Arena di Verona, 95° Opera Festival 2017
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Temistocle Solera
Musica Giuseppe Verdi
Nabucco GEORGE GAGNIDZE
Ismaele RUBENS PELIZZARI
Zaccaria RAFAŁ SIWEK
Abigaille SUSANNA BRANCHINI
Fenena NINO SURGULADZE
Gran Sacerdote di Belo NICOLÒ CERIANI
Abdallo PAOLO ANTOGNETTI
Anna ELENA BORIN
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Arena di Verona
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Vito Lombardi
Regia e costumi Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Luci Paolo Mazzon
Nuova produzione
Verona, 23 agosto 2017
Nelle infinite discussioni sull’Arena di Verona e sul futuro dell’Opera Festival che il monumento alberga ogni estate si insiste assai poco su di un problema fondamentale per la buona riuscita del teatro musicale: la qualità delle voci coinvolte. È purtroppo acquisito il progressivo declino che caratterizza ogni anno gli spettacoli areniani dal punto di vista vocale: a titoli verdiani e pucciniani molto impegnativi corrispondono per lo più voci insufficienti o inadeguate, troppo leggere o di impostazione scorretta. Non è affatto vero che il pubblico dell’Arena sia poco attento alla resa vocale dei protagonisti di un’opera, perché – a detta di molti – si concentrerebbe più sull’apparato visivo e scenografico; questo pregiudizio non è soltanto all’origine di spettacoli musicalmente mediocri ma anche – ed è la conseguenza più grave – della disaffezione del pubblico italiano e internazionale nei confronti dell’Arena. L’anfiteatro veronese gode di un’unicità che lo mantiene meta costante di turismo musicale e turismo in generale, ma nel corso degli ultimi decenni è venuta meno quella curiosità per le voci che in passato ha riempito e reso grande l’Arena. Nella generale crisi qualitativa era fisiologico che il palcoscenico a cielo aperto di Verona dovesse soffrire più degli altri, ma non sembra di intravvedere in atto alcun tentativo di riscatto; dal momento che le grandi voci sono ormai pochissime, perché non si provvede ad amplificare in modo conveniente quelle di volume più modesto, in modo che gli spettatori possano davvero apprezzare l’arte del canto? Persino nella partitura più “corale” del repertorio areniano sono presenti numeri a solo, duetti e terzetti, che attualmente rischiano di scomparire a causa della scarsa udibilità di gran parte dei cantanti. È difficile che uno spettatore dell’Arena si appassioni al virtuosismo e all’espressività vocali se riesce ad ascoltare soltanto i momenti sinfonici e corali. In un’opera come Nabucco l’effetto drammaturgico si basa su forti contrasti, come quello all’interno della parte II tra scena di Abigaille e concertato conclusivo, o nella III tra duetto di baritono e soprano e coro degli schiavi ebrei. Se però i cantanti non sono in grado di farsi udire (e quando li si sente per lo più deludono ogni aspettativa) il contrasto di forme non si sviluppa affatto, lo spettatore soffre di noia, l’appassionato di frustrazione. Nella società delle immagini e della tecnologia visiva, non è più pensabile che il frequentatore dell’Arena continui a presenziare soltanto perché sedotto dall’allestimento scenico; la nuova Aida della Fura dels Baus e il nuovo Nabucco di Arnaud Bernard sono stati certamente un investimento positivo, ma devono essere controbilanciati da attenzione ancor più marcata per la qualità dei cantanti. Diversamente, sempre più spesso si assisterà a spettacoli complessi e macchinosi (come i due appena citati), al cui interno i personaggi protagonisti annaspano e scompaiono, semplicemente perché le loro voci non si sentono, impedendo al pubblico di comprendere gli affetti ed essere partecipe delle emozioni. E quando il teatro non emoziona è un’operazione meccanica, falsa, fallimentare. È precisamente il caso di George Gagnidze: un Nabucco dalla voce troppo chiara e leggera per imporsi in modo credibile quale sanguinario tiranno e ancor meno quale regnante ravveduto e clemente nel finale dell’opera. Se l’emissione non è abbastanza potente e manca l’amplificazione, il cantante è obbligato a forzare il proprio strumento a discapito del fraseggio e dell’espressività, come l’Ismaele di Rubens Pelizzari. Anche Susanna Branchini gioca tutta la sua prestazione su di un’ostentazione di forza che le si addice solo in piccola parte: abusando dei fiati e dell’intensità di emissione negli acuti e nel tono uniformemente perentorio del porgere, non le resta nulla per supportare le note basse; il fraseggio regale e appassionato di Abigaille è ancora lontano per questo giovane soprano, che forse si sta impegnando troppo in ruoli drammatici (nel corso della stagione areniana ha impersonato anche Tosca). Il miglior cantante della compagnia è senza dubbio Rafał Siwek nel ruolo di Zaccaria; il basso polacco dispone infatti di una cavata ragguardevole, domina senza difficoltà il registro della parte e può quindi permettersi un’emissione adeguata alle sonorità orchestrali, sebbene timbro e fraseggio non riescano particolarmente attraenti (sed monoculus rex in orbe caecorum). Corretti la Fenena di Nino Surguladze e il Gran Sacerdote di Nicolò Ceriani. Prima di tutto per motivi acustici, pertanto, l’Orchestra e il Coro dell’Arena sono i veri protagonisti della rappresentazione: del resto, chi meglio di Daniel Oren conosce le dinamiche e le esigenze areniane? Nonostante l’esperienza, però, la concertazione sortisce un esito discontinuo, a tratti briosa e scattante, a tratti un poco dispersiva. Il coro istruito da Vito Lombardi rivela una preparazione scaltrita e non delude le attese, soprattutto nella scena della parte III che ogni ascoltatore attende con impazienza («Va, pensiero, sull’ali dorate» è ripetuto con grande soddisfazione del pubblico).
A questo punto resterebbe da riferire della parte migliore dello spettacolo, ossia l’allestimento scenico e la regia di Arnaud Bernard, responsabile della nuova e tanto chiacchierata produzione. Un fatto è certo: il Nabucco dell’Arena, al pari dell’Aida del 1913, aveva un gran bisogno di essere rinfrescato con un prodotto di forte impatto visivo ed emozionale. La fondamentale sostituzione della Gerusalemme e della Babilonia bibliche con Piazza della Scala a Milano durante le Cinque Giornate del 1848 è già stata descritta da Raffaella Petrosino per i lettori di «GBopera»; non sarà tuttavia inutile aggiungere qualche considerazione, a supporto della scelta e dello stile di regia voluti da Bernard. In primo luogo due domande: com’è possibile che l’idea di valorizzare l’epoca di composizione dell’opera e restituire l’esplosivo clima risorgimentale italiano sia venuta a un regista francese anziché a un artista di casa nostra? E poi, perché molti recensori hanno criticato l’impostazione, insistendo sull’aporia cronologica, cioè ricorrendo a un argomento che oggi nessuno più utilizza per confutare le scelte registiche? È come se parte della critica e del pubblico italiani si fossero sentiti oltraggiati dal fatto che a rappresentare Nabucco nel tempo e nei luoghi in cui è nato ci abbia pensato uno straniero, e per di più dove da più di un secolo vive la tradizione popolare dell’opera italiana: l’Arena di Verona. In poche e più crude parole, Bernard ha dato una lezione ai registi italiani che fossilizzano Nabucco in un imprecisato conflitto tra ebraismo e idolatria oppure rievocano i fantasmi della Seconda Guerra Mondiale per potergli dare un senso di attualità.
Tornare all’Ottocento, per dirla con Verdi, “è stato un progresso”: colpi di cannone, salve di fucilerie, sfilate di magnifici cavalli, uniformi e bandiere absburgiche contrapposte a logori tricolori, “Viva VERDI” e volantini di propaganda che cadono dai palchi della Scala, barricate di ciarpame e mobilia per le strade di Milano, baionette, roghi; la facciata rotante del Piermarini, il foyer dei palchi con i finestroni oscurati, l’interno della sala gremito di spettatori; e naturalmente popolani, borghesi, tamburini, infermiere, crocerossine, prelati, cappellani crociferi, gonfalonieri, soldati a cavallo, granatieri, fanti, fucilieri; e tanta felix Austria nei costumi e nel trucco di Nabucco e di Abigaille, rispettivamente ispirati al Francesco Giuseppe senescente (più che al maresciallo Radetzki di stanza in Milano) e all’iconografia cinematografica della duchessina Elisabetta di Wittelsbach (vulgo Principessa Sissi nei film di Ernst Marischka) …
C’è, effettivamente, un po’ di mistura cronologica, ma il bello dello spettacolo di Bernard è che non pretende né di essere letto “a chiave” né di mantenersi fedele a un contesto storico dettagliato; insomma, insegue l’idea principale cercando di attuarla fin dove possibile (nella parte IV, con la resipiscenza di Nabucco, non lo è più, e quindi ricorre al metateatro offerto dal palcoscenico scaligero) senza troppi scrupoli di coerenza e senza pedanterie. Non è esaltazione del Risorgimento, non è ricostruzione storica, non è messaggio politico; eppure lo spettacolo funziona molto bene, e piace al pubblico perché ben studiato e realizzato con innegabile cura. Al di là degli effetti più scontati, delle esplosioni e delle cannonate, l’elemento che attira più attenzione è la rappresentazione di un luogo reale (il Teatro alla Scala) all’interno di un altro luogo teatrale (l’Arena stessa): al centro del progetto è quindi l’edificio teatrale, inteso come spazio da presidiare o da conquistare, come se si trattasse del tempio di Gerusalemme o del palazzo reale assiro. Il teatro quale autentico centro della città, contenitore della sua libertà e indipendenza; non è forse un’idea che si concilia felicemente con la storia del melodramma italiano dell’Ottocento? Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona