sipario si alza e ciack… si gira! Inizia così questa “Maria Stuarda” genovese e prosegue senza che tanto contrasto con un reale fatto storico acquisti un vero valore aggiunto, passando per il déjà-vu della solita Elisabetta “domatrice”. Sulle prime, tali eccentricità sembrano riflettersi anche nei costumi di Gianluca Falaschi, che permette a Roberto di presentarsi con un’ampia gonna arabescata, ma ad un’analisi più approfondita si nota come questi conferiscano all’allestimento quell’originalità che manca alla regia. “Amor mi fè colpevole”, canta Maria, e puntualmente questo si traduce in quel garbuglio di rose che chiazza la candida veste del supplizio. Nondimeno, forme classiche (accompagnate da fedeli acconciature) e toni cangianti attirano o sdoppiano i personaggi, considerato che l’accostamento degli abiti di Stuarda e Talbot forma un rilevante chiasma cromatico, così come la sfumatura bipartita di quelli di Maria ed Elisabetta allude all’ambivalenza del vero. Una verità emblematica ed oscurata dalle opprimenti pareti di Monica Manganelli, che lasciano filtrare a stento i rimandi pittorici dello sfondo, portando al centro un’imponente pedana del potere, tratteggiata da tortuosi paranchi e foschi candelabri, per dare quel tocco di gotico, almeno quanto basta a legittimare l’ambientazione. Il risultato è tanto essenziale quanto significativo, anche grazie alla cooperazione di Luciano Novelli, che nel finale taglia le luci in modo da estendere il simbolismo scenico ad un’inquietante sovrapposizione di croci che, con sagome a diversi livelli di profondità, arriva ad invadere l’analoga posa della regina “cattolica”. Alla contestualizzazione della vicenda contribuisce poi la direzione di Andriy Yurkevych, dove prevale l’amplificazione dei suoni di tromba e degli spari di cannone, che conferisce una certa ufficialità all’orchestrazione. A capo di un cast dal buon livello generale, al direttore va il merito di aver trattenuto la scure dai numerosi tagli di tradizione, bilanciando sapientemente questa scelta con un rapido stacco dei tempi, che ha reso fruibile l’esecuzione nella sua interezza. Semmai, è stata più la discontinuità ritmica di alcune parentesi introspettive a destare segni d’incertezza tra gli interpreti ed ad amalgamare l’analisi dei chiaroscuri in qualche inserto dal sostrato insipido, senza con ciò togliere all’intervento d’arpa il suo momento di suggestione. Dopotutto la “Maria Stuarda” non ha certo una partitura semplice da gestire e, intervallata com’è da momenti in cui l’orchestra non è protagonista, rischia talora di cogliere impreparati, com’è successo alle file del coro di Franco Sebastiani. Sul piano vocale l’attenzione vola a Forteringa, da cui l’eco di Elena Mosuc s’effonde nitido per la sala, dove ogni palpito, tensione o conflitto è proiettato con fini trasparenze, all’interno di uno strumento ricco d’accenti e di armonici. Quel che caratterizza la sua prova è il singolare intreccio nel porgere le frasi, intriso di continui cambi d’intensità sulle messe di voce che rendono la linea di canto estremamente sinuosa ma sempre condotta con sicurezza. Da esperta virtuosa qual è, non mancano cadenze ed acuminate variazioni, tanto che l’interprete si concede perfino un crescendo su uno dei re naturali del registro sovracuto; tuttavia, il connubio tra il languente cinguettio dei filati e lo stacco di colorature coinvolgenti non viene mai meno, perché se c’è una cosa a cui il soprano tiene (e lo fa anche a costo di sfiorare attacchi fissi) è la dedizione alla resa del personaggio, di cui la pungente scena dell’insulto costituisce un’abile riprova. Così, anche grazie ad un’intelligente selezione dei ruoli, l’impronta vocale rimane fresca e solida, vagamente attutita nelle scene d’insieme su tessitura più grave, ma sostanzialmente omogenea ed incline a chiuse di struggente intensità. Alla voce della primadonna si alternava quella mezzosopranile di Silvia Tro Santafé, una scelta atta a mantenere una certa distanza timbrica tra le due rivali. Sebbene le ci voglia del tempo ad uscire dal matronale involucro della parte, le doti attoriali ci sono e volgono progressivamente verso un fraseggio beffardo ed insinuante, con variazioni ritmiche mirate al perseguimento di una condanna già scritta. La Santafé è soprattutto una regina ben centrata, omogenea e dal discreto peso vocale. Un assetto forse anche troppo irremovibile e senza molte velleità cromatiche, ma che dà prova di un equilibrio che l’interprete riesce a mantenere anche quando deve scendere a patti con un vibrato stretto e stridente in acuto, che in altri ruoli, senza poter ripiegare sulle stizzite ripicche della regnante, susciterebbe maggiore scetticismo. Dotato di un timbro caldo, che acquista tanto più smalto quanto più la scrittura si sfoga in acuto, anche Celso Albelo conquista l’apprezzamento del pubblico. Troppa grazia, perché pure una parte senza momenti solistici può tendere i suoi tranelli, soprattutto se si pensa di risolverla sparando un sovracuto isolato (peraltro forzato e poco tenuto), con scarso coinvolgimento scenico e senza un accurato piano dinamico. Difatti il suo Roberto non ha particolari assi nella manica: fatica nel sostegno e mostra poca dimestichezza con i legati, mentre l’emissione nel passaggio e nelle mezze voci è troppo nasale per renderlo un carattere davvero suadente o persuasivo. Tra i ruoli di spalla svettava il basso Andrea Concetti, un Talbot di gusto e dalla fonazione morbida, che non vince per potenza ma per eloquenza di fraseggio e predisposizione alle inflessioni interpretative. L’altro piatto della bilancia non era, invece, equilibrato né dalla flebile e generica Anna di Alessandra Palomba, né dalle incalzanti intromissioni di Stefano Antonucci (Cecil), la cui voce poco ferma e dagli attacchi incontrollati ha trovato parziale riscatto nell’aumentata omogeneità esecutiva al cospetto di Elisabetta.