Pesaro, 38° Rossini Opera Festival 2017: “La pietra del paragone”

Pesaro, Adriatic Arena, 38° Rossini Opera Festival
LA PIETRA DEL PARAGONE”
Melodramma giocoso in due atti di Luigi Romanelli
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,a cura di Patricia B. Brauner e Anders Wiklund
Marchesa Clarice AYA WAKIZONO
Baronessa Aspasia AURORA FAGGIOLI
Donna Fulvia MARINA MONZÒ
Conte Asdrubale GIANLUCA MARGHERI
Cavalier Giocondo MAXIM MIRONOV
Macrobio DAVIDE LUCIANO
Pacuvio PAOLO BORDOGNA
Fabrizio WILLIAM CORRÒ
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Vincenzo Raponi
Pesaro, 14 agosto 2017
La Pietra del paragone è un’opera giovanile, scritta da Rossini ad appena vent’anni, la sesta del catalogo dopo i primi consistenti successi; tali erano state le affermazioni dei precedenti lavori che per la prima volta La Scala commissionò un’opera al giovane maestrino di Pesaro e il gradimento del pubblico del massimo teatro milanese e italiano fu tale che alla prima rappresentazione seguirono cinquantatré repliche. La Pietra del paragone in effetti è già un’opera deliziosa, lieve, divertente, basata su un soggetto semplicissimo che fonde comicità e tenerezza. Vivacizzano la vicenda espedienti già consolidati nella tradizione della commedia, come i due scambi di persona e il finto turco che parla una lingua esotica, di fatto nient’altro che un italiano addobbato con desinenze strane (portara, sequestrara, sigillara… proprio lo stesso “idioma” usato dall’Arlecchino di Goldoni che si finge mercante armeno nella Famiglia dell’antiquario).
Lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, già andato in scena con pieno successo al ROF nel 2002 e oggi riproposto, è elegante, raffinato, di una bellezza sofisticata e chic, animato da un movimento meccanico di concezione geniale e di alta fattura, come il più prezioso e costoso degli orologi. La scena, unica e fissa per i due atti, raffigura l’esterno e l’interno di una lussuosa villa anni ’60, dall’architettura e dall’arredamento tanto essenziali quanto esclusivi, con lampada “Arco” di Castiglioni in salotto e grande quadro di Burri esposto in parete; all’esterno ci sono ampie terrazze, il portico, la zona drink, la piscina e il giardino che si estende abbracciando l’orchestra. I costumi degli interpreti, uomini e donne, hanno i tessuti e la foggia dei capi dell’alta moda internazionale dell’epoca; assolutamente curati ed elegantissimi, cappelli, scarpe e accessori compresi. La regia cammina brillantemente sul filo, coniugando con misura asciuttezza e franca comicità; ogni personaggio è felicemente caratterizzato, la modernizzazione dei tempi e dei luoghi non produce alcuno stravolgimento di significato, anzi addirittura vivifica una materia librettistica non geniale, e rende credibile – pur se strampalata, si tratta di un Melodramma giocoso prima di tutto – la compagnia di amici fatui, assorbiti da occupazioni frivole, rendendoli rampolli del jet set che si corteggiano a bordo piscina. In tale contesto è perfettamente ambientata la caccia al ricco scapolo, e l’interesse della stampa, rappresentata dal sedicente giornalista Macrobio, per le vicende dei giovani, che sono personaggi da rivista di gossip. Le luci di Vincenzo Raponi illustrano sobriamente il passare del tempo, mostrando il tramonto, il crepuscolo e l’alba, oltre a realizzare l’effetto del temporale estivo, con il cielo che si oscura di nuvole e manda lampi. Fin qui i materiali, il progetto, tutti i componenti sono perfetti e di primissima qualità per dar vita a un prodotto d’eccezione. Ma l’orologio non marcia sempre regolarmente e nel migliore dei modi. Anche il modello top della gamma Patek Philippe può dare dei grattacapi se il lubrificante non è quello giusto o c’è una vite allentata. Cosa c’è che inceppa il meccanismo arrivando persino a far scendere un velo di noia qua e là?
Iniziamo dal cast. Paolo Bordogna, nei panni del poeta Pacuvio, mostra ciò che dovrebbe essere un interprete rossiniano brillante, un cantante-attore intelligente e dinamico, capace di illuminare di significato la parola, specie nei recitativi, e di riempire con simpatia e misura i momenti in cui non canta, esercitando l’arte della controscena, che quando è acuta e non convenzionale è roba da artisti di classe. In più ha una voce benissimo emessa, estesa e omogenea e soprattutto una proiezione che la fa correre a meraviglia, senza che vada persa una sillaba. Uniamo a questo la naturale simpatia della sua maschera comica e un’agilità quasi acrobatica – parlo dell’agilità fisica, quella vocale è pressoché scontata – e siamo vicini al meglio che si possa desiderare. Anche Maxim Mironov fa un ottimo lavoro, alle prese con il personaggio meno comico dell’opera; nei panni del Cavalier Giocondo, tenore amoroso tenero e appassionato, esibisce un canto elegante, sfumato e morbidissimo, piega la sua voce non grande, ma perfettamente controllata a tutte le inflessioni, raccogliendo lunghi applausi al termine della sua aria “Quell’alme pupille”. Oltre che un cantante dalla vocalità rifinita è un interprete e un fraseggiatore nobile, dotato però anche di una notevole verve scenica, che mette in bella evidenza quando occasionalmente partecipa a episodi farseschi.
Il resto della compagnia, per vari motivi, resta un gradino, o più, al di sotto. Sono tutti giovani, valorosi e spigliati, bellissime ragazze e bei ragazzi che stanno bene in scena e sanno usare il corpo in maniera abbastanza espressiva, ma questo non basta per restituire il brio, lo spirito, la vita che circolano e pulsano nell’opera quando un fraseggio inerte, o un canto difficoltoso, o una scarsa padronanza della lingua che si riflette sulla piattezza dei recitativi, interrompono il gioco guastando la festa. Gianluca Margheri nei panni del Conte Asdrubale ha voce baritonale leggera nei gravi e chiara negli acuti, che di tanto in tanto gli procurano qualche difficoltà; le colorature sono poco fluide, in compenso il timbro è bello e la figura scenica statuaria. Più sapido ed espressivo è il canto di Davide Luciano che ha buoni momenti, emissione sicura, discreta vis comica. Nel piccolo ruolo di Fabrizio si disimpegna bene William Corrò.
Note dolenti nel settore femminile. Aya Wakizono, più mezzosoprano che contralto, ha un buono strumento, un po’ artefatto nel timbro, probabilmente per cercare un colore scuro che in natura non ha. Il suo canto è assolutamente corretto, a tratti gradevole, quasi mai espressivo: il fraseggio è piatto, i recitativi incolori, la coloratura meccanica. Marina Monzò ha un timbro puntuto, ma penetrante da soubrette, anche lei è corretta nella sua aria da sorbetto, non sufficientemente incisiva in tutto il resto; ha bella presenza e recitazione spigliata. Aurora Faggioli, nei panni della Baronessa Aspasia, è bella e simpatica nella resa scenica della dama snob, ma vocalmente è in difficoltà, esibisce suoni duri e stridenti.
Daniele Rustioni, alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che si conferma ottima compagine, è sempre padrone della situazione: nessuna sezione gli sfugge di mano, tutto è pulito, corretto, piuttosto trasparente e leggibile. Ci sono però cadute di tensione, momenti in cui l’energia latita, la comunicativa si appanna, i tempi si annacquano, come ad esempio nel temporale, abbastanza fiacco. Anche il coro, così tonico la sera prima in Le Siège de Corinthe, appare corretto, ma meno incisivo e non per colpa dell’organico ridotto. Impagabili sono la bravura e lo humour di Richard Barker, maestro al fortepiano, capace di accompagnare magnificamente e di interpolare, con una lievità ed un’eleganza che fanno sorridere di stupore, due battute di Valzer viennese o un accenno di Tea for two con un senso del tempo e della situazione da consumato uomo di teatro.
Alla fine dell’opera il pubblico si rivela entusiasta: ci sono applausi per tutti, lunghi, convinti e ripetuti; diverse poltrone dell’Adriatic Arena sono vuote, ma il volume e la vivacità dei consensi compensano le assenze.