Il doppio finale, o sia l’araba fenice (parte quarta)

In occasione del 450esimo anniversario della nascita del compositore riproponiamo gli approfondimenti a cura del M° Stefano Aresi.
Dai ‘doppi finali’ alle edizioni anastatiche. Alcune considerazioni in merito alla tradizione de L’Orfeo
(parte settima)
La favola boscareccia
La presenza del lieto fine (ossia dell’assunzione in cielo del protagonista) ne L’Orfeo ha altissime probabilità di essere uno dei più tangibili segni del debito pagato dal nascente dramma in musica al genere della favola boscareccia. Così non è, ad esempio, per l’Euridice fiorentina, intrisa sin nel profondo dei lasciti del genere boscareccio ma il cui lieto fine è determinato dallo specifico contesto matrimoniale per cui la rappresentazione fu concepita.
La questione dell’influenza della favola boscareccia è stata già trattata, con una ampiezza di visione sorprendente per l’epoca ed intuito eccezionale, da Pirrotta, nel fondamentale ed ancora validissimo Li due Orfei.40 Per comprendere infine quanto il lieto fine non fosse lontano dagli orizzonti del pubblico e degli ideatori de L’Orfeo mantovano, basti infine citare Sternfeld:

In none of the early operas are the lovers whose emotions dominate the plot united at the end of the work. Orpheus loses Euridice, Apollo Daphne, Ariadne Theseus, Echo Narcissus. As we have seen, this does not necessarily imply a tragic or sad ending. The obligatory lieto fine may be arrived at in a variety of ways: by apotheosis, transporting the sufferer from the vale of tears and transforming him into a constellation; by the metamorphosis of the beloved into a brook or plant; or
by the substitution of a divine lover for his terrestrial predecessor. For a happy finale was de rigueur, be it a chorus or an ensemble of soloists.41

Inaderenza ai modelli letterari?
Già s’è più volte detto dell’indubitabile e inequivocabile influenza di Ovidio, Virgilio e Poliziano su Striggio all’atto della creazione del libretto e quanto tutte e tre le versioni poetiche date al mito di Orfeo da queste fonti terminino col suo smembramento da parte delle baccanti. I sostenitori dell’ipotesi del “finale bacchico” potrebbero far notare quanto, in un contesto colto quale la prima rappresentazione de L’Orfeo, dinnanzi ai membri dell’Accademia degli Invaghiti, una improvvisa non-aderenza narrativa alle auctoritates palesemente prese a modello dal poeta sarebbe parsa una stonatura imperdonabile. Ragionevole. Almeno se non fosse altrettanto plausibile che a Striggio, poeta, sarebbe potuto apparire imperdonabile (e, sinceramente, non premiante ai fini della creazione di una nuova ed autonoma favola) mantenere atteggiamento di asservimento totale alle proprie fonti. Basti pensare che, se il modello seguito fosse stata la stretta aderenza ai classici legati a questo mito, non potremmo godere neppure, a ragion di logica, della scena d’apertura dell’Atto III, poiché è fuor di dubbio che il personaggio di Speranza e il suo dialogo con Orfeo non siano citati in alcun antecedente greco o romano.
Vi è poi da ricordare l’esistenza di un autore latino di non poco conto (e non poca diffusione) che attesta una versione della tragica fine del nostro protagonista utile al poeta per la giustificazione credibile di un finale che preveda l’assunzione al cielo del pastor trace: Gaio Giulio Igino (64 a.C. circa – 17 d.C.), nel proprio De astronomia (noto anche come Poeti con
astronomicon), parla in questi termini (II, 7) della costellazione della Lira:

LYRA intere sidera constituta est hac, ut Eratosthenes ait, de causa, quod initio a
Mercurio facta de testudine, Orpheo est tradita (…) Qui querens uxoris Eurydices
mortem, ad inferos descendisse existimatur, et ibi deorum progeniem suo
carmine laudasse, praeter Liberum patrem; hunc enim oblivione ductus
praetermisit, ut Oeneus in sacrificio Dianam. Postea igitur Orpheus, ut complures
dixerunt, in Olympo monte, qui Macedoniam dividit a Thracia, sed ut
Eratosthenes ait, Pangaeo sedens, cum cantu delectaretur, dicitur ei Liber
obiecisse Bacchas, quae corpus eius discerperent interfecti. Sed alii dicunt, quod
initia Liberi sit speculatus, id ei accidisse; Musas autem collecta membra
sepulturae mandasse, et lyram quo maxime potuerunt beneficio, illius memoriae
causa figuratam stellis inter sidera constituisse Apollinis et Iovis voluntate.
Quorum Orpheus Apollinem maxime laudarat, Iuppiter autem filiae beneficium
concessit. […] Sed ut ad propositum revertamur, Apollo lyra accepta dicitur
Orphea docuisse, et postquam ipse citharam invenerit, illi lyram concessisse.
Nonnulli etiam dixerunt Venerem cum Proserpina ad iudicium Iovis venisse, cui
earum Adonim concederet. Quibus Calliopen ab Iove datam iudicem, quae Musa
Orphei est mater; itaque iudicasse, uti dimidiam partem anni earum unaquaeque
possideret. Venerem autem indignatam, quod non sibi proprium concessisset,
obiecisse omnibus quae in Thracia essent mulieribus, ut Orphea amore inductae
ita sibi quaeque appeterent, ut membra discerperent. Cuius caput in mare de
monte perlatum, fluctibus in insulam Lesbum est reiectum; quod ab his sublatum
et sepulturae est mandatum. Pro quo beneficio ad musicam artem ingeniosissimi
existimantur esse. Lyra autem a Musis, ut ante diximus, inter astra constituta est.
Nonnulli aiunt, quod Orpheus primus puerilem amorem induxerit, mulieribus
visum contumeliam fecisse; hac re ab his interfectum.42

L’idea della Lira in Cielo data da Igino e quella del legame di figliolanza tra Orfeo e Apollo riconosciuto da altre fonti appaiono appigli buoni e sufficienti per giustificare la presenza del finale “apollineo” come non inferiore per dignità a quello “bacchico”, in cui, per giunta, come già detto, la mala sorte dello sventurato amante viene solo postulata per un futuro prossimo.
Una visione aristotelica del dramma?
L’inatteso arrivo di Apollo in scena può trovare ulteriore giustificazione nell’ambito di una lettura in chiave aristotelica (o, meglio, in quella che all’epoca si credeva essere la visione aristotelica della tragedia) dell’intera favola, argomentazione certo non incongruente con la formazione filosoficoletteraria dei membri dell’Accademia degli Invaghiti e i dibattiti da loro intrapresi.
Una interpretazione de L’Orfeo in tal senso è stata data in modo convincente in più sedi da Stefano La Via:43 secondo lo studioso l’arrivo di Apollo sulle scene svolge il ruolo di perfetta peripezia (in senso tecnico) atta allo scioglimento dei nodi del dramma con un credibile (nell’ambito del mito, ovviamente) rivolgimento di uno stato di cose, sorprendente ed improvviso.
Il coro finale, aggiungiamo, fornisce all’ascoltatore, con i propri ultimi quattro versi, una morale dal sapore classico ma perfettamente in linea con gli atteggiamenti cristiani propri dell’epoca controriformistica («così grazie in ciel impetra / chi qua giù provò l’inferno /e chi semina fra doglie / d’ogni grazia il frutto coglie»), una adesione all’anima di un’epoca che sottolinea l’avvenuta peripezia e che nel finale “bacchico” era carente. ( Fine quarta parte )
40 PIRROTTA (1969/1975).
41 STERNFELD (1986), p. 30.

42 HYGINUS (1992).
43 Si veda soprattutto LA VIA (2002).

Per gentile concessione di Philomusica on-line