Opera di Firenze: “Don Carlo”

Opera di Firenze – 80° Maggio Musicale Fiorentino
“DON CARLO”
Opera in quattro atti. Libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, versione italiana di Achille de Lauzières
Musica di Giuseppe Verdi
Don Carlo ROBERTO ARONICA
Elisabetta di Valois JULIANNA DI GIACOMO
Filippo II DMITRY BELOSELSKIY
Rodrigo, marchese di Posa MASSIMO CAVALLETTI
Principessa Eboli EKATERINA GUBANOVA
Il Grande Inquisitore ERIC HALFVARSON
Un frate OLEG TSYBULKO
Una voce dal cielo LAURA GIORDANO
Tebaldo SIMONA DI CAPUA
Il conte di Lerma ENRICO COSSUTTA
Un araldo reale SAVERIO FIORE
Deputati fiamminghi TOMMASO BAREA, BENJAMIN CHO, QIANMING DOU, MIN KIM, CHANYOUNG LEE, DARIO SHIKMIRI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Giancarlo Del Monaco
Regista associata Sarah Schinassi
Scene Carlo Centolavigna
Costumi Jesús Ruiz
Luci Wolfgang von Zoubek
Firenze, 5 maggio 2017
Il Maggio Musicale Fiorentino giunge quest’anno alla sua ottantesima edizione, anche se l’avventura è iniziata più di ottant’anni fa, nel 1933, ma i primi festival non avevano cadenza annuale; si tratta di un compleanno importante, di una venerabile cifra tonda raggiunta dopo un periodo di preoccupazioni e di difficoltà serie. I problemi non sono definitivamente risolti, tuttavia sembra regnare un certo ottimismo e una notevole energia propositiva all’Opera di Firenze, anche se la programmazione ha risentito negli ultimi anni e continua a risentire della necessità di contenere la spese; principalmente e saggiamente è stata la quantità, molto più che la qualità delle proposte, ad essere ridimensionata.
Il titolo di punta del Maggio in corso, dopo un Idomeneo andato in scena in trasferta a Pistoia, capitale Italiana della Cultura per il 2017, è il Don Carlo, l’opera più grandiosa e monumentale di Giuseppe Verdi, nata nel 1867 come Grand Opera e quindi dotata del soggetto tragico e regale, dei canonici cinque atti, dell’alternanza di pathos e piacevolezza e dello sfarzo richiesti dalle scene parigine.
Appena meno monumentale è la versione in quattro atti approntata da Verdi nel 1884 per la Scala che va ora in scena al Teatro dell’Opera di Firenze sotto la direzione di Zubin Mehta.
Mehta, direttore adorato dal pubblico fiorentino, è al suo ultimo Maggio dopo trentadue anni da direttore stabile, prima dell’avvicendamento previsto per il prossimo anno con Fabio Luisi; il suo interesse per il Don Carlo è ben noto e testimoniato dall’averlo diretto nel teatro fiorentino nel 2004, in una produzione che meritoriamente alternava nelle repliche le versioni in quattro e in cinque atti, con un cast piuttosto stellare, e nel 2013 in un’edizione sfortunata che per motivi di budget ha dovuto rinunciare alla regia di Luca Ronconi ed essere offerta al pubblico in forma di concerto. Dunque ad accrescere l’interesse intorno a questo Don Carlo contribuisce anche l’atmosfera se non di un ‘addio’, di un ‘arrivederci’ in grande stile tra il pubblico fiorentino e il suo beniamino, all’insegna di Verdi e di una delle sue opere più impegnative e attese. Lo spettacolo visivamente è molto curato, elegante, ricco, francamente bello.
La scena è sempre perfettamente simmetrica e le architetture sono risolte con solidi puri, lisci, come le facce di un cubo che si può articolare e scomporre, rese preziose dalla texture: una carta geografica antica che mostra la favolosa estensione dei possedimenti spagnoli nel Cinquecento, con i colori volti al negativo, quindi un nero compatto e caldo solcato dalla grafia in color ocra. L’effetto è notevole: al colpo d’occhio la superficie suggerisce la ricchezza austera, quasi lugubre, di un marmo esotico nero con striature dorate, all’analisi più attenta la lettura della carta richiama immediatamente alla mente la forza militare, il potere concentrato nelle mani di un solo uomo, quel Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole, personaggio non presente, ma incombente nel Don Carlo di Schiller e di Verdi. La soluzione astratta ma evocativa degli elementi architettonici è integrata dalla ricostruzione precisa, filologica degli arredi e della possente cancellata in ferro nero e dorato, di forme tardo cinquecentesche, che ancora suggerisce opulenza e severità, in un equilibrio estetico e semantico rigoroso.
Il nero delle scene di Carlo Centolavigna è il colore dominante anche negli splendidi costumi di Jesús Ruiz, curati in ogni minimo dettaglio, con un evidente, puntualissimo studio della ritrattistica dell’epoca, citata sapientemente anche nelle elaborate acconciature. Efficacissime sono le luci drammatiche di Wolfgang von Zoubek.
Qualche perplessità desta la regia di Giancarlo Del Monaco, il quale ha dichiarato di voler essere “più vicino possibile a Verdi e a Schiller”. Se questo significa illustrare il testo in maniera chiara, senza introdurre letture alternative e idee personali in contrasto con il libretto, direi che è stato coerente con le intenzioni, con l’eccezione dell’ultima scena di cui poi diremo. Il problema però è che sembra che i personaggi siano abbandonati a se stessi, che non si sia tentato di dare ad ognuno una caratterizzazione forte, lasciandoli agire con un repertorio gestuale ridotto al minimo e piuttosto convenzionale.
Qualche trovata più incisiva c’è: il gigantesco crocifisso che domina la scena dell’auto-da-fé, visivamente efficace, e la decisione, senz’altro più discutibile, di far morire Don Carlo per mano del padre, trafitto da un colpo di spada, anziché rapito dall’anima dell’avo Carlo V. Vista la scarsa veridicità storica del dramma elaborato da Schiller al quale Verdi si attiene, non mi pare molto felice l’idea di prestar fede alla cosiddetta “leyenda negra”, la tradizione non ufficiale che sfronda gli allori della monarchia spagnola; inoltre la sostituzione di un atto di clemenza soprannaturale – l’anima di Carlo V che si materializza e sottrae lo sconfitto Don Carlo alla sua sorte, dandogli pace in cielo – con un brutale e banale omicidio, altera non di poco i caratteri, dando a Filippo II una fisionomia univoca e sbrigativa, decisamente incongrua.
Tra gli interpreti vocali va segnalata una certa disparità tra il settore femminile e quello maschile.
Premesso che nessuno ha espresso doti da fuoriclasse, interpretazioni di incisività memorabile, una caratterizzazione del personaggio particolarmente potente, le signore hanno esibito una bellezza e sicurezza di canto superiore ai colleghi maschi. Julianna di Giacomo, interprete di Elisabetta di Valois, è un soprano che alterna ruoli lirici e ruoli drammatici; in effetti ha uno strumento ampio e morbido, dal timbro luminoso, non massiccio, ma molto penetrante nel settore acuto; ha affrontato il ruolo con disinvoltura, con un canto ricco di slancio e di colori.
Buon risultato anche per Ekaterina Gubanova, interprete della Principessa Eboli; in possesso di un solido strumento, molto esteso in acuto, tanto da far pensare che certi colori scuri del registro centrale siano un po’ costruiti, si è rivelata già nella “canzone del velo” esecutrice sicura e virtuosa, precisa musicalmente e capace di conferire grazia e languore agli arabeschi; nella grande aria “O don fatale” ha confermato appieno le sue doti con saldezza di mezzi e incisività espressiva.
Simona di Capua ha interpretato il paggio Tebaldo con voce tenue ma di bel timbro e Laura Giordano si è rivelata presenza di lusso come “voce dal cielo”.
Roberto Aronica nei panni del protagonista non ha sfigurato; il ruolo dell’Infante di Spagna è difficile vocalmente e psicologicamente, più impegnativo che redditizio in termini di applausi, forse a ragione disertato o appena sfiorato dalle celebrità tenorili; naturalmente è un ruolo musicalmente molto interessante, con grandi pagine, intense e coinvolgenti. La parte più problematica sta nel dare una fisionomia, una personalità a quest’uomo che si dibatte tra i sentimenti e la ragion di Stato: Don Carlo è un debole, uno squilibrato o un eroe?
Aronica sembra abbia scelto di cantarlo e basta, con risultati vocali apprezzabili, giacché il timbro è piuttosto luminoso quando non accusa qualche segno di fatica, gli acuti sono puntuali e squillanti, solo occasionalmente affetti da una spinta muscolare che li rende un tantino fibrosi. In conclusione la sua è stata una prestazione dignitosa, alla quale sono mancate nobiltà e poesia, cosa che purtroppo lo accomuna agli interpreti dei personaggi di Rodrigo e Filippo II.
Un po’ sottotono,  nei panni del Marchese di Posa, la prestazione di Massimo Cavalletti, interprete per la maggior parte dell’opera abbastanza generico e soprattutto messo in difficoltà dalle numerose salite all’acuto, in cui la voce, che è compatta e di timbro notevolmente bello, si assottiglia, si schiarisce e perde corpo. Gli va dato atto di aver preso quota durante la recita e di aver offerto un buon terzo atto, con un’aria del commiato e una scena della morte caratterizzate da perfetto legato, una certa ricchezza di colori e una resa complessiva convincente, complice anche la magica orchestra di Zubin Mehta.
Luci e ombre presenta anche il Filippo II di Dmitry Beloselskiy; la voce è ampia e corre senza difficoltà, il timbro però non è nobile, anzi piuttosto comune, il registro grave è debole e gli estremi acuti tesi; la frase “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altar” rivela chiaramente i problemi sia in alto che in basso. Le sue frasi legate a mezzavoce però sono piuttosto belle, la grande aria “Ella giammai m’amò” infatti raggiunge esiti notevoli, se si esclude qualche acuto; anche in questo caso è impagabile l’apporto sonoro della magnifica orchestra del Maggio guidata dalla mano di Mehta.
Quasi solo note dolenti vengono dal Grande Inquisitore di Eric Halfvarson che canta con voce dimezzata nelle sue capacità, vuoi per l’età, sessantacinque anni non sono pochi, vuoi per un’allergia che sembra lo abbia colpito; i suoni estremi del registro grave sono ancora impressionanti, scurissimi e granitici, ma al centro c’è più di un ‘buco’ e gli acuti sono risolti con il grido. Però è soprattutto la visione interpretativa che è discutibile: questo personaggio unico nella storia del Melodramma, terribile e sinistro, arbitro della vita e della morte del corpo e dell’anima, così autorevole e minaccioso da mettere in scacco il sovrano più potente della terra, è già compiutamente caratterizzato da Verdi con una delle invenzioni musicali più incredibili della sua produzione per la semplicità e la forza espressiva; l’economia di note e di parole, insieme alle discese negli abissi del pentagramma costruiscono con pochissimi tocchi una fisionomia disumana, ieratica, gelida e spietata. Accentare, digrignando, le sillabe, sostituire il canto con un parlato rabbioso, scuotersi, agitare il bastone vociferando in preda a crisi d’ira, come fa Halfvarson, sminuisce inesorabilmente il personaggio, degradandolo alla macchietta di un vecchio stizzoso.
Oleg Tsybulko canta piuttosto bene la parte del frate, Enrico Cossutta e Saverio Fiore sono funzionali e corretti nei loro ruoli; i deputati delle Fiandre sono ugualmente corretti e professionali.
L’incontro di Zubin Mehta con l’Orchestra del Maggio, che è una compagine di altissimo livello, ed è la sua orchestra da più di trent’anni, produce quasi sempre risultati non comuni, a volte elettrizzanti.
L’ascolto di questo Don Carlo dà l’impressione che, forse per sovrapposizione di impegni diversi, sia mancato il tempo di scavare nell’interpretazione e di trovare quella concordia di intenti e quella continuità di tono, dall’inizio alla fine della recita, che caratterizza le grandi produzioni d’Opera, quell’atmosfera incantata in cui tutto sembra andare al suo posto senza problemi e senza sforzo.
Tuttavia i momenti magici non sono certo mancati: se il primo atto è apparso un po’ secco e sbrigativo, tanto da far sembrare prosaica l’esecuzione del celebre duetto “Dio che nell’alma infondere”, è meraviglioso il tono misterioso, notturno dato a tutta la parte prima del secondo atto; grande splendore ed energia sonora hanno caratterizzato la scena dell’auto-da-fé. Nell’introduzione dell’atto terzo, in tutto l’accompagnamento della scena e aria di Filippo II e nel successivo duetto tra il re e il Grande Inquisitore si è forse toccato il vertice della bellezza sonora e dell’efficacia drammatica, per la giustezza dei tempi, la forza espressiva, i colori orchestrali, ma meritano di essere ricordati anche l’introduzione, intrisa di tristezza, della scena della prigione e una morte di Rodrigo assolutamente commovente.
Il Coro diretto da Lorenzo Fratini ha gareggiato in bellezza di suono e in precisione musicale con l’orchestra. Non tutto è stato perfetto, ma è stata nel complesso una grande serata di Teatro musicale, applauditissima dal pubblico che riempiva quasi completamente la sala dell’Opera di Firenze; un’esplosione di entusiasmo ha salutato l’uscita di Mehta, ma sonore ovazioni ha raccolto anche Julianna di Giacomo; il Coro è stato festeggiato calorosamente, come tutti gli altri interpreti; Eric Halfvarson ha raccolto anche una discreta bordata di “buh”, mentre all’uscita di Massimo Cavalletti si è solo sentito sommessamente rumoreggiare tra gli applausi.